{57° Capitolo}
"Sometimes life
just slips in
through a back door
and carves out a person
and makes you believe
it's all true.
And now I've got you...
And you're not
what I asked for."
-Sara Bareilles, "She used to be mine"
[Capitolo cinquantasette]
07 Agosto 2012
Alla fine, quando ha saputo della mia gravidanza, la mamma non era tanto arrabbiata o delusa come credevo che sarebbe stata. Anzi, direi che mi sembrava addirittura... Felice. Forse credeva che il bambino sarebbe diventato la ragione che mi avrebbe spinta a riprendermi del tutto e tornare a vivere. Quindi ti lascio immaginare quale sia stata la sua reazione, non appena le ho detto che lo avrei quasi certamente dato in adozione.
Ha iniziato a farmi la morale sul fatto che un figlio è un dono, che non lo si può dare via come se fosse un oggetto, che me ne sarei certamente pentita... Tutte cose che non avevo per nulla preso in considerazione ma di cui, in fin dei conti, non mi importava nemmeno granché.
Alan, invece... Alan, invece, è rimasto impassibile. Non ha detto nulla. Non ha commentato, giudicato, non mi ha consigliata. Mi ha solo lanciato una lunga occhiata torva, addirittura incolpante, poi si alzato dalla tavola, attorno a cui eravamo seduti tutti e tre assieme, ha afferrato al volo la sua giacca e se n'è andato via sbattendo la porta. Non so dove si sia recato. Non so cosa abbia fatto né con chi sia stato. Fatto sta che quando è tornato a casa, il giorno dopo, non mi ha per nulla rivolto la parola, e così per i due giorni successivi. E quel suo gesto mi ha ferita più di quanto avrebbe fatto un qualsiasi suo dissenso.
E, da allora, le nostre uniche conversazioni sono fatte così: di silenzio. Non parliamo, non ci confidiamo, non ci guardiamo negli occhi, non discutiamo nemmeno. Nulla. Solo vuoto, una fessura incolmabile che si allarga sempre di più, sempre di più... Fino a quando non ha raggiunto quello che io definisco il culmine della nostra rottura. Perché conosco mio fratello. Conosco i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi modi di ragionare, le sue convinzioni. E so anche che non sarà mai in grado di accettare diverse posizioni, a causa del suo ego che lo tiene incatenato ad un solo, irremovibile punto di vista: il suo.
Eravamo in macchina, io e lui, di ritorno da un appuntamento con un assistente sociale con il quale avevo discusso circa l'adozione. Gli avevo spiegato i miei motivi per cui avevo scelto quella soluzione e devo dire che era stato anche parecchio comprensivo. Molto più comprensivo di quanto fosse la mia famiglia.
Immagino che già soltanto accompagnarmi per un motivo del genere fosse, per Alan, causa del suo cattivo umore. D'altronde, sebbene non me lo avesse mai fatto presente in maniera diretta, era ovvio che anche lui era della stessa opinione della mamma, nonostante quel bambino fosse il figlio di una delle persone che più odiava e disprezzava al mondo.
Il viaggio era stato silenzioso, come ogni altro luogo o momento in cui io e lui ci trovavamo da soli. Forse è per questo che, una volta parcheggiata la macchina davanti all'entrata del garage di casa nostra, mi slacciai rapida la cintura ed aprii la portiera, pronta a balzare fuori e correre via da quell'aria che mi toglieva il fiato.
«Non devi farlo per forza»
Mi bloccai, le dita ancora attorno alla maniglia, il piede già fuori, posato sul selciato del vialetto di casa. Il suono improvviso della sua voce mi fermò, e mi stupì. Come se mi fossi già abituata all'idea che non avremmo più parlato, noi due.
«Voglio dire, tu... Tu potresti davvero crescerlo da sola»
Girai il capo verso di lui, trovandolo con gli occhi fissi davanti a sé, le mani che stringevano il volante, un'espressione che tentava il più possibile di essere ferma, glaciale, distaccata.
«E crescerlo come siamo cresciuti noi?» replicai. «Non mi sembra poi un'ottima prospettiva di vita»
«Tu non sei mamma. Tu puoi fare di meglio» Fece una breve pausa, durante la quale prese un respiro, come se si fosse ripreso da un'apnea inconscia, e mi lanciò una velocissima occhiata. «Non... Non dirle che te l'ho detto»
«Al...» cominciai, riportando il piede all'interno dell'abitacolo e accostando la portiera. «Sta' a sentire: è una mia decisione, okay? Cerca di non intrometterti»
«Intromettermi?!» ripeté lui, alzando la voce. «Per l'amor del cielo, Jane, stiamo parlando di un bambino! Di un essere umano, e non di un banale piano di studi!»
«È solo un moccioso...»
«È tuo figlio, Dio santo!» urlò, voltandosi di scatto verso di me, gli occhi castani furenti di rabbia. «Ed è anche mio nipote. Non credere che non sarei capace di volergli bene, nonostante sappia chi sia il padre»
Si fermò di nuovo, questa volta più a lungo, lasciandosi andare con la schiena sul sedile. Restammo immobili in quel silenzio, ed io riuscivo a capire se stesse aspettando una mia risposta o se il suo rimanere muto fosse voluto affinché mi gravasse addosso il peso di una colpa che, però, non riuscivo a sentire.
«Di sicuro gli vorrei più bene di quanto avrebbe fatto lui»
Ma se il suo silenzio non era riuscito ad avere alcun effetto su di me, quelle parole, invece, mi pesarono addosso con la gravosità di una montagna. Mi schiacciarono. Mi mozzarono il respiro, mi fecero capire di aver appena riaperto una ferita che stavo ancora tentando di far cicatrizzare.
«Scusami?!»
«Andiamo, Jane: sappiamo benissimo entrambi che lui se ne sarebbe altamente fregato, di questo bambino» ribatté Alan, sbuffando, come a farmi intendere che quella fosse la conclusione più logica e ovvia di tutte. «Anche se fosse ancora in vita, non sarebbe mai stato in grado di fare il padre. Sarebbe scappato dalle sue responsabilità e tu saresti stata comunque costretta a crescere un figlio da sola»
«E tu cosa ne sai? Nemmeno lo conoscevi»
«Non è di certo necessario un genio per capire che razza di persona fosse»
Eccolo, ricominciava. Quella solita cantilena sul fatto che abbia commesso un errore, fidandomi di Sherlock. Che lui non era altro che un bastardo, ai livelli del peggior criminale di tutto il Regno Unito. Ed io ero stanca di sentirmelo dire. Stanca di vedermi costretta a controbattere, a proteggere la sua memoria, a mettere in chiaro quello che lui davvero era. E, soprattutto, ero stanca di sentirmi come se il mio giudizio fosse quello sbagliato, rispetto a quello degli altri. Come se tutti cercassero soltanto di farmi cambiare idea, senza nemmeno provare ad entrare all'interno della mia prospettiva.
Scesi dall'auto, veloce come una furia, e sbattei la portiera con forza. Mi diressi a grandi passi verso l'ingresso della nostra piccola villa in Willbert Road, con Alan che mi seguiva in fretta e tanta rabbia che cercavo di spegnere, inutilmente.
«Non capisco perché ti ostini tanto a difenderlo!» mi urlava lui, alle spalle, senza nemmeno avere la decenza di entrare in casa. «Ti ha spezzato il cuore! Non ha fatto altro che usarti e mentirti, usarti e mentirti»
Si fermò di nuovo, dandomi, forse in maniera del tutto involontaria, un attimo solo di tregua. Mi tolsi velocemente la giacca e la misi distrattamente sull'attaccapanni all'ingresso, così come buttai nello stesso angolo anche le scarpe, solo per potermi al più presto rifugiare nel silenzio delle quattro mura della mia stanza.
«Era un pessimo individuo e non ha fatto del male a nessuno, suicidandosi» continuava Alan, gli occhi fissi su di me che, imperterrita e senza degnarlo di uno sguardo, salivo in fretta le scale. «Quello psicopatico non si merita la tua stima»
«Basta, smettila!»
Gridai. Mi voltai, dall'ultimo gradino, e gridai. Per la prima volta, a distanza di settimane, gridai. E quel mio urlo prese la forma di una ribellione. Gridai, e nel farlo afferrai le parole di Alan, stringendole forte in una mano, fino a ridurle in una polvere sottile che mi scivolò tra le dita e si perse nel vento.
«Smettila di parlare di lui in questo modo, smettila di dipingerlo come... Come se fosse un dannato mostro! Lui non era un mostro!»
Mio fratello mi guardava, dal basso della rampa, sconvolto. Non se lo aspettava, ecco tutto. Lui non credeva che io sarei stata capace di provare qualcosa di tanto forte per qualcuno, così forte da spingermi a proteggerlo, a dedicare tanta attenzione, tanta caparbietà ad una persona che, piuttosto, avrei dovuto odiare. Non dopo tutte le promesse che non avevo fatto altro che ripetere a tutti, e a me stessa.
«Lui era una persona straordinaria e tu non potrai mai capirlo, perché ti limiti a credere a quello che tutti gli altri dicono sul suo conto!»
Gridai, è vero, ma le lacrime non riuscii proprio a trattenerle. In questi ultimi tempi, piangere mi riesce piuttosto facile. Anche quando non vorrei farlo. Ed è sempre un casino, perché in questo modo non riesco a trasmettere le sensazioni che provo e voglio che gli altri capiscano. Anche allora, senza volerlo, piansi. Mi portai le mani sulla fronte, così da proteggermi il viso con gli avambracci. Mi chinai, singhiozzai. Chiusi gli occhi e pregai affinché Alan la smettesse, con quella sua idea. Non sono sicura a chi rivolsi quella mia richiesta. Forse al Dio in cui credevo a malapena. Forse alla nonna, che mi mancava così tanto. Forse a te, sebbene sapessi bene che non mi avresti mai udita. Forse lo chiesi ad Amy, forse lo chiesi a Sherlock. Lo chiesi a tutte quelle persone che non avrebbero potuto aiutarmi, neppure volendo. Mi ritrovai sola, di nuovo, nonostante tutte le volte che Alan mi aveva garantito quanto non fosse vero. Che io, in realtà, avevo qualcuno ad aiutarmi a combattere contro i miei nemici invisibili.
Si sbagliava. Ed io mi sbagliavo come lui.
«Sai una cosa?» ripresi, tirandomi su di scatto, senza nemmeno aspettare che il mio cuore si calmasse. «Tu sei colpevole del suo suicidio quanto loro. Tutti pensavate che non potesse esistere nessuno di così intelligente, ma la sola verità è che lui era troppo intelligente per ognuno di voi»
Non attesi una sua risposta. Non m'importò sapere quale sarebbe stata la sua prossima scusa. Corsi via per chiudermi in camera, girando più volte la chiave nella serratura. Voltai le spalle, ma non fui in grado di muovere un solo altro passo. Scivolai lentamente a terra, come tirata da una mano che aveva intenzione di trascinarmi con sé nel più profondo degli Inferi. Mi nascosi il viso tra le ginocchia, e ripresi piano il mio pianto. Perché quella fu anche la prima volta, dopo interi mesi, in cui ebbi di nuovo il coraggio di mettere chiaro le cose, ottenendo come unico risultato il sentirmi di nuovo sola, più di prima.
18 Agosto 2012
Da quando sono tornata a Nottingham, mi sento come se tutto quello che ho fatto, scappando da qui, non sia servito praticamente a nulla. Tutti i progetti e le aspettative, le promesse e la voglia di qualcosa di nuovo, di diverso, di migliore... Mi hanno solo riportata qui, nella mia città natale, nella mia vecchia casa, con la mia vecchia vita. Ogni cosa, anche la più minima, sembrava non aver subito neppure un minuscolo cambiamento. L'unico elemento nuovo e fuori posto ero io.
Perché sì, io sono nuova. Sono diversa. Con in testa altri pensieri, altre idee, altre esperienze. E porto con me un piccolo essere vivente che veglia sul mio sonno in attesa di abbandonare il suo buio per venire a conoscere la luce. Che, forse, è un po' la stessa cosa che avevo fatto io decidendo di andare a Londra e cambiare vita.
Tornando a Nottingham, mi è parso di star ammettendo una sconfitta che avevo cercato in tutti i modi di non vedere. Come se stessi ammettendo che il buio sia migliore della luce, che conoscere il mondo non porti altro che dolore, a differenza del rimanere ancorati alla sicurezza di un luogo conosciuto. Come se stessi ammettendo che, in fin dei conti, Alan e la mamma avevano ragione: allontanarmi dal nido è stato sbagliato.
Ma non è così. Io non mi sento sconfitta, non mi pento di essere andata a Londra e di aver vissuto quel che ho vissuto. Ho solo pensato che, dopo i recenti avvenimenti, sarebbe stato meglio tornare a casa e provare a riprendermi in un luogo che mi trasmettesse pace, calma, sicurezza. Ed ora come ora, non so nemmeno se sia stata la scelta migliore da fare.
Tornare alla "normalità" equivale a sottomettermi alla tortura di essere di nuovo incompresa, dopo aver cercato con tutta me stessa un luogo in cui sentirmi a mio agio. Ed io non posso, non riesco a sopportare anche questo fardello sulle mie spalle. È troppo difficile, per me.
Non pretendo che chi mi sta attorno capisca quello che sto passando. Vorrei solo... Solo che mi appoggino. Che mi facciano davvero intendere che non sto combattendo da sola, che non è necessario che sia l'unica a prendermi tutte le responsabilità di questa situazione.
Ma è difficile. Davvero tanto difficile.
Persino con Alan qualsiasi tentativo di conversazione si fa vano, senza significato. Più io provo a spiegargli come sto e meno lui si sforza di capirmi. Erano anni che non mi capitava di vivere una situazione del genere, con lui.
Penso che la prima incrinatura che ha piegato il nostro rapporto sia avvenuta proprio perché non ha mai accettato che io mi trasferissi tanto lontano da casa. E col passare dei mesi, peso dopo peso, qualcosa ha incominciato a creparsi. In particolare con l'arrivo di Sherlock nella mia vita.
Ad Alan, diciamocelo, la sua presenza non è mai andata a genio. Più volte ha cercato di convincermi a stare alla larga da lui, facendomi notare quanto fosse anormale, pazzo, pericoloso. Usava gli aggettivi più negativi per descrivere una persona che nemmeno conosceva. Ed è stato questo l'aspetto che, forse, mi ha dato più fastidio del suo atteggiamento nei miei confronti: giudicava, e giudica tutt'ora, solo la superficie. Come tutti quanti hanno sempre fatto con me.
Forse è per questo che mi ha posto quella domanda, oggi, a pranzo. Credo che si sia in parte accorto di avere nella testa un dubbio che solo io potevo sciogliere.
Eravamo entrambi seduti a tavola. La mamma aveva dovuto scappare per tenere una delle sue lezioni di pianoforte, quindi a mangiare eravamo solo noi due.
Quello poteva essere forse il momento ideale per poter parlare un po', per chiarire quel che c'era da chiarire, senza doverci curare di qualsiasi dettaglio che ci bloccasse, come le incitazioni di nostra madre a fare la pace. Invece, rimanevamo in silenzio, le bocche che si muovevano solo per masticare e gli occhi bassi, chini sui piatti.
O io, perlomeno. In realtà penso che lui mi stesse osservando. Avevo come la sensazione di sentire il suo sguardo sulla nuca, fisso e insistente, quasi intendesse trovare da sé una risposta alla domanda che voleva porgermi. E poi, quando si rese conto di non poterlo fare soltanto col tentativo di leggermi, decise di chiedermelo direttamente e basta.
«Posso sapere cosa ci trovavi di tanto speciale in lui?»
Alzai di scatto lo sguardo e ricambiai il suo. Iniziai a fissarlo, e fissarlo, in silenzio. Rimasi con gli occhi immobili nei suoi a lungo, forse per una decina di secondi, muta e fredda. Cercai una risposta dentro me stessa. La trovai ma, alla fine, chinai di nuovo il capo senza dire nulla, non tanto perché non sapevo esattamente cosa rispondergli, ma perché non volevo rispondergli. Non credevo che sarebbe effettivamente servito a qualcosa, perché sono abbastanza sicura che Alan avrebbe preso le mie parole come quelle di una povera disgraziata vittima dell'effetto di qualche misterioso e potente maleficio.
Il punto è... È che io, in Sherlock, avevo trovato tutto. Lui era... Diverso. Diverso, come lo ero io. È stata la prima persona a credere in me senza pretendere nulla in cambio, l'unico che non mi ha fatto sentire come se fossi un errore.
Sherlock era capace di ascoltarmi per ore ed ore, senza che mi fermasse mai, nemmeno quando mi capitava di ripetergli involontariamente qualcosa che lui già sapeva. Mi riascoltava all'infinito, in silenzio. Poi faceva le sue solite considerazioni, io mi arrabbiavo per la sua totale mancanza di tatto e ogni cosa finiva lì, con un broncio che non riusciva mai a durare a lungo.
E nonostante questo, nonostante io sentissi, in qualche modo, che lui non sempre era in grado di capirmi, non riuscivo proprio a fare a meno di parlargli di me. Era una cosa che mi veniva naturale e basta. Forse perché da Sherlock non mi sentivo giudicata, sebbene lui, effettivamente, mi giudicasse eccome. Magari credevo che le sue sentenze nei miei confronti non avessero alcun peso, dato che lui era pieno di difetti quanto me.
Oppure... Oppure era solo perché nessuno mi aveva mai ascoltata in quel modo. Nessuno era capace di capire i miei pensieri come li capiva lui. Gli bastava giusto qualche mia risposta vaga e faceva delle mie parole gli strumenti necessari per dedurre qualcosa su di me. Senza che io fossi costretta a dirgli nulla apertamente. Sherlock ha sempre tentato di capirmi da solo.
Ed io... Io non riesco a capire cosa lui avesse trovato di speciale in me. Forse nulla. Forse ero soltanto io che avevo creduto di poter contare qualcosa per qualcuno, almeno una volta.
Era solo un'illusione come tante altre.
26 Agosto 2012
C'è una sola cosa che mi è stata più volte chiesta, da quando ho scoperto di essere incinta: se avessi mai preso in considerazione l'idea dell'aborto. È una domanda che mi hanno posto praticamente tutti: dalla mamma, da John, persino dai medici.
Sembrerà strano, ma la mia risposta è sempre stata no. In un certo senso, non me la sono nemmeno mai sentita di pensarci. So quello che accadrebbe al bambino, so quello che accadrebbe a me. E anche solo conoscere il come avviene mi ha fatto totalmente escludere quella possibilità fin da subito. Il che è un po' un controsenso, non ti pare? Insomma, non voglio abortire ma non voglio nemmeno tenerlo, e ciò vuol dire che dovrò affidare questo bambino alle cure di qualcun altro. Abbandonarlo, insomma. Come tu hai fatto con me.
Quando mi sono ritrovata faccia a faccia con questa realtà, mi sono resa conto di star facendo un gesto tremendamente ipocrita. Sto compiendo un'azione ignobile, che probabilmente condizionerà parecchi aspetti del suo carattere, del suo modo di agire. Un'azione che è stata fatta anche a me, e che io non sono mai riuscita a giustificare, ad accettare, a comprendere.
Eppure era l'unica soluzione possibile, l'unica che mi sembrasse giusta: preferisco preservare questa vita e darle un'occasione per un futuro migliore, piuttosto che tenerla e farle del male o gettarla via e sprecarla. E poi, in un certo senso, credo che lui invece capirà, quando lo verrà a sapere. Si renderà conto che le circostanze, il momento, o anche semplicemente la mia condizione non mi avrebbero mai permesso di dargli la vita che meritava. È ormai l'unica speranza che mi resta.
Perché anche la comprensione, in fondo, è piuttosto sottovalutata. A volte, persino complicata da raggiungere. Nel mio caso, ad esempio, capire il motivo per cui te ne sei andato è praticamente impossibile. Lo è sempre stato. Soprattutto perché lo hai fatto solo dopo la mia nascita. Sei stato capace di aspettare nove anni della vita di Alan, ma soltanto tre della mia. Ti ho sempre odiato più del dovuto, per questo.
Per anni, sono stata fermamente convinta di essere stata io la causa della tua dipartita, il motivo per cui ti eri sottratto alla responsabilità di fare il genitore. Non ho fatto altro che odiarmi, nel corso della mia infanzia e adolescenza. Odiarmi e convincermi di essere una specie di calamita che funziona al senso inverso, con un polo unico, in grado soltanto di respingere le persone.
Ho impiegato anni, per riuscire finalmente a rendermi conto di chi davvero io fossi. E alla fine, avevo iniziato a vedermi per quello che realmente ero: una ragazzina piena di sogni e aspettative che sperava solamente di realizzare, così da essere in grado di capire dove fosse il suo posto nel mondo.
Avevo trovato quel posto, alla fine. Dopo tanto peregrinare, avevo capito che il mio posto era insieme a Sherlock, perché in lui avevo trovato, per la prima volta, qualcuno di davvero simile a me, nonostante nessuno dei due avesse mai avuto il coraggio di ammetterlo. Credo sia anche per questo che non faccio altro che proteggere Sherlock e la sua memoria: perché io sono consapevole di quali siano i veri mostri. E lui non lo era. Te lo posso garantire: non lo era. Nel corso della mia vita, ho imparato a distinguere il bene dal male, lo sbagliato dal giusto. E ti assicuro che né io né lui rientravamo nell'insieme in cui tutti ci classificavano.
Dopo anni, avevo finalmente capito di non essere mai stata io quella da incolpare, che io non avevo mai fatto nulla di male, se non esistere. E nonostante tutto, non sono mai riuscita a pentirmene o desiderare di non essere mai nata. Mai. Perché ero convinta che l'aspettativa di chi sarei diventata sarebbe stata la migliore delle rivincite.
Spero solo che anche mio figlio faccia lo stesso ragionamento. Lo spero con tutta l'anima.
10 Settembre 2012
Ci sono davvero pochissime cose di Nottingham che mi sono mancate: le passeggiate nella foresta di Sherwood, la pace della notte, il mio pianoforte. Che mio, tecnicamente, non è, ma alla fine è come se lo fosse. Più che altro, è a lui che appartiene una parte di me che soltanto pochi sono riusciti davvero a conoscere. Il pianoforte ha formato una parte di quello che sono, modellato il mio approccio allo studio. E, soprattutto, è sempre stato una sorta di amico in grado di trasformare in note le parole che non sono mai stata in grado di dire.
Ogni tanto, durante le mie giornate peggiori, mi siedo davanti alla tastiera, senza particolari attenzioni. Poso le dita sullo smalto bianco, la punta del piede sul pedale, e comincio a suonare. E all'improvviso tutto, attorno a me, sparisce. Non esiste nessun altro rumore, l'aria si ferma a sentire. Le corde e il legno vibrano sotto al mio tocco e quell'energia si libera nello spazio, riempiendo la casa di armonia. Quelli sono i pochi, effimeri, fuggevoli e rari momenti in cui mi sento davvero in pace con me stessa. In cui non importa quello che accade, come mi sento. In cui le forze negative si annullano. In cui mi domando se valga davvero la pena di lasciarsi morire così, come sto facendo io, nel buio della mia anima, quando fuori, da qualche parte, il sole splende, riempie di luce tutto quello che incontra, e la musica suona. Momenti in cui mi domando persino come abbia fatto a ridurmi in questo stato assurdo.
Qualche giorno dopo la mia litigata con Alan, mi ritrovai, senza neanche accorgermene, seduta davanti al pianoforte, le dita che, lente, si muovevano per i tasti in maniera automatica. Non avevo uno spartito davanti a me, ma solo la memoria che guidava le mie mani, mentre i pensieri, sempre immortali e tormentosi come demoni, si placavano e zittivano, come ipnotizzati anch'essi dalla melodia. Andai avanti per parecchi minuti, forse una ventina. Probabilmente non facevo altro che ripetere lo stesso pezzo, senza rendermene conto. Ma, ad occhi chiusi e alcun pensiero, nulla davvero importava. Nemmeno la correttezza delle note.
«Il Decimo Notturno di Field»
Sollevai piano le palpebre e girai il capo verso l'entrata del salotto, dove la mamma, in piedi, mi osservava con un sorriso dolce stampato sul volto.
«Quando eri piccola lo odiavi. Non riusciva proprio ad entrarti in testa»
Accennai appena un sorriso nostalgico, voltandomi di nuovo, per poi togliere le mani dalla tastiera. La sentii avvicinarsi, con passo leggero, e sedersi accanto a me sullo sgabello.
«Mentre, ovviamente, il tuo preferito era il Preludio Quindici, opera ventotto, di Chopin, anche detto...»
«"La goccia d'acqua"» risposi prontamente, a voce bassa. Così bassa che per un secondo temetti di dover ripetere.
Lei, però, non mi chiese nulla. Posò soltanto le dita sui tasti e attese. Non suonò. Rimase in silenzio, senza azzardarsi a proferir nota, forse aspettando un cenno da parte mia. Come per farmi intendere che io avevo ancora la capacità di far partire qualsiasi musica, progetto o vita che volessi, senza forse sapere che io non ero altro che una direttrice d'orchestra senza più la sua bacchetta, simbolo della sua importanza.
A differenza di Alan, la mamma ha palesato sin da subito la sua totale disapprovazione nei confronti della mia scelta per il futuro del bambino. Non ha esitato un solo istante a farmelo sapere. Me lo ha detto con calma, con furia, con disperazione, con le lacrime agli occhi... Me lo ha ripetuto in tutti i modi possibili, senza ottenere alcun successo. A causa di questa sua insistenza, mi sono chiesta se abbia davvero capito le mie ragioni. Forse no. Non lo so. Non sono in grado di capirlo.
La mamma è sempre stata, per me, solo una fonte inesauribile di incomprensione ed incognite. Io e lei non siamo mai riuscite ad avere una vera e propria conversazione "tra madre e figlia", perché, in un certo senso, non l'abbiamo mai cercata.
Magari, la mia gravidanza ci ha avvicinate più di quanto non avrebbe mai fatto qualsiasi altro evento. Potrebbe persino aver cucito tra noi un filo sottile, un legame fragile ma potenzialmente indistruttibile. Un filo che, forse, non è riuscita a farle capire le mie ragioni, ma che ha certamente fatto capire a me le sue.
«Come stai, oggi?»
Aspettai qualche secondo, prima di rispondere, dato che io ero proprio l'ultima persona a sapere come stessi. Alla fine, non feci altro che stringermi nelle spalle, senza preoccuparmi troppo della banalità della mia risposta.
«Come tutti gli altri giorni»
«Però sei venuta qui» mi fece notare lei, sorridendo. «È un bel traguardo, non trovi?»
«Avevo solo bisogno di non pensare per un po'»
Restò di nuovo muta. Sospirò, con lentezza. Sfiorò dolcemente i tasti, quasi carezzandoli, cercando forse tra le loro crepe e fessure le parole adatte con cui rivolgersi a me. Come se sapesse che il pianoforte le conosceva.
«Jane, ascolta...» iniziò, la voce flebile. «Io ed Alan... Stavamo pensando al fatto che, magari, parlare con qualcuno di esterno alla famiglia potrebbe aiutarti, ad esempio con uno psicologo»
«Non ho alcun bisogno di condividere i miei problemi con un completo sconosciuto»
«Ma Jane...»
Non le permisi di finire. Sapevo già cosa avrebbe detto. Sapevo già le cose che pensava di me, della mia situazione, e conoscevo le soluzioni che per lei erano giuste, ma che non lo erano per me.
Suonai le prime note del Preludio Venti di Chopin. Note gravi, pesanti e arrabbiate, che riempirono il salotto di musica forte e vibrante. Eppure, più andavo avanti e più rallentavo, mi indebolivo, le note si addolcivano sotto il mio tocco, come un febbricitante che trova finalmente sollievo nel sonno. Suonai l'ultimo accordo quasi con sollievo, scaricando la tensione, accumulata nelle spalle e nella testa, attraverso il tasto. Rimase lì e si spense, morendo lentamente nell'aria. Quello che seguì fu solo il suono dei nostri respiri silenziosi, dei nostri cuori invisibili, dei nostri pensieri incessanti e tra loro inevitabilmente opposti.
«Non puoi continuare così» riprese lei, con una voce risoluta che mi fece alzare all'improvviso.
Tentai di scappare da quella sua ennesima ripetizione, quella sua insistenza che non mi permetteva di essere sicura delle mie scelte. Mi alzai, senza una parola, ma solo tanta indignazione che, preso possesso della mia mente, mi trascinava con sé verso una nuova fuga.
Sentii la mamma alzarsi, quasi gettandosi verso la mia direzione. «Jane!»
Mi fermai, mordendomi le labbra, e chiusi gli occhi. Non so se per contenere la rabbia o le lacrime, il mio grido o la tristezza. Non lo so. So solo che mi fermai per il modo in cui lei mi aveva chiamata, la voce con cui aveva pronunciato il mio nome, che per un attimo mi parve intrisa anche di tutta la mia disperazione. Come se l'avessi trasmessa a lei, in qualche modo. E io non riuscivo a decidermi tra il sentirmi adirata perché credeva di sapere come mi stessi, e il commuovermi perché non mi ero mai sentita così vicina a lei.
«Ti prego, Jane...»
«Non ho bisogno di nessuno» la interruppi, senza nemmeno rivolgerle uno sguardo. Per paura, forse, di trovare nei suoi occhi la certezza che io non avevo. «Voglio solo rimanere da sola»
Uscii dal salotto a passo rapido, con l'unica intenzione di rinchiudermi, ancora una volta, in me stessa.
'Magari,' mi dicevo. 'sarà la volta buona in cui mi deciderò anche a gettare via la chiave'
Corsi verso le scale, per quanto la mia stanchezza me lo permettesse. Fuggivo, in un certo senso, e ne ero consapevole. Fuggivo per nascondermi da un altro scontro, da un'altra probabilità di spezzare un rapporto, sebbene non ci fosse nemmeno mai stato sul serio. Eppure, non appena fui sul punto di raggiungere la porta della mia stanza, sentii le parole della mamma afferrarmi e sfidarmi comunque in una lotta che stavo cercando di evitare.
«Sei proprio come tuo padre, sai?!» gridò, cominciando a venirmi dietro. «Anche lui pretendeva sempre di fare tutto da solo, non voleva proprio mettersi in testa di essere un essere umano come tutti gli altri!»
Mi voltai di scatto, ritrovandomi a fronteggiarla. «Non...» cominciai, furente di rabbia. «Ti azzardare a paragonarmi a lui» scandii bene, puntandole minacciosa un indice contro.
«E invece lo faccio!» replicò lei. «E sai perché? Perché, nonostante questa tua perenne avversione, lui rimane comunque tuo padre! Gareth Aldernis è e sarà sempre tuo padre!»
«Quell'uomo non sarà mai niente per me, mettitelo bene in testa!» gridai a mia volta, senza riuscire a trattenermi. «Non mi ha dato nulla se non dolore, non è stato in grado di prendersi le sue responsabilità e mi ha abbandonata!»
«Ed è esattamente la stessa cosa che tu hai intenzione di fare con tuo figlio!»
Fu in quel momento, in quell'esatto momento, con quelle esatte parole, dette proprio con quella voce, che mi accorsi che qualcosa non andava, nel mio ragionamento. Che cosa fosse, però, non ero ancora in grado di dirlo. L'unica cosa di cui sono tutt'ora convinta è che fu in quell'istante che sentii qualcosa rompersi, dentro di me: una certezza. La mia verità assoluta.
Perché in quel momento mi resi conto di quanto effettivamente ti somigliassi. Non tanto per il mio modo individualista di risolvere i problemi, quanto... Quanto per la soluzione che avevo in serbo per quei problemi. Solo allora mi resi conto che la mia decisione non era stata dettata solo dalla consapevolezza dell'impossibilità di crescere un bambino, ma forse anche dal fatto che io non mi sentivo pronta a prendermi una tale responsabilità. In un certo senso, volevo solo andare avanti senza che la presenza di altri me lo impedisse.
In altre parole... Io vedevo mio figlio come un peso. Un peso che non volevo caricarmi sulle spalle, che non volevo trasportare e proteggere. E quell'illuminazione, forte e crudele, mi mise davanti ad una verità che avevo sempre schivato con inconsapevole attenzione: che anche io, in fondo, stavo solo scappando dalle responsabilità e dalle conseguenze delle mie azioni.
«Vuoi davvero che qualcun altro provi il tuo stesso odio?» continuava la mamma, tornando ad un tono di voce calmo. «Vuoi davvero... Che un sentimento del genere devasti anche un'altra persona?»
«È una situazione diversa...»
«E in cosa?» ribatté lei. «Dimmi, cosa c'è di diverso?»
'Nulla' avrei voluto ammettere, ma sapevo che farlo avrebbe significato soltanto perdere un'ulteriore battaglia. Ed io, per quanto abituata alle sconfitte, non mi sentivo pronta a sopportarne un'altra.
La verità è che io, l'odio, non l'avevo proprio preso in considerazione. Avevo dato per scontato che lui avrebbe capito le mie ragioni, che se avevo scelto di darlo in adozione e di affidarlo all'amore di qualcuno più capace di me era solo per potergli risparmiare la sofferenza di dover crescere da solo, senza padre né madre. Però non avevo messo in conto la rabbia, l'incapacità di comprendere, la terribile sensazione di non sentirsi accettato. E probabilmente quella era una scusa di gran lunga peggiore di qualsiasi altra che avevo finito per far campare in aria in tutte le maniere possibili.
«Perché ti ostini tanto a convincermi a tenerlo?» le chiesi, evadendo la sua domanda, solamente per fargliene un'altra che speravo mi avrebbe aiutata a capire meglio. Forse, lei aveva notato qualcosa che a me era sfuggito. Un dettaglio, una motivazione, una ragione valida che avrebbe annullato tutte le mie.
«Perché è mio nipote, Jane»
«Ma è come affezionarsi ad una persona qualsiasi del mondo senza nemmeno conoscerla!»
Ecco. Eccolo là, l'unico motivo valido che avevo dato alla mia convinzione: il fatto che io non lo conoscevo. Non sapevo nulla di mio figlio. Assolutamente nulla. Quella era stata la sola scusa che avevo dato a me stessa per convincermi che non stavo facendo il tuo stesso errore. Che io ero dalla parte della ragione, non del torto. Non come te. Per me, mio figlio era solo uno sconosciuto, una persona come tante altre, di quelle che camminano per la strada e che non rincontrerai più nell'arco della tua intera vita. Con la sola differenza, però, che io stavo condividendo con lui qualcosa.
«Io non so nemmeno se è un lui o una lei, non so di che colore sono i suoi occhi, non so come sono i suoi capelli. Non conosco la forma del suo corpo, il suono della sua voce, l'ampiezza del suo sorriso» Mi fermai, per riprendere fiato. «Io... Non so nulla»
«E non ti va di scoprirlo?»
Indietreggiai, davanti a quella richiesta. Non letteralmente, sia chiaro. Però mi sentii comunque come se il mio corpo si tirasse indietro, come se la mia testa si rifiutasse di accogliere tale volontà. Eppure sentivo che, nel più profondo della mia anima, io in realtà volevo scoprirlo. Volevo sapere, volevo conoscerlo. Ma qualcosa mi bloccava. Non so di preciso cosa. Magari era solo una catena immaginaria, fatta di paure e fragilità, a cui credevo di essere indissolubilmente legata. O, forse, era una catena reale, fredda, pesante, alla quale mi ero legata io di mia totale e spontanea volontà.
«Ascoltami, Jane...» mormorò lei, facendo un passo avanti. «Se la tua paura, il tuo timore è che non credi di essere capace di crescerlo da sola, io... Io voglio solo che tu sappia che non sei sola, Jane»
Alzai gli occhi, li puntai in quelli della mamma. E fu strano ritrovare in loro la stessa paura, lo stesso dolore che vedevo quando non ero altro che una bambina. Quella tristezza radicata nel fondo delle sue iridi e di cui speravo si fosse liberata.
«Io... So che è difficile. So che... È brutto, e doloroso, e che a volte sembra impossibile che ci sia qualcosa oltre al buio che vediamo. Ma posso assicurarti che quel qualcosa c'è. Esiste, ed è immenso e bellissimo, Jane»
«E tu come puoi dirlo?» le chiesi: probabilmente era una delle poche domande di cui volevo seriamente la risposta. Una risposta che, in fin dei conti, è sempre stata davanti ai miei occhi e che affondava parte delle sue radici anche nel mio passato.
«Perché anche io, proprio come te, ho perso la persona che amavo e di cui mi fidavo. E anche tu, adesso, ti sei resa conto di quanto sia devastante» Si fermò un secondo, avvicinandosi ancora un poco a me, fino a ridurre la distanza tra noi ad appena una manciata di passi. «Ma è proprio per questo che non voglio che tu faccia il mio stesso errore» sussurrò, con un filo di voce risoluta, le lacrime agli occhi, il tono più deciso che le avevo mai sentito usare. «Non ti lascerò andare a fondo come ho fatto io, Jane. Scordatelo»
30 Settembre 2012
Sono state davvero poche le volte in cui io e la mamma ci siamo trovate d'accordo su qualcosa. Siamo sempre state due perfette sconosciute, con idee diverse e diverse aspettative. In un certo senso, credo sia stato solo grazie al pianoforte, che ha determinato il nostro primo, reale e timido incontro, se abbiamo tentato di avvicinarci e conoscerci. Ma quel contatto è avvenuto forse troppo tardi, in un'età in cui io avevo già capito abbastanza della vita da non permettermi più di pretendere qualcosa senza che mi impegnassi. La confidenza con mia madre faceva parte di quel vasto insieme di "qualcosa". L'unica differenza con tutto il resto era che io non avevo alcuna voglia di raggiungerla.
Sono abbastanza sicura che lei capisca i motivi per cui sono sempre stata piuttosto restia a confidarmi con lei, dato che non fa altro che ripetere ogni santo giorno quanto sia dispiaciuta per gli errori che ha commesso. È pentita per quello che ha fatto, lo so per certo, ma... Ma la verità è che nessuna parola di scuse è mai riuscita a convincermi che forse sarebbe stato giusto perdonarla. In particolare, perché aveva permesso che l'amore che provava per te prevalesse su quello per me ed Alan. È un aspetto della sua depressione che non sono mai riuscita a superare, nemmeno volendo. Ogni mio tentativo, per quanto grande, non faceva altro che inasprire il mio odio, la mia rabbia. Nei suoi confronti e, soprattutto, nei tuoi.
A partire dall'esatto momento in cui scoprii che eri tu la causa del dolore della mamma, e di conseguenza del mio, ho iniziato ad odiare tutto quello che poteva creare una sorta di legame tra noi, come gli occhi verdi, il corpo minuto, il naso sottile, il cognome uguale...
Ecco. Il cognome.
Devo ammettere che sono stata in grado di odiare quello più di tutto. Ho portato avanti una strenua lotta contro questo fastidioso "titolo", che si era incollato al mio corpo come una macchia disgustosa. C'è stato addirittura un periodo in cui ho seriamente pensato di cambiarlo con quello della mamma, tanto per non essere costretta a sentirmi chiamare in un modo con cui non riuscivo proprio ad indentificarmi. Avevo quindici, forse sedici anni. E quella è stata in assoluto la mia primissima e seria presa di posizione.
Però sia la mamma che Alan mi hanno fatto desistere dall'idea, soprattutto perché credevano che non ne sarebbe affatto valsa la pena. Sai, scrivere un atto unilaterale, contattare la Corte Reale di Giustizia, le pratiche, i documenti nuovi... Una vera seccatura. Persino per me. Quindi ho semplicemente deciso che avrei usato il mio cognome per scopi puramente formali ed amministrativi, come per dare un nominativo per le analisi del sangue o per la carta d'identità con cui comprare i biglietti del treno. Per il resto, io non ero altro che Jane. Ogni volta che mi presentavo a qualcuno di nuovo, non dicevo mai il mio cognome, e nessuno mi ha mai chiamato in un altro modo, a parte i professori. E Sherlock, ovviamente.
Lui è stato uno dei pochi a cui non è mai importato assolutamente nulla delle mie richieste. Se lui aveva voglia di chiamarmi per cognome, nonostante gli avessi già chiesto molteplici volte di non farlo, se ne fregava e seguiva le sue volontà, mai le mie. Certe volte mi domando seriamente cosa mi abbia spinta a fidarmi di lui...
È una domanda che mi sono posta parecchie volte, senza mai trovare una risposta soddisfacente. Perché, nonostante i suoi capricci, il suo caratteraccio, le sue follie, il suo continuo fare di testa sua, non sono riuscita ad allontanarlo dalla mia vita e basta?
C'è un'unica risposta che sono stata in grado di darmi: è che, in fin dei conti, Sherlock mi è sempre sembrato una brava persona. In particolare perché si batteva per salvare delle vite e di rado desiderava una ricompensa. Lui soleva dire che l'importante era che la sua mente non rimanesse ferma, a ristagnare nella sua stessa intelligenza, ma io ho sempre creduto che, nel salvare quelle persone, ci trovasse anche una sorta di gratificazione personale, oltre ad un senso di divertimento. Era quello che, ai miei occhi, lo rendeva un individuo straordinario. Quello che, forse, mi ha fatta innamorare di lui. E da quando ho ammesso questo mio sentimento nei suoi confronti, non faccio altro che sentirmi come una maledetta ipocrita.
Ho trascorso la mia adolescenza senza mai smettere di ripetermi, nemmeno per un giorno, che io non avrei mai dovuto permettere a me stessa di diventare come mia madre. Che non avrei mai dovuto permettere a nessuno di portarmi via una ragione per vivere. Che mai, qualunque cosa fosse accaduta, avrei dovuto buttarmi giù per una persona che credevo di amare e da cui credevo di essere amata.
Non ho fatto altro che cercare il modo giusto per fortificare il mio cuore, per renderlo indistruttibile. Credevo di esserci riuscita, ma dopo la morte di Amanda e quella di Sherlock... Anche una parte di me è morta con loro. Una parte della mia fortezza è crollata, come dopo una scossa di terremoto.
E anche ora ne ho la conferma più cruda e assoluta: sto mettendo in primo piano il dolore che provo per la morte di Sherlock, gli sto permettendo di divorarmi l'anima e lasciarvi un buco profondo, come con i peggiori parassiti.
Solo ora inizio a capire cosa voglia dire non avere nemmeno la forza, o la volontà, di trovare un motivo per cui valga la pena di continuare a camminare. È forse la prima volta in cui riesco davvero ad immaginare come si sia sentita mia madre, quando tu l'hai lasciata sola. La prima volta in cui riesco a sentirmi sul serio vicina a lei. La prima volta in cui riesco a vedermi mentre muovo il primo passo verso il perdono che, finora, le ho sempre negato.
14 Ottobre 2012
Oggi è il giorno del mio venticinquesimo compleanno. Fa strano dirlo, sai? Venticinque anni di vita. Venticinque anni costellati da ambizioni e progetti. Venticinque anni di sicurezze, durante i quali mai mi era capitato di mettere in dubbio le mie scelte. Venticinque anni in cui ho sempre fatto ogni cosa per delle ragioni valide, giuste o sbagliate che potessero apparire agli occhi degli altri. Venticinque anni in cui non mi sono mai pentita di nulla. Venticinque anni di determinazione crollati in dodici mesi soltanto. Venticinque anni vissuti invano, forse.
Questo è la prima cosa che mi viene in mente, non appena penso a cosa sono diventata, in che tipo di persona mi sono trasformata. E tutte le volte che mi guardo allo specchio, mi stupisco di vedere sempre lo stesso volto ma non la stessa espressione, lo stesso corpo ma non la stessa postura. E, soprattutto, raramente riesco a credere che dentro di me ci sia qualcun altro.
Sai, adesso la pancia comincia a vedersi di più. Ormai, è la prima cosa che noto tutte le volte che mi metto a fissare la mia immagine riflessa. Non è molto grande, a dire il vero, ma comunque si nota abbastanza, ed è in teoria la prova più evidente che mi ricorda della sua presenza. Quella concreta, invece, è l'impressione che ho quando scalcia. È una sensazione stranissima, quasi surreale, e praticamente impossibile da spiegare. Ma l'ho provata, ed è in quei momenti che mi sembra che lui stia cercando di chiamarmi, di attirare la mia attenzione, di ricordarmi della sua presenza.
Io, la maggior parte delle volte, non gli rispondo. Abbozzo appena un sorrisetto, come se dessi per scontato che lui possa vederlo, e faccio assolutamente finta di nulla. Lo ignoro, ecco tutto. Mi dico che non ha bisogno delle mie risposte, che sarebbe inutile anche solo provarci.
Però devo ammettere che certe volte mi viene spontaneo domandarmi come si sente. So che è una cosa stupida, ma... A me interessa, in un certo senso. Mi interessa sapere come sta, se la posizione gli è comoda, se la mia pancia è abbastanza accogliente... Cose del genere, tanto banali da non poter nemmeno essere degne di avere una risposta. Ci sono anche delle volte in cui mi ritrovo persino a parlargli, senza volerlo. Di solito, parto con un monologo con me stessa, che ad un certo punto prende una svolta e necessita di essere rivolto a qualcuno. E lui è sempre il primo interlocutore a cui penso. Ma l'unica risposta che ricevo, contrapposta alle mie repliche fatte di silenzi, è quella dettata dal battito veloce e fievole del suo piccolo cuore.
L'ho ascoltato l'ultima volta qualche giorno fa, durante l'ultima ecografia. È lì che io e Alan abbiamo scoperto che sarà un maschio.
«Forte! Un altro ragazzo in famiglia!» ha esclamato lui, pieno di entusiasmo, sorridendo al piccolo monitor con la spontaneità di un bambino. «Sarebbe forte se insegnassi anche a lui a nuotare, eh?»
Rimase con quell'espressione sul viso per qualche altro secondo, prima di rabbuiarsi all'improvviso, forse al pensiero che, in realtà, non avrà mai modo di insegnargli nulla. Nemmeno a vivere.
In parte, non sono nemmeno sicura del fatto che glielo avrei permesso, se avessi deciso di tenerlo. Non sarebbe stato il suo compito, non sarebbe stato un suo dovere. Alan si è già preso carico di insegnare a me come si vive e non vorrei mai che lo faccia per la seconda volta a causa di un mio errore. Altrimenti la sua vita non farebbe altro che girare attorno a questo per i prossimi sedici anni, come minimo, e io non potrei lasciarglielo fare.
Eppure... Eppure è stato proprio quel suo sguardo ad instillare in me una goccia di dubbio. Quello sguardo sconsolato, unito a quelle pulsazioni frenetiche che riempivano lo studio medico, la voce della mamma che vi si mescolava, le sue lacrime che ritornavano vivide nella mia testa, la sua preghiera nascosta... O forse anche solo la circostanza. Il fatto che io fossi lì, sdraiata su quel lettino, a vedere le fotografie in bianco e nero di mio figlio e sentirmi triste quando, normalmente, avrei dovuto essere l'opposto.
E allora mi chiesi cosa mi avrebbe detto Sherlock. Non me lo sono mai domandato, fino ad ora. Se fosse ancora qui, con me, cosa farebbe? Come mi parlerebbe? Cosa mi consiglierebbe? Proverebbe a fare il genitore insieme a me, a dispetto di tutto quello che pensano gli altri, o scapperebbe, come sto scappando io ora?
No. Scappare no. Non sarebbe da lui. Lui avrebbe affrontato il problema, avrebbe preferito uno scontro, anche correndo il rischio di uscirne ferito. Ma lo avrebbe fatto. Non sarebbe mai scappato. O, almeno, è quello che lo Sherlock che ho conosciuto avrebbe fatto. Perché quello che si è ucciso è scappato eccome. Ha deciso di farla finita, piuttosto che smentire, spiegare, tentare di farsi capire.
Non so se sia stato anche quello a spingermi a venire qui, oggi. Magari speravo che avrei trovato una risposta alle mie domande, se mi fossi persa nel folto della foresta di Sherwood, in mezzo agli alberi arancioni e l'aria silenziosa. Forse è stato quello, insieme a quelle mille gocce di dubbio, che mi ha fatto sedere su un tappeto di foglie secche, la schiena appoggiata al tronco di un faggio, le gambe piegate contro il petto, il diario posato sulle ginocchia, la sciarpa di Sherlock avvolta attorno al mio collo, la penna in una mano e lo stetoscopio nell'altra. Forse è stato quello che mi ha fatto comprare questo strumento in farmacia, stamattina, insieme alla voglia di fare un semplice esperimento. Forse è stata quella curiosità che ho cercato di reprimere che mi ha fatto indossare entrambi gli auricolari e poggiare delicatamente l'estremità finale sopra al mio grembo, mentre con gli occhi mi perdo nel vuoto di chissà quale luogo.
Ho letto da qualche parte che, a partire dalla ventesima settimana, è possibile ascoltare il cuore del feto senza più l'ausilio di macchinari specifici. Forse è stato anche quello a spingermi qui, a provare.
È straordinario, ci credi? Il suo cuore batte davvero. Pulsa, come desideroso di vita. Corre, come impaziente di scoprire quello che lo aspetta. Mi rimbomba nelle orecchie e si staglia contro il silenzio di questa foresta. E io, unico essere umano in questa radura, sono testimone della sua voglia di vivere, più forte di quella di qualsiasi altra persona che già ha conosciuto i pregi e i difetti di questo dono. Lo ascolto, muta, con un largo vuoto nel petto che viene riempito da ogni suo battito. E, allo stesso modo, la natura tace immobile per udire le sue brevi ed intense pulsazioni, quasi si accorgesse che, tra breve, lui inizierà a far parte di questo tutto.
"Can two anxious hearts beat as one?"
-Hugh Jackman, "Suddenly" (da "Les Misérables")
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