{52° Capitolo}
[Capitolo cinquantadue]
Jane
Il mondo sa essere davvero piccolo, a volte. Così piccolo da risultare addirittura claustrofobico. Ogni singolo essere umano, stipato nello stesso spazio limitato, in modo tale che l'uno tocchi l'altro, facendo spesso lasciare segni indelebili sulla pelle di ogni individuo.
Raramente mi è capitato in prima persona, a dirla tutta. Non mi sono mai lasciata influenzare dalle coincidenze, avendole ho sempre viste come assurdi scherzi del destino, e ultimamente ho iniziato a crederci ancora meno. Soprattutto dopo aver scoperto che la faccenda dell'università, che a me era parsa come un semplice caso fortuito, non era altro che una delle tante mosse di Sherlock Holmes per poter attuare il suo "piano".
Eppure, adesso, non ho la forza né la voglia di chiedermi come mai Ludmilla Dyachenko, la nuova inquilina del 222C di Baker Street, si sia ritrovata a Westminster, giusto in tempo per tirarmi sul marciapiedi e salvarmi la vita. Anzi: penso proprio che non lo saprò mai, a dirla tutta. Che non sia una combinazione è piuttosto ovvio, ma non considero questo il momento più adatto per indagare a fondo. Come se, in fin dei conti, davvero mi importasse sapere se mi stesse pedinando o meno...
«Grazie per aver guidato tu» dico, una volta arrivate davanti alla porta del mio appartamento. «Non penso che io ne sarei stata in grado» aggiungo poi, con una risatina per smorzare la tensione.
Lei, per tutta risposta, mi sorride in maniera piuttosto distaccata, gli occhi che rimangono intransigenti.
Mi allunga le chiavi della macchina. «Cerca di non farti investire, la prossima volta» mi ammonisce, nel suo inglese impeccabile ma dal forte accento russo. «Non sarò sempre pronta a salvarti, sappilo»
«Me ne ricorderò, in futuro» le garantisco, annuendo. Poi abbasso gli occhi, improvvisamente imbarazzata. «Non saprò mai come sdebitarmi, davvero...»
«Lascia perdere. Tieniti stretta la vita piuttosto. E i ricordi»
Rialzo in fretta lo sguardo, giusto in tempo per vederla salire in fretta le scale. Si ferma, però, alla fine della prima rampa, come se si fosse ricordata all'improvviso di avere qualcosa assolutamente importante da dirmi ancora, e si gira per tornare a guardarmi.
«Oh, e... Non dire a nessuno che ci siamo viste, intesi? Meglio che rimanga tra noi»
Mi lancia un veloce sorriso tirato e poi se ne va, questa volta sul serio, lasciandomi con solo un messaggio strano e una richiesta che non fa altro che alimentare i miei dubbi, ma nemmeno un saluto.
«D'accordo...» mormoro, sapendo bene che non mi sentirà mai, ma il pensiero non mi stravolge più di tanto. Poi mi giro per aprire la porta ed entro.
Il soggiorno, in disordine come lo avevo lasciato, mi sembra ora appena più accogliente di quanto mi sia sembrato in questi ultimi giorni, non so nemmeno come. Nonostante il buio e la luce arancione dei lampioni, mi sembra addirittura più luminoso del normale. Assurdamente acceso e pieno di vita.
Mi richiudo la porta alle spalle, accompagnandola con la punta delle dita. Vi appoggio poi la schiena e mi lascio scivolare a terra, lentamente, sotto il peso della stanchezza di questa giornata fatta di sentimenti contrastanti, corse contro me stessa, pregiudizi spezzati e tanta rabbia. Dovrebbe essere una di quelle giornate pessime, da dimenticare, perché sembra che ogni cosa mi sia contro. Ma io, in realtà, mi sento stranamente felice. Persino leggera. "Parlare" con Amy nel mio palazzo mentale deve essere stato più terapeutico del previsto. Sherlock aveva ragione, nell'affermare quanto sia utile averne uno.
Fermo ogni mio pensiero, prima ancora che la mia testa possa continuare a riflettere. Li blocco, inibisco, accorgendomi improvvisamente del modo in cui la mia mente ha iniziato a ragionare. Di come le idee fluiscano al suo interno, come un fiume inarrestabile. E la sola consapevolezza, ormai innegabile, mi fa alzare in piedi, sospirando stizzita. Mi provoca... Frustrazione, in un modo o nell'altro.
Non è possibile. Non è possibile che ogni cosa che io faccia, ogni mio pensiero e ricordo sia, ormai, irrimediabilmente legato a Sherlock. Non è possibile che la mia mente sia sempre collegata a lui.
Non è possibile che tutte le mie sensazioni, emozioni ed ogni batticuore non siano altro che il risultato del mio tempo passato in sua compagnia, dei sentimenti nei suoi confronti che Amy mi ha imposto di accettare, anche se io continuo a fare fatica ad affrontare questa nuova sensazione, sconosciuta e spaventosa. E so che, così facendo, non faccio altro che andare sempre di più contro i miei ideali. Attimo dopo attimo, in una dura lotta contro me stessa. Una battaglia che è cominciata solo da poche ore...
Baker Street, Londra, Inghilterra•03 Maggio 2012, qualche ora prima
La luce accecante del mattino entrava attraverso la finestra che, con le tende non tirate, lasciava intravedere uno scorcio dell'edificio di fianco alla camera da letto. Jane non sapeva esattamente per quanto tempo fosse rimasta a fissare quel pezzo di muro grigio, come non sapeva se quella notte avesse effettivamente dormito o se il cambiamento di luce fosse avvenuto proprio davanti ai suoi occhi. Non ci aveva fatto veramente caso, a dir la verità, ma era successo tutto in modo così lento e graduale, e lei era così persa nei suoi pensieri, distratta dalle sue considerazioni e i suoi ennesimi dubbi, che probabilmente non notarlo sarebbe stato più che comprensibile.
Ruotò dolcemente la testa sul cuscino, così da poggiarvi anche la guancia. Lo sguardo le ricadde di nuovo lì, su quel volto dai lineamenti spigolosi e sempre in tormenta su cui, adesso, si trovava un'espressione di pace, e sulla sua pelle chiara in contrasto con i riccioli neri.
Sherlock, a differenza sua, dormiva. Abbracciato al cuscino, con il viso rivolto verso la sua direzione, sembrava perso in un mondo di totale calma, senza che alcun tipo di pensiero importunasse il suo sonno. Il lenzuolo gli copriva una parte della schiena, fermandosi circa all'altezza delle spalle, e lasciava intravedere una parte del suo busto nudo.
Questa doveva essere la quarta volta che Jane si metteva a guardarlo. Forse la quinta. Non ne era del tutto sicura. Non era più sicura di niente, in realtà. Se quella fosse una cosa giusta o meno, se non fermarsi fosse stata la scelta migliore. Dopotutto, aveva avuto la piena libertà di impedirsi di fare una cosa del genere. Una cosa per lei così strana, così... Stupida.
Si girò sul fianco sinistro, cercando di fare il meno rumore possibile, si portò una mano sotto alla guancia e l'altra accanto al mento. Chiuse gli occhi e li riaprì. Li chiuse, li riaprì, li chiuse, li riaprì. Come se sperasse, in un certo senso, di svegliarsi a casa sua e di realizzare che era stato tutto solo un ennesimo sogno. Non voleva che quell'azione sbagliata si tramutasse in realtà. Voleva negarla, non accettarla.
Ma era troppo tardi. Avrebbe dovuto pensarci prima, invece di desiderarlo adesso. Aveva sbagliato, nel non fare niente per impedirselo. Aveva sbagliato, a non pensare alle conseguenze.
Si girò di nuovo sul fianco destro e tornò a guardare Sherlock. Un secondo, due, magari venti, prima di avvicinare una mano e scuoterlo gentilmente per una spalla.
«Sherlock?» lo chiamò, a bassa voce. «Sherlock, ti prego, svegliati» Lo scosse di nuovo, questa volta un po' più forte. «Dai!»
Lui si lasciò sfuggire un mugugno infastidito che fece quasi credere a Jane di essere riuscita nel suo intento. Ma il detective, invece, non fece altro che girarsi dall'altra parte, ignorandola, e continuare a dormire.
La ragazza sbuffò sonoramente, seccata. 'Non pensavo che Sherlock potesse avere un sonno così pesante!' pensò, con non poco fastidio. E, sotto sotto, anche un po' di stupore.
Dopotutto, lui era Sherlock: una specie di macchina instancabile che avrebbe potuto essere persino in grado di andare avanti per giorni senza mai fermarsi. Adesso, invece, le stava mostrando, seppur involontariamente, una parte del suo lato umano, quella dove Sherlock Holmes, il consulente investigativo dalla mente geniale, diventava l'esatto opposto di quello che voleva sembrare.
Jane, a quel punto, si mosse lentamente sotto al lenzuolo, spostandosi appena di lato. Posò la pianta del piede sulla schiena del detective e fece pressione, spingendolo verso il bordo del letto. Sherlock rotolò, con infinita lentezza, ma alla fine la ragazza riuscì a fargli raggiungere il margine e farlo cadere dal letto con un tonfo.
Si lasciò scappare un sorriso soddisfatto, per poi poggiare il gomito sul materasso e la guancia sopra al pugno chiuso. Lo vide tirarsi su e posare una mano sulla coperta, mentre con l'altra si massaggiava la nuca, con un borbottio.
«Buongiorno anche a te»
Sherlock aprì gli occhi ancora assonnati e, non appena mise a fuoco la sua immagine, li spalancò, in un'espressione sospesa tra lo stupore e lo spavento.
«Non pensavo avessi il sonno così pesante, sai?» continuò la ragazza, tornando a sdraiarsi. «Sono stata costretta ad usare le maniere forti»
«Ma che...»
«La tua sorpresa è comprensibile, ma non giustificabile»
«Sherlock?» Due colpi alla porta, leggeri e veloci, misero il detective in allerta. «Sherlock, tutto bene?»
Lui, con un balzo, risalì sul letto, si avvicinò a Jane e le tappò la bocca con un palmo.
«Uhm? Sì, John, tutto bene» rispose, fingendo un tono assonnato.
«Sei sicuro? Ho sentito una specie di botto...»
«Devo aver fatto cadere per sbaglio un libro dal comodino mentre spegnevo la sveglia»
«Ehm... Sherlock, non so se te ne sei accorto, ma... Sono quasi le nove»
«E quindi?»
«Beh... Di solito alle sette sei già in piedi»
«Brutta nottata. Ero esausto»
Jane gli rivolse un'occhiata torva, che lui ricambiò con una infastidita, quasi scocciata.
'La cosa comincia a farsi incredibilmente ridicola'
«D'accordo...» mormorò John, ancora poco convinto. «Io vado a fare un salto in banca. Penso di tornare tra un'oretta»
«M-mh» fece Sherlock, senza smettere di fingersi appena sveglio.
«Ci vediamo dopo»
«Okay»
John rimase in silenzio per un po', prima di mormorare anche lui un "okay" di risposta. Jane sentì i suoi passi lungo il corridoio, il fruscio leggero delle sue scarpe contro il tappeto. Lei e Sherlock rimasero fermi per qualche minuto ancora, come per assicurarsi che il dottore fosse effettivamente uscito di casa. E solo allora, quando ogni parte di lui fu sicura di aver scampato un pericolo, il detective tolse la mano dalla bocca della ragazza e si distese accanto a lei, con un sospiro. Si posò un braccio sopra agli occhi e le dita della mano opposta sul petto. Si mise a pensare, e Jane quasi riusciva a sentire la voce della sua mente confusa. Più confusa della propria.
«Vado a farmi una doccia»
Scivolò fuori dal letto e, dopo averne fatto il giro, raccogliendo man mano i suoi vestiti buttati a terra, s'infilò nel bagno, esattamente a sinistra della porta che dava sul corridoio. Si chiuse dentro, rimanendo immobile per qualche attimo con la dita ancora strette attorno alla maniglia. Poi si scostò di lato, posando la schiena contro le mattonelle color acquamarina, i vestiti ammassati stretti contro il petto. Rimase ferma, con la testa appoggiata al muro, per parecchio tempo, forse qualche minuto, prima di prendere un respiro e avvicinarsi al water. Abbassò la tavola e vi poggiò sopra i suoi indumenti, per poi mettersi alla ricerca di un asciugamano pulito, che trovò all'interno di un mobiletto basso. Lo appese ad un gancio vicino al box e si legò i capelli in un disordinato chignon, si spogliò in fretta dell'intimo e si buttò subito sotto alla doccia. Senza preoccuparsi di regolare la temperatura, aprì il getto, ritrovandosi con l'acqua fredda che le graffiava la pelle con rabbia. Ma non le importò più di tanto: probabilmente, una doccia gelata sarebbe stato l'unico modo per riportarla con i piedi a terra e la mente funzionante. E poi, non sarebbe stata più tremenda della serie di docce fredde che era stata costretta a sopportare, in quell'ultimo periodo.
Si lavò il corpo con veloci gesti delle mani, insaponandosi con un bagnoschiuma neutro trovato all'interno del box. Lasciò che le gocce d'acqua sciacquassero via ogni residuo di sottile schiuma che, come una rete, avrebbe dovuto portare via anche i ricordi della notte precedente, e, dopo nemmeno due minuti, uscì, avvolgendosi poi nell'asciugamano. Lentamente, si andò a posizionare davanti allo specchio, guardando a lungo la sua immagine riflessa. Notò, con non poco stupore, l'incredibile cambiamento che era avvenuto in un solo giorno. In un certo senso, sembrava che fosse più... Rilassata. Ma solo lei sapeva quanto quell'impressione fosse solo una bugia che, senza nemmeno volerlo, stava raccontando a sé stessa.
Sospirò di nuovo, lottando contro l'incessante desiderio di fermarsi per un attimo e lasciarsi andare alle sue considerazioni. Voleva cercare di capire i motivi per cui era rimasta, per cui aveva accettato una richiesta implicitamente assurda. Si riscosse in un attimo: prima avrebbe finito, prima sarebbe tornata a casa, prima avrebbe potuto mettere ordine nella sua testa.
Si asciugò in fretta il corpo e altrettanto in fretta si rivestì con i suoi abiti spiegazzati, si diede un'ultima, fugace occhiata allo specchio e poi uscì dal bagno. Fece per muoversi a testa bassa, così da cercare le sue scarpe da ginnastica, ma si fermò ancor prima di cominciare. Guardò Sherlock, che adesso aveva indosso sia i pantaloni che la camicia. Osservò la sua espressione sconcertata, addirittura senza parole. Ed era strano, perché lui manteneva sempre la lucidità, anche in un momento critico ed imbarazzante come quello.
Jane seguì la traiettoria dei suoi occhi, che stavano fissando una parte specifica del lenzuolo, stretto tra le sue mani. La ragazza spalancò le palpebre, quando le vide: due macchie, che si univano tra loro. Piccole, quasi invisibili, ma che spiccavano sul candore del lenzuolo con il loro colore scarlatto.
«Da' qua, ci penso io» disse, togliendogli bruscamente di mano il pezzo di stoffa. «Le porto a casa mia per lavarle. Hai un sacchetto?»
Sherlock non rispose. La osservava mentre toglieva il coprimaterasso, lo piegava distrattamente assieme al lenzuolo, così come la osservava mentre afferrò le sue scarpe e si sedette sul bordo del letto per indossarle. Ci mise qualche decina di secondi per decidersi a muoversi fuori dalla camera, per poi tornare poco dopo con una busta di plastica appallottolata. L'allungò a Jane, quasi con timidezza, e si rimise a guardarla mentre lei ci buttava dentro le lenzuola sporche.
Rimase di nuovo in silenzio per qualche secondo. «Non sapevo che...»
«Cosa, che fossi vergine?» Jane si voltò verso di lui, lo fissò per qualche attimo, prima di lasciarsi sfuggire una risatina scettica. «Bella scoperta, davvero. A questo punto, immagino che tu non sapessi nemmeno che il nostro sia stato il mio primo bacio»
Si mantenne in silenzio ancora una volta, guardandola attentamente con i suoi occhi freddi e scrutatori. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei fece in tempo a fermarlo prima.
«No, ascolta» gli disse, alzando una mano. «Non farlo, va bene? Non ne ho bisogno» Sospirò profondamente, socchiudendo le palpebre. «Come non avevo bisogno di uno stupido discorso motivazionale, se questo significava che ti saresti drogato» Rialzò subito lo sguardo, chiudendo le dita in un pugno che fece poi ricadere lungo il proprio fianco. «Pensavi che non me ne sarei accorta, forse?»
Ora sì che Jane era sicura di averlo lasciato senza parole. I suoi occhi avrebbero potuto anche negarlo, rimanere impassibili sul suo volto distaccato, ma lei sarebbe stata comunque in grado di scavare a fondo, sotto quello strato di ghiaccio, e scoprire i suoi veri pensieri. Non aveva già fatto così, dopotutto? Non aveva scoperto della droga proprio grazie alle sue pupille stranamente dilatate?
Prese a mordersi il labbro inferiore, così forte da farle dimenticare tutto il resto. O almeno lo sperava. Come sperava che lui dicesse qualcosa, anche solo per darle una giustificazione inventata di sana pianta... Ma niente. Semplicemente, non fece niente.
«Senti...» cominciò la ragazza. «Forse... Sarebbe meglio se dimenticassimo quanto accaduto, okay? Non parliamone più e basta. È stato solo un errore»
Aspettò di nuovo una sua risposta, accorgendosi troppo tardi che probabilmente non sarebbe mai arrivata. Afferrò il sacchetto con le lenzuola ed uscì dalla stanza. Se ne andò fuggendo, in un certo senso, per l'ennesima volta. E questo le fece credere che scappare sarebbe stata la sua punizione, fino alla fine dei suoi giorni. Non affrontare le conseguenze delle sue scelte sbagliate, né ascoltare le spiegazioni per quelle degli altri. Se ne andò correndo e basta.
E d'altronde, persino ciò che era successo quella notte non era stato altro che un tentativo di fuga, un nuovo modo per dimenticare. Per una notte, una sola, Jane era riuscita a dire addio ai suoi demoni.
Sì, ma a che prezzo?
Baker Street, Londra, Inghilterra•04 Maggio 2012
La luce del mattino mi colpisce il viso in raggi obliqui, che attraversano la finestra come onde infrenabili. La voce cadenzata del conduttore del telegiornale rompe il silenzio che riempie il mio appartamento di prima mattina. Non sono sicura dell'argomento di cui sta trattando il servizio in onda. Politica, forse? Non ci do molto peso, a dirla tutta, intenta come sono a guardare fuori dalla finestra del salotto. Grazie alla presenza del camioncino parcheggiato davanti al 221B, posso ben dedure che la signora Hudson abbia deciso di aggiustare l'ingresso, forse a causa della frenetica attività di Sherlock e John che deve aver rovinato le scale di legno, allentato le assi del parquet, se non addirittura...
'No' mi impongo di fermarmi, ancora una volta. 'Smettila di pensare a lui. Tanto è inutile. Farlo non cambierà le cose. Lui non merita la tua attenzione'
Prendo un respiro, portandomi la mia tazza di tè alle labbra, assaporandone lentamente la miscela, così da tentare di rivolgere il mio pensiero a qualcosa di completamente diverso. Anche se, adesso, farlo mi risulta fin troppo arduo.
Ieri sera non è stato tanto difficile: non appena il pensiero di Sherlock, e con esso il ricordo di ciò che è successo tra noi, ha bussato alla mia testa, ho deciso di accantonarlo per un attimo, tenerlo a bada come un animale feroce. E poi, dopo essermi messa il pigiama in fretta e furia, mi sono buttata sul letto e mi sono liberata di quella preoccupazione per almeno qualche ora, sapendo che non mi avrebbe attaccata mentre ero inerme.
Questa mattina, poi, mi sono svegliata con addosso una strana sensazione di... Calma. Mi sono sentita stordita e senza alcuna voglia di alzarmi dal letto, come del resto ogni mattina, ma anche insolitamente riposata. Questa mattina, per la prima volta dopo settimane, mi sono svegliata con la convinzione che tutto era tornato alla normalità, che io sarei tornata nuovamente a vivere. Non so se sia perché mi sono levata un peso che mi portavo sulle spalle da troppo, o se perché ho finalmente sfogato dei sentimenti che tenevo rinchiusi in uno spazio troppo piccolo della mia anima. Non so nemmeno se sia perché sono riuscita, finalmente, ad avere un confronto con qualcuno, per quanto mi sia sembrato fittizio. Ma ora ho smesso persino di chiedermi se debba considerare la mia conversazione con Amy affidabile o meno, reale o frutto della mia mente sconvolta. Sarebbe inutile continuare a cercare una risposta definitiva ad una domanda che oscillerebbe continuamente tra due possibilità tra loro opposte, e io lo so. Almeno per quanto riguarda questa faccenda, ho deciso di mettermi finalmente il cuore in pace.
Sospiro di nuovo, allontanandomi dalla finestra per recarmi in cucina e lavare la tazza ormai vuota, che poi appoggio capovolta sullo scolapiatti. Mentre le mie mani si muovono senza che io le guardi, non smetto mai di pensare a Sherlock, a quello che sta succedendo ed è già successo. Non fa altro che perseguitarmi da stamattina, non appena ho messo piede in bagno e ho trovato nella vasca le lenzuola sporche, in ammollo nell'acqua fredda per poter cancellare le tracce di quella notte. La "nostra" notte, per quanto sdolcinato e assurdo possa sembrare persino a me. Una notte che molti potrebbero considerare la più importante della propria vita, se non fosse che noi... Che io mi sia lasciata trascinare in qualcosa più grande di me. Diverso da me.
Vorrei solo spegnere il cervello per ancora qualche ora. Sarebbe l'ideale. Potrei semplicemente tornare a letto e cadere in un sonno profondo, così da riposarmi un altro po'. E lo farei pure, se non fosse per le mille altre cose che fanno parte della mia vita, non solo Sherlock: l'università, le troppe lezioni perse e le conseguenti pagine di studio arretrato da recuperare, gli scatoloni con le cose di Amanda da mettere via, il bucato da fare, la contabilità da tenere, senza contare poi il mio improcrastinabile obbligo di dare una valida spiegazione a Josh sul perché sia fuggita così all'improvviso...
Quasi per uno scherzo del destino, o forse solo per una di quelle coincidenze in cui ho ormai smesso di credere, sento adesso il conduttore del telegiornale mentre inizia ad illustrare i pochi fatti conosciuti riguardo al rapimento dei figli di Rufus Bruhl. Mi avvicino in fretta alla televisione, in soggiorno, piazzandomi davanti allo schermo. Anche se, a dirla tutta, potrebbe darsi che io ne sappia di gran lunga più della stampa.
«A seguito delle prime dichiarazioni dell'ispettore Greg Lestrade, responsabile delle indagini, sappiamo che entrambi i bambini sono vivi e si stanno riprendendo, ma si avranno ulteriori informazioni solo dopo la conferenza stampa che Scotland Yard terrà questo pomeriggio. Secondo le prime fonti, tuttavia, sembrerebbe che il principale indiziato sia Sherlock Holmes, il famoso eroe del Reichenbach, sebbene i motivi dell'accusa non siano ancora noti. La polizia ha comun...»
Afferro velocemente il telecomando, buttato sui cuscini del divano, e spengo la televisione. In fretta, pongo fine ad un'altra descrizione delle bugie che io avevo sempre preso come verità assolute. E solo ora mi ricordo di avere anche l'importante compito che Amy mi ha lasciato, prima di andarsene: "Hai bisogno di spiegazioni, e lui ha il dovere, nonché il diritto, di dartele".
Solo... Non sono nemmeno più sicura di volerne. Non sono sicura di essere pronta per un confronto con lui, così presto. Non sono sicura di volermi sedere, con Sherlock di fronte, e stare ad ascoltare le sue motivazioni, ricevere una conferma definitiva a tutto quello che mi ha già detto.
Nuovi dubbi mi assalgono, nuove paure, nuovi timori che mi dicono di fare un passo indietro. Di aspettare, almeno per ora, e vedere cosa accadrà. Di darmi il tempo per riprendermi da questa valanga di avvenimenti che mi sono accaduti in nemmeno un mese. E, nell'attesa, tentare di riprendere in mano il ritmo della mia vita. Di ricominciare, a piccoli passi, a tornare alla mia quotidianità. Di prendere tempo.
Il mio cellulare, sul tavolo, inizia a squillare. Mi avvicino per vedere chi sia. Rimango pietrificata, ma il tempo attorno a me continua a scorrere. "Comptine d'un autre été" non smette di suonare. Prendo in mano il telefono, senza distogliere gli occhi dallo schermo illuminato. La chiamata in arrivo è di Sherlock.
Sherlock
«Va' tu, sono occupato»
«Occupato?»
«Rifletto. Devo riflettere»
«Tu devi... Non t'importa niente di lei? Hai quasi ucciso un uomo che l'aveva appena sfiorata!»
«È la mia padrona di casa»
«Sta morendo! Tu dovresti... Al diavolo. Al diavolo, rimani qui, se vuoi. Da solo»
«È l'unico modo che ho per proteggermi»
«No. Gli amici ti proteggono»
Con un tonfo sordo, John chiude con violenza la porta del laboratorio alle sue spalle. Esattamente come ha fatto Jane appena qualche ora fa. A volte, mi stupisce la somiglianza che c'è tra quei due. Entrambi si arrabbiano per cose che io considero stupide, entrambi pensano che io sia freddo e senza cuore, ma entrambi hanno ugualmente scelto di stare dalla mia parte, nonostante il mio apparentemente pessimo carattere. Ed entrambi, chi prima e chi dopo, inizieranno a conoscermi per le bugie che ho raccontato loro.
Il mio cellulare vibra all'interno del taschino della giacca. Lo prendo e sblocco, per leggere il nuovo messaggio.
"I'm waiting... JM"
Osservo con attenzione lo schermo, prendendo un respiro silenzioso: a quanto sembra, è ora di andare. Tolgo i piedi da sopra il bancone e mi alzo dalla sedia girevole. Con andatura sicura, cammino verso la porta, afferro il mio cappotto e la sciarpa, posati su una sedia, ed esco nel corridoio, in cui si sentono ancora i passi scalpitanti di John che corre verso l'uscita. Io, invece, prendo la direzione opposta, avviandomi dunque verso le scale riservate al personale sanitario.
Alterno un piede all'altro e nemmeno me ne accorgo. Ma più vado avanti e più mi rendo conto di star imboccando una strada senza ritorno. E, soprattutto, mi rendo conto che sarà impossibile da evitare.
Inizio a salire i primi gradini e, nel frattempo, riprendo il telefono dalla tasca, per comporre velocemente il numero di Jane sulla tastiera. Me lo porto all'orecchio e mi fermo sul pianerottolo, in attesa. I secondi scorrono. Uno squillo, due, tre, e non succede niente. Immagino che, adesso, stia solo decidendo se rispondermi o meno. O, magari, mi sta soltanto ignorando. Da una parte, è meglio così. Non so perché, ma è come se, con questa sua indecisione, dia a me il tempo per rimandare. Evitare di prendere quella strada ormai scelta, ormai parte di quello che sarò. E a me sta bene così. Non so perché, ma mi sta bene così.
«Cosa vuoi?»
La sua voce arrabbiata interrompe il settimo squillo. Mi fa alzare lo sguardo dal vuoto e fissare un punto a caso fuori dalla finestra. Non rispondo subito. Inevitabilmente, mi perdo senza motivo tra le parole che mi ero preparato. Annego pian piano in un bicchiere d'acqua e non so nemmeno perché.
«Devo parlarti» le dico, alla fine, con voce ferma e senza troppi giri di parole. Un po' come immagino che lei voglia, d'altronde. «Possiamo vederci?»
«Per farmi prendere di nuovo in giro da te? Grazie mille per la proposta, ma non ci tengo»
«No, no, Jane, aspetta, non chiudere!» la blocco, gridando per attirare la sua attenzione. «È importante. Devo mostrarti una cosa»
«E cosa, un'altra delle tue bugie, per caso?»
Di nuovo, rimango in silenzio, per misurare meglio le parole. È la prima volta che mento senza che mi venga naturale. Mi costringo a mantenere un tono freddo, che nasconda ogni mia vera intenzione, che non lasci trapelare indizi che potrebbero risultarle utili.
«Devi venire sulla torre della Church of Bartholomew the Less, tra mezz'ora»
«Oh, questa mi è nuova» fa lei, ridendo con asprezza. «Davvero credi che ti darò ascolto, dopo tutto quello che mi hai già detto?»
«Ovviamente»
Ride di nuovo, come se si stesse trattenendo dall'urlare, come se cercasse di mantenere la calma. «E perché mai dovrei?» continua, col suo tono ironico.
«Perché so che è più forte di te»
Si ferma, e io capisco subito di aver toccato un punto scoperto e dolente. Non è sempre facile, con lei, adesso lo posso ammettere. E pensavo che in questa circostanza lo sarebbe stato ancor meno. Ma, a quanto pare, sbagliavo. Sorrido, sapendo di avere già la vittoria in tasca, ancora una volta. Mi viene spontaneo, e così facendo sento di essere tornato il solito io, lo Sherlock che non ha alcun bisogno di mentire a sé stesso per mentire agli altri. Ma la sensazione dura solo un attimo, perché lei fa sparire immediatamente il mio sorrisetto beffardo.
«Allora si vede che la tua capacità deduttiva ha fatto cilecca, Holmes» replica, tagliente, facendo crollare con un solo soffio quello che soltanto adesso mi si è rivelato essere un semplice e fragile castello di carte. «Perché io sono stanca di essere interpellata solo quando ti è comodo. Quindi fammi il favore di non cercarmi più»
Aggancia con una botta secca, senza darmi il tempo di ribattere. Mi lascia per l'ennesima volta perplesso, per le sue parole e il modo in cui me le ha dette, con quel suo tono che non ammetteva alcun tipo di replica. Per il fatto che, anche questa volta, io abbia fatto un errore di calcolo a causa sua. Probabilmente, se fossi stato più empatico, se fossi stato meno me stesso, avrei capito che Jane non aveva alcuna intenzione di vedermi o di starmi a sentire. Dopotutto, non era questo lo scopo delle parole che le ho detto ieri? Non era questo il motivo per cui l'ho mandata via, per evitare che anche lei si ritrovasse in mezzo a questa storia? Perché ho pensato che l'avrei avuta vinta così facilmente?
Abbasso il telefono, lo sguardo ancora perso fuori dalla finestra. Faccio scorrere appena qualche attimo, in cui la mia mente attraversa un totale vuoto, e poi riprendo la mia ascesa verso il tetto. Un gradino alla volta, verso l'ignoto.
A pensarci bene, non so nemmeno perché l'ho chiamata, chiedendole di venire. D'altronde, sarebbe tutto più facile senza la sua presenza, che diverrebbe solo d'intralcio. Ma è come se... Come se volessi mostrarle quello che sta per accadere, rendere partecipe anche lei di questa mia ultima bugia. Anche se neanche io so cosa sta per accadere, né di qualche bugia si tratterà. E non saperlo mi provoca una sensazione strana, fastidiosa. La stessa che, adesso, mi spinge a continuare a camminare.
Un gradino alla volta, verso l'ignoto. E ci sto andando da solo.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro