{51° Capitolo}
"If you're right here,
why do I miss you so much?"
-Fun., "Stars"
[Capitolo cinquantuno]
Jane
L'aria è fredda, questa sera. Tanto fredda. Dal Tamigi sale un forte odore di melma, insieme al dolce frangersi delle onde. Il vento leggero mi scompiglia i capelli, mi rinfresca la pelle bagnata del viso, mi fa ogni tanto passare l'impulso di vomitare. Stringo forte la ringhiera gelida, così forte da ghiacciarmi le mani, facendo passare il freddo per il sangue, fino a raggiungere le viscere e ogni altro angolo del mio corpo scosso dai brividi. Con gli occhi, gonfi per le troppe lacrime trattenute e versate, seguo il calmo giro del London Eye che, maestoso, si erge davanti a me. Evito di guardarmi intorno, per non dover incontrare le occhiate preoccupate della gente, le loro domande e il loro pretendere delle risposte. Ne ho già troppe delle mie che mi affollano la testa, a cui non so trovare alcun responso, nello stesso modo in cui non riesco a trovare una vera e propria spiegazione a tutti i "perché" che mi bloccano.
Perché non mi sono resa subito conto di quale infimo essere vivente Sherlock Holmes sia? Perché gli ho dato retta, mi sono fidata di lui? Perché ho scelto di gettare i miei principi da una parte per poterlo seguire, invece di rimanere legata alle mie promesse? Perché non posso avere, nonostante i miei infiniti tentativi, una maledettissima vita normale?
E soprattutto... Soprattutto, perché sto provando tutto questo dolore, che mi immobilizza totalmente e in maniera irreversibile? Perché, a quanto pare, sembra che di dolore non ne abbia mai abbastanza?
Prendo un profondo respiro, buttando giù nei polmoni quanta più aria posso, prima di ricacciarla fuori piano, a poco a poco, come quando si sgonfia un palloncino tentando di non farlo schizzare tutt'intorno.
E alla fine mi rispondo che non lo so. Non più, almeno. Non so nemmeno cosa sto provando, se rabbia o tristezza. Mi sento solo... Inutile. Inutile perché non sono capace nemmeno di rendermi conto delle menzogne che mi vengono raccontate. Perché non so rimediare alle conseguenze delle mie stupide decisioni. Perché, in un certo senso, ho l'impressione che sarei stata in grado di evitare il peggio, se solo non fossi stata accecata dai miei sentimenti. Stupida ed inutile. Una calamita per bugiardi, traditori, doppiogiochisti e bastardi senza cuore. Ignorata sempre e comunque dal resto del mondo.
Un'altra coppia di lacrime mi solca le guance, scivolandomi lungo il mento fino ad unirsi in una sola che, svelta, si stacca dalla mia pelle, per gettarsi nel Tamigi. Un'unica goccia salata mescolata alle acque dolci e turbolente del fiume. Invisibile e superflua agli occhi di tutti, come è sempre stato.
In un certo senso, mi sento così male, con questo dolore che mi schiaccia a terra col suo peso maledetto e insopportabile che devo sostenere sulle mie spalle, perché ho finalmente capito di essere sola. Senza nessuno che mi dica cosa fare, cosa pensare... Vorrei solo qualcuno a cui rivolgermi.
«Beh, ci sono sempre io»
Alzo in fretta la testa e mi passo una mano sotto agli occhi, asciugandomeli velocemente. Mi ero completamente dimenticata che ci fosse anche lei, qui...
«Beh, in realtà hai soltanto cercato di convincertene»
Prendo un altro respiro, questa volta più profondo, e rimango in silenzio.
«Mi piace l'aria che tira in questo posto. È gradevole»
'Non le rispondere' mi dico, stringendo i denti. 'Se fai finta che non ci sia, se ne andrà'
«Oh, no. Non è proprio così che funziona»
'Pensa a qualcun altro'
«Jane?»
'Tipo ad Alan. Oh, Alan è perfetto'
«Ti ho appena detto che...»
'Anche mia madre può andar bene. Oppure Billy. Billy sarebbe davvero l'ideale'
«Oh, per l'amor del cielo, non potrai ignorarmi per sempre!»
«Oh, sì che posso, invece» replico, tagliente, tenendo lo sguardo dritto, perso tra le luci del London Eye, la schiena immobile e la mascella stretta, in un'espressione dura.
«A-ah! Visto? Alla fine mi hai parlato!»
Mi volto di scatto verso destra, sebbene abbia tentato di trattenermi con tutta me stessa, e lancio un'occhiata inceneritrice ad Amanda che, sorridente, è seduta sulla ringhiera del ponte di Westminster, le gambe penzoloni nel vuoto. È girata con la testa verso di me, un'espressione soddisfatta sul volto divertito.
«Uno a zero per Devine»
Alzo gli occhi al cielo, con un sospiro stanco, poi riporto lo sguardo davanti a me, verso il fiume.
'Ignorala' mi ripeto. 'Lei non è realmente qui. È tutto falso. Ignorala, lei non c'è'
«Come mai hai scelto di venire proprio qui?» mi chiede, facendo finta di non aver letto i miei pensieri, come io so che sta facendo.
Ma è nel sentirmelo chiedere da lei che mi pongo la stessa domanda: perché proprio qui?
«Perché è un posto affollato e questo mi impedirà di parlare con un'allucinazione» finisco col rispondere, prima di mordermi forte la lingua.
'Ignorala, ignorala, ignorala...'
«Beh, non sembra che stia funzionando» ridacchia lei, divertita da questa situazione paradossale. «Anche se, a questo punto, sono certa che non avrebbe funzionato in ogni caso. Il che è un bene, non trovi?»
Mi giro di nuovo verso di lei, con la fronte aggrottata. «Come?»
«Sì, insomma... Se Sherlock non ti avesse insegnato ad avere un palazzo mentale, di sicuro avrebbero già chiamato un qualche ospedale psichiatrico»
Inarco lentamente le sopracciglia. «Cosa?» faccio, con un tono fastidiosamente acuto. Persino per me.
Amanda punta le sue iridi verdi nella mia direzione, guardandomi con un volto apparentemente confuso. «Non te ne sei accorta?» chiede, prima di indicare il luogo circostante con un ampio gesto della mano. «Ci siamo solo noi due, qui»
Mi guardo attorno, seguendo con gli occhi la circonferenza disegnata dal suo braccio. Ed è ora, ed ora soltanto, che mi accorgo che il ponte, la strada e probabilmente l'intero quartiere di Westminster, se non tutta Londra, sono completamente deserti. Nonostante l'ora non troppo tarda, non c'è una singola persona, che sia un turista o una ragazza col suo gruppo di amiche. Nessuno. Niente di niente. A parte me e Amanda.
«Ma cosa...»
«A quanto pare, Sherlock ha ragione, quando dice che vedi ma non osservi»
«No...» mormoro, senza smettere di guardarmi attorno.
«Però devo ammettere che sembra utile avere un palazzo mentale, se si vuole rimanere da soli. O se si vuole parlare con l'ologramma di uno spirito, ma dipende dai punti di vista»
«No, no, ti prego...»
Comincio a camminare per il ponte, su e giù, avanti e indietro, a passo serrato, in cerca di uno spazio, uno squarcio dal quale possa uscire.
«Beh, è utile se sai come controllarlo. Penso che dovresti fare un po' di pratica con questa tua "capacità"»
Non mi fermo dalla mia ricerca. Continuo ad esplorare lo spazio attorno a me, smarrita, confusa.
'Come si fa ad andarsene da questo posto? Come?!'
«Andiamo, andiamo...»
«Non mi hai risposto, comunque» dice, dopo qualche secondo di silenzio, interrotto solo dai miei borbottii stizziti. «Mi dici perché hai scelto questo posto?»
«Non sono affari tuoi» rispondo, sferzante, senza degnarla di uno sguardo.
'Oh, avanti, cosa dovrei fare? Immaginarmi una porta?!'
«Mmh... Vediamo...» mormora, pensierosa, ignorando completamente la mia replica acida. «Di sicuro ha qualche valenza simbolica ed emotiva, conoscendoti. Non è per caso qui che Sherlock ti ha dimostrato un po' di gentilezza, dandoti la sua sciarpa?»
«Smettila»
«Un tuffo nei ricordi, eh? Niente male come idea. Magari leggermente masochista»
«Ti ho detto di smetterla!» ruggisco, voltandomi all'improvviso verso di lei, dopo aver inchiodato sul marciapiedi in modo altrettanto improvviso. Mi metto a fissarla, non so nemmeno per quanto tempo, prima anche solo che lei pensi di aprir bocca.
«Oh, capisco» dice, con un tono falsamente sorpreso. «Quindi ti sei decisa, finalmente! Pensavo che avresti fatto la scettica fredda e senza cuore per il resto della tua vita»
«Perché sei qui?» le chiedo, rabbiosa. «Cosa vuoi ancora da me?»
«Ti rigiro la domanda» replica lei, con un sorrisetto. «Dopotutto, sei stata tu a pensare a me. Io mi sono semplicemente limitata a comparire. La tua mente è volata a me e... Poof!» Apre le mani, per enfatizzare la parola. «Eccomi qui» aggiunge, indicandosi. «A rispondere alle tue domande»
«Perché mai avrei dovuto farlo?» l'attacco, con aggressività. «Sei esattamente l'ultimo dei miei problemi, adesso»
Sto mentendo. Eccome se sto mentendo. Sto sminuendo il problema, facendo finta che lei non c'entri più niente con me, ormai. Che la questione che la riguarda si sia fermata e conclusa con quella notte. Ma sto mentendo, cercando di convincere me stessa che sia così.
Lei sorride, di nuovo. Non so se beffardamente o meno. «No, non è vero» dice, come se avesse letto i miei pensieri, in qualche modo. «Fino a ieri credevi di avermi uccisa. La sola idea ti faceva letteralmente a pezzi»
Rimango a guardarla, immobile e senza muovere un muscolo. Perché ha ragione e lei lo sa. E anche io lo so, in fondo.
«Ma perché tu?» tento di contrattaccare. «Mi hai tradita! Non penserei mai a te, in un momento del genere!»
«Eppure lo hai fatto» ribatte, riportando lo sguardo davanti a sé. «E, per poterlo spiegare, ho elaborato due possibili ipotesi: o ti senti di nuovo come quando hai scoperto che ti avevo mentito, il che è probabile...» dice, muovendo di lato la testa. «Oppure sai che io sono l'unica persona a cui ti rivolgeresti, in quest'occasione, che è più plausibile» e la sposta dal lato opposto. «A te la scelta, Jane»
«Non c'è l'opzione "Amanda è tornata a tormentarmi perché nel mondo dei morti non si divertiva abbastanza"?»
«No, ma ci stiamo lavorando» sogghigna lei, lanciandomi una veloce occhiata. «Comunque, a pensarci bene, entrambe le ipotesi potrebbero essere valide» riprende il suo discorso, come se non fosse mai stata interrotta. «In effetti, per spiegare la prima basta ripensare al bel paragone che hai fatto prima in macchina» Si ferma, portando gli occhi al cielo, pensierosa. «Se non ricordo male, il senso era più o meno: "Mi sento come una canna di bambù, con la costante paura di spezzarmi in due"» Annuisce, come per complimentarsi. «Beh, sei sempre stata piuttosto poetica, non c'è che dire. Ma almeno sei riuscita a rendere bene l'idea» Poi torna a rivolgermi la sua attenzione. Mi sorride, e mi stupisco del modo in cui lo fa. Quasi con... Dolcezza. «Ti sentivi così anche quando credevi di essere stata tu ad uccidermi, vero?»
«E tu cosa ne sai?» replico, con disprezzo. «Come potresti mai anche solo pensare di poterlo capire?»
«E qui passiamo alla seconda ipotesi: io so come ti senti, Jane, perché in passato ho provato qualcosa che più si avvicina a ciò che stai provando adesso tu»
Le rivolgo un'occhiata che nemmeno io saprei descrivere. Confusa, magari? Anche se so già dove vuole andare a parare, con questo discorso?
Amanda sospira, socchiudendo le palpebre. «Ah, gli uomini... Non si rendono mai conto di quando c'è bisogno di essere seri. A volte penso che il loro cervello sia in costante stand-by»
Ecco, immaginavo...
«Il tuo problema era completamente diverso»
«No, non lo era» ribatte lei. «Non credere di essere la prima ad aver avuto una delusione, Jane. Prima o poi capita a tutte»
«Ed ti aveva tradito con un'altra ragazza! Lui ti ha...»
«Cosa?» mi ferma lei, voltandosi di scatto verso di me. «Mi ha mentito? Ingannato? Cosa ha fatto di così diverso da quello che Sherlock ha fatto a te?»
Si ferma a fissarmi, intensamente. Poi nel suo sguardo scatta qualcosa, una scintilla che mette in moto degli ingranaggi. Mi sorride di nuovo con quell'insolita dolcezza, così strana a vedersi, ora che sono abituata a ricordarla con un volto perennemente distorto dall'odio. Non so se il suo, o il mio.
«Cosa c'è?» le faccio, innervosita, vedendo che non accenna a continuare.
«Immagino che adesso, invece, tu ti senta tradita»
«Tradita?» ripeto, sorridendo aspramente. «Perché mai dovrei?»
Già... Perché? Perché, se davvero non mi importa niente, dovrei sentirmi così male, dovrei sentire tutta questa delusione che mi mangia il corpo da ogni angolo?
«Beh, perché adesso lo sai» dice, con semplicità. «A differenza di quando è saltata fuori la questione dell'università, adesso tu sei consapevole di esserti...»
«No!» la fermo, alzando una mano verso di lei, la voce del mio grido rotta da un tremolio appena udibile, eppure esistente. «No» ripeto, riducendo leggermente il volume, ma non la convinzione del mio tono.
Perché non voglio che lo dica. Non dopo che io l'ho negato fino allo sfinimento, ripudiando questa maledetta idea con ogni parte di me, ogni cellula del mio corpo.
Abbasso il braccio. «Non è come credi. Conosco Sherlock da troppo poco tempo, e io...»
«Oh, vuoi davvero farmi credere di non provare niente nei suoi confronti, nonostante ti sia ritrovata insieme a lui nel...»
«Sì, okay, direi che può bastare» la blocco con tono agitato. «Quella è una delle tante cose di cui scordarsi»
Amanda, nel vedere la mia reazione, scoppia a ridere e poi torna a guardare il London Eye illuminato. «Andiamo, Jane!» riprende, con tono divertito. «Non avresti mai rinunciato ai tuoi principi così facilmente, non gli avresti mai detto di sì, se non ti fossi innamorata»
«Io?» fingo una risata, indicandomi il petto. «Innamorata di una persona come Sherlock Holmes?»
Non appena le parole escono dalla mia bocca, mi rendo conto di quanto inutile sia insistere sulla stessa idea, di fingere una sicurezza che in realtà non ho. E sono già consapevole di quello che Amanda dirà, con quale scusa romperà la mia facciata. È una fantasma che legge i miei pensieri, ma mi sembra comunque di essere tornate a quei vecchi e lontani momenti di pace tra noi.
«Dici così perché sei arrabbiata» replica lei, infatti. «Con lui e con te stessa. Non vuoi accettarlo neppure con me, che sono frutto della tua immaginazione»
Ecco, lo sapevo. Sapevo che mi avrebbe detto questo, forse perché era la risposta che mi sarei aspettata da quell'Amanda che conoscevo, che tutt'ora conosco. E bene, anche. Conosco questo fantasma che mi sta parlando e che sento vivo e reale. Lei, adesso, mi sembra viva e reale. A stento mi trattengo dall'alzare una mano per toccarla. Combatto contro il bruciante desiderio di dirle tutto quello che non ho mai avuto occasione di confessarle. Tutto il dolore e la paura che ho provato dopo la sua morte. E forse è proprio questo a bloccarmi: lei non è veramente qui. Lei non c'è più, e io non avrò mai una possibilità per chiederle scusa. Mai.
«Perché dovrei darti retta?» chiedo, cercando di convincermi a rimanere distaccata. «E soprattutto, perché ti sto ancora ascoltando? Dio mio, tu non ci sei veramente!» grido, indicandola. «Tu sei morta!»
«Sono frutto della tua immaginazione» ripete lei, portando le gambe dall'altra parte del parapetto e balzando sul marciapiedi del ponte. Fa un paio di passi verso di me. «Rappresento quella parte di te che dà voce a tutto ciò che cerchi di reprimere»
«E allora spiegami che senso ha!» le urlo in faccia, gesticolando. «Ho bisogno di qualcuno che mi dia dei consigli, che mi dica cosa fare!»
«Ma io sono qui!» urla lei, di rimando. «Ti sto dicendo cosa fare! Ti sto dicendo che devi smetterla di negare di esserti innamorata!»
«Sarebbe questo il tuo massimo?» ribatto, mantenendo alta la voce. «Dimmi qualcos'altro che già so, visto che ci sei, senza tentare di trovare una soluzione» La guardo, lasciandomi sfuggire un lieve sorrisetto. Nostalgico, forse, ma non ne sono poi così sicura. «Hai sempre fatto così. Quando c'eri, era come se non ci fossi per davvero»
«Beh...» comincia, con decisione, solo per poi fermarsi. Si inumidisce le labbra, mentre un'insolita incertezza si fa spazio sul suo viso.
E questa volta, è lei a portare lo sguardo verso il basso, forse perché è imbarazzata, forse perché non ha più parole da dire. O forse... Forse lo fa solo perché sono io a volerlo.
«Beh... Ci sono adesso»
«E credi che questo basti?» le faccio, sentendo la mia voce spezzarsi, incrinandosi a poco a poco. «Credi che basti per rimediare a tutto... Quello che mi hai fatto?»
Mi fermo, troppo debole per continuare, coprendomi la bocca con una mano, per reprimere un gemito. Stringo gli occhi e mi volto in fretta, aggrappandomi alla ringhiera del ponte. Ricaccio indietro le lacrime, facendo appello a tutte le poche forze che mi rimangono. Respiro, buttando giù aria nei polmoni e ricacciandola fuori. Dentro e fuori, in un susseguirsi di ondate di ossigeno che mi graffiano la gola.
«Jane...»
«Io ci sono sempre stata per te...» dico, sentendomi la voce leggermente più stabile, sebbene cominci lentamente a credere che sia la mia sanità mentale a vacillare, troppo scossa dal dolore, dal rimorso, dal ricordo.
Dico cose dette e ridette, ripetute milioni di volte, mentre dovrei rivelarle il resto. Dovrei parlarle di come mi sento, cogliere l'occasione per chiederle scusa per quello che ho fatto, anche se le mie parole si perderanno nel vento, portate chissà dove, ascoltate da chissà chi. Perché più ci penso, più mi rendo conto di questa situazione paradossale, più mi sento una stupida, a parlare con il vuoto, con dell'aria.
«Sai...» comincia, dopo un po', mentre la sento avvicinarsi a me. «Credo che possa esserci anche una terza ipotesi sul perché tu mi abbia voluta qui»
«Ah, sì?» faccio, rivolgendole di nuovo la mia attenzione. «E sarebbe?»
«I sensi di colpa» risponde, molto semplicemente. «Ti senti in parte responsabile perché hai tentato di salvare la persona che mi ha uccisa e di cui ti fidavi ciecamente»
Rimango immobile a fissarla. Minuti scorrono senza che io me ne accorga, mentre tento di assimilare l'ennesimo pugno allo stomaco. Mi sale alla gola una serie di parole che, insieme, formano una specie di denuncia. Un'accusa che posso rivolgere solo a lei, e solo ora, solo qui.
«Potrei dirti la stessa, identica cosa, Amanda» le dico, tornando ad un tono duro, pieno di tutta la rabbia accumulata e che credevo di aver dimenticato. «Perché hai deciso di fidarti di un'entità senza volto, invece che di me?»
Lei sospira, appoggiando gli avambracci sul parapetto e piegandosi in avanti. «Non lo so» ammette, dopo qualche secondo di silenzio. «Forse avevo solo paura che l'immagine che avevi di me mutasse»
«Per tua informazione, è accaduto ugualmente» replico, acida. «E non solo. Tu mi...» Mi blocco. Prendo un altro respiro, socchiudendo le palpebre, pronta ad incassare un altro colpo autoinflitto. «Voi mi avete usata» dico, alla fine, arrancando per tentare di trattenere i singhiozzi.
«Lo so» dice, rizzando nuovamente la schiena. «Lo so, ma io... Io non avevo alcuna intenzione di farti del male, Jane»
«Ma lo hai fatto!» ribatto, la voce ormai rotta in mille frantumi, gli occhi gonfi. «Tu e Sherlock mi... Mi...»
Un singhiozzo mi interrompe. Tento di continuare, ma ne segue subito un altro. E un altro, un altro, fino a trasformarsi in un pianto che mi scuote da capo a piedi. Mi fa tremare le mani, le spalle, le gambe che non riescono più a tenermi in piedi. Crollo a terra, la mano destra che scivola lungo la ringhiera, con le dita che, senza forza, non riescono più a stringerla. Mi rannicchio a terra, con un palmo a coprirmi il volto, le ginocchia ripiegate contro il petto,
«Sono... Sono così stanca di continuare... In questo modo...»
Più vado avanti con questo pensiero, più mi rendo conto di quanto sia stato stupido fidarmi delle mie sensazioni. Avevo fatto una promessa alla me bambina, le avevo giurato che non avrei mai permesso a nessun altro di farmi soffrire. Avevo giurato che mi sarei tenuta lontano dall'amore e le sue complicazioni, che sarei rimasta l'unica guerriera di questa battaglia. Io soltanto. Lo avevo promesso, ma non sono stata fedele a me stessa. Forse è per questo che mi sento come... Come se mi odiassi.
Sento un fruscio alla mia sinistra, sovrastato dai miei singhiozzi. Un secondo soltanto, prima di sentire una mano posata sulla mia spalla destra.
«Mi dispiace, Jane» mormora Amy, stringendo le sue dita sulla mia pelle, come per farmi arrivare meglio il messaggio. «Mi dispiace davvero, davvero tanto»
Alzo gli occhi verso di lei, accovacciata davanti a me. D'improvviso, non appena mi accorgo del suo tocco, avverto la voce della mia razionalità farsi sempre più flebile, lontana, muta. Ed io non sono più costretta a sentire il suo incessante grido, col quale tenta di convincermi di non dare retta a quello che vedo, sento, vivo, perché adesso non mi importa più. Amy è tornata solo per me, ed io devo cogliere l'occasione per dirle tutto quello che, in questi giorni, ho tentato in ogni modo di farle arrivare. È un momento solo, e io devo utilizzarlo a mio favore. Lei è qui e deve saperlo. Deve sapere che... Che...
«Mi dispiace...» lascio uscire dalle mie labbra, prima in un soffio leggero, che poi cresce ed esplode come un tuono. «Ti prego, Amy, ti prego, perdonami per...»
«Ehi, ehi...» fa lei, stringendomi verso di sé. «Va tutto bene, okay? È tutto a posto»
«Mi... Dispiace» continuo, rischiando di scoppiare nuovamente in lacrime. «Mi dispiace per averti minacciata con una pistola, mi dispiace per aver pensato di ucciderti, mi dis...»
«Va tutto bene» ripete, strofinando la mano contro il mio braccio. «Okay? Siamo pari, adesso»
Lo ha detto. Lo ha appena detto. Sento le sue parole ripetersi all'infinito nella mia mente, e la sensazione di libertà che ne deriva, la leggerezza che mi fa sentire... Bene. Rinata, addirittura, per quanto assurdo possa sembrare. E stranamente, mi chiedo perché non abbia mai preso in considerazione quest'idea: lei ed io abbiamo solo fatto lo stesso gioco, senza nemmeno volerlo. L'unica differenza era che io avevo qualcuno che aveva deciso di scendere in campo accanto a me.
Mi stringo contro il suo petto, il mento appoggiato sulla sua spalla. Sento il suo corpo contro il mio, e lo trovo così rilassante, rassicurante... Mi calma il cuore e il respiro. E più il tempo passa, con noi così ferme, e più mi convinco che lei è veramente qui. La sento così dannatamente vicina, così maledettamente reale. Eppure...
«Amanda...»
«Dimmi»
«Tutto questo... Sta accadendo solo nella mia testa, vero?»
«Beh...» comincia lei, fermandosi poi per un breve momento. «Tecnicamente sì»
«E allora come faccio a sapere che tutto quello che mi stai dicendo è sincero?» le chiedo, sistemandomi meglio sulla sua spalla. «Come posso sapere che per te è davvero tutto okay?»
La sento sorridere, anche se non la vedo. Avverto l'espressione divertita che ha appena assunto, che era solita assumere, che le faceva incurvare le labbra verso l'alto.
«Perché diavolo dovrebbe voler dire che non è vero?»
Mi sforzo di ridere, ma ci riesco solo in parte. «Ti metti a fare citazioni da Harry Potter, adesso?» la prendo in giro, alzando lo sguardo verso di lei.
Ridacchia, per poi girare su sé stessa così da darmi le spalle per far toccare la sua schiena con la mia. Esattamente come facevamo spesso, da piccole. «È quello che hai pensato tu»
Sorrido di nuovo, asciugandomi le lacrime rimaste con un gesto veloce delle mani. Prendo un respiro e lascio andare la testa all'indietro, guardando in alto, verso il cielo scuro. Ma il mio breve momento di pace termina in fretta, mentre lo guardo, immersa nel suo silenzio. Mi sento improvvisamente preda di una malinconia che mi afferra per la gola, mozzandomi il respiro. Senza un motivo, una ragione vera e propria. Sembra senza senso, ma poi capisco. Un piccolo fastidio che rintocca nel suono cadenzato del Big Ben. Uno, due, tre, quattro... Come per ribadire il mio pensiero fisso, che avevo per un attimo accantonato. Me ne ero liberata, senza sapere che sono ancora prigioniera dei suoi nodi, stretti attorno ai miei polsi.
«Tutto bene?» chiede Amy, intuendo le mie preoccupazioni. Sentendole, in realtà.
«Sì, tutto bene» ripeto, annuendo. «Sono... Solo confusa»
«Confusa?»
«Per Sherlock»
«Ah...» fa lei, annuendo. «È normale, penso»
«Cosa dovrei fare, secondo te?» chiedo, sospirando. «Io non... Non ho la più pallida idea di come comportarmi. Sono arrabbiata con lui per quello che mi ha detto, per come mi ha trattata, ma allo stesso tempo ho così tante domande da fargli...»
«Beh, allora fagliele» dice, con semplicità. «Dopotutto, tu hai bisogno di spiegazioni, e lui ha il dovere, nonché il diritto, di dartele» Si ferma un attimo, e io la sento muoversi mentre si rimette a posto delle ciocche di capelli mori dietro l'orecchio. «Male che va, puoi sempre rifilargli un altro paio di sberle»
Non me ne accorgo. Non subito, almeno. Ma la bella sensazione, così strana da provare adesso, arriva all'improvviso, e devo impiegare un po' di tempo per rendermene conto. Ma io sto... Ridendo. Adesso sto davvero ridendo. In modo spontaneo, senza filtri. Rido per una battuta idiota, ma rido con una naturalezza che non ricordavo di possedere. E Amy ride con me, in un modo che non le sentivo usare da troppo tempo. Ridiamo, e i secondi sembrano fermarsi. Solo noi due, di nuovo, contro il tempo e lo spazio, a ridere. E la nostalgia, alla fine, mi travolge come un'onda anomala, senza riuscire, però, a spazzarmi via.
Mi giro verso di lei, lei si gira verso di me. Ci guardiamo, intuendo tutto con una sola occhiata, come eravamo solite fare. Le sorrido, e lei mi sorride di rimando.
«Mi era mancato questo genere di momenti, tra noi»
«Sì, anche a me»
Un vuoto, pian piano, si ingrandisce all'interno del mio animo, non appena la sento dire così. Un nuovo dubbio mi afferra per un braccio e mi costringe a fronteggiare la realtà, ancora una volta: lei non c'è, non è reale. Ogni sua parola, ogni suo sorriso, ogni suo movimento... Sono solo lo specchio di ciò che la mia mente pretende di vedere, di capire. Ciò che io voglio sentirmi dire. È la risposta più logica, più plausibile, veritiera.
Ma adesso, mi inizio a chiedere se, invece, tutto questo non sia solo quello che io mi aspetterei da Amanda. Le sue risposte ironiche, i suoi sorrisi ammiccanti... Lei è reale, per ora. Solo perché quest'allucinazione si comporta come si comporterebbe lei. E a me, ora come ora, basta perché, probabilmente, non potrò avere così numerose possibilità di vederla, di parlarle... Di sentirmi rispondere. Se questo è l'unico modo che ho per evitarlo, a me sta bene. Vedrò di farmelo bastare.
Un enorme rimbombo risuona ancora nel silenzio. Prima componendo una semplice melodia, per poi prendere un ritmo scandito.
Dong, dong, dong...
Alzo lo sguardo verso la Torre dell'Orologio, sul cui quadrante le lancette segnano mezzanotte in punto, e sorrido. Non so nemmeno perché, ma sorrido. Dura solo un attimo, breve e fugace, e termina quando Amy si alza dal marciapiedi.
«Bene» dice, scrollandosi la polvere ai vestiti. «Credo che sia per me l'ora di andare»
«Cosa?» faccio, balzando in piedi. «No»
«Devo farlo, Jane»
«No, no, ti prego» ripeto, avvicinandomi a lei. «Non andare via, per favore» Mi avvicino ancora, faccio per toccarla con la mano. Ma le mie dita afferrano il nulla, attraversano il suo corpo fatto d'aria. «No...» Provo, ancora e ancora, ma tutte le volte è lo stesso. «No, no, no!»
«Oh, andiamo!» ridacchia lei, nel vedermi così disperata. «Hai letto un sacco di libri e ancora non hai imparato che, per gli spiriti, il tempo sulla terra è limitato?»
«Tu non sei uno spirito!» protesto, la voce che minaccia di piegarsi di nuovo. «Tu sei qui, nella mia testa! Sono io a decidere se farti andare via o meno!»
«Secondo questo tuo criterio logico, potrei anche tornare, un giorno» replica, facendo qualche passo indietro. «Però non te lo consiglio. Anche se dipende da te. Da te, e dalla tua capacità di dire addio a questa brutta parte del tuo passato»
La fisso, sfidandola con tutta la risolutezza che ho, che mi rimane. Le labbra mi tremano, tradiscono le mie intenzioni. «Io... Io non sono più sicura di volerlo»
Lei mi sorride di nuovo. E, questa volta, è per rassicurarmi, con quella stessa dolcezza. Come se, inaspettatamente, i nostri ruoli si fossero invertiti. Adesso sono io quella attaccata al passato, che si rifiuta di andare avanti. Sono io a buttarmi giù, a non riuscire più a rialzarmi. Per la prima volta, capisco cosa si prova a sentirselo dire.
«Sappi che questo non significherà dirmi addio per sempre» dice. «In ogni caso, ti rimarranno i ricordi»
«Ma io non voglio vivere di ricordi!» replico, alzando la voce. «Non voglio vivere di frammenti destinati a sparire! Voglio qualcosa che rimanga, che resista contro il tempo. Voglio alzarmi al mattino con la certezza che quello che sto per vivere sia per sempre, almeno questa volta. I ricordi fanno male, Amanda: sono ferite che non cicatrizzeranno mai, perché ci si inizia a chiedere cosa si sarebbe potuto fare, affinché tutto durasse»
Mi blocco, perché c'è anche un'altra verità. Una cosa che mi sono ripetuta fino allo sfinimento, nel corso degli anni, e che è cresciuta, fino a diventare la mia più grande paura. La paura che influenza ogni mia azione e decisione, che condiziona ogni secondo della mia vita. La paura che mi fa supplicare Amanda di non andarsene via.
«Non voglio rimanere sola...» mormoro, con gli occhi lucidi. «Ti prego, Amy...» Chiudo le palpebre, lasciando che le lacrime mi scorrano sulla pelle. «Non mi lasciare da sola...»
«Non sei sola, Jane» mi dice, sorridendo, mentre fa un altro passo indietro. «Non lo sei mai stata»
E poi si gira. Cammina con la sua solita andatura, ma a me sembra fin troppo veloce. Si allontana da me, camminando lungo la strada, e mi lascia ancora una volta, con l'amaro in bocca e in balìa di me stessa.
«Amy?» la chiamo. «Amy, ti scongiuro, non andare via!»
Lei sembra non sentirmi. Forse mi ignora, perché ha intenzione di farmi guarire da questa mia malattia. O forse... Mi ha lasciata e basta.
«Ti voglio bene, Amy!» grido, ridotta ormai alle lacrime, correndo anche io in strada. «Non dimenticarlo, ti prego!»
La osservo mentre mi dice addio, consapevole che, sicuramente, questa sarà l'ultima volta che la vedrò in piedi contro tutto ciò che le sta intorno. L'ultima volta in cui sarà invincibile, ai miei occhi.
«Signorina? Signorina!»
Il lungo suono di un clacson, voci che gridano, una mano che mi afferra saldamente per un braccio e mi trascina verso destra. Il movimento brusco mi riporta alla realtà, giusto in tempo per farmi vedere una macchina sfrecciare veloce lungo il ponte, dove prima stavo io.
Il mio respiro accelera e il mio cuore perde un battito, forse anche due, non appena mi rendo conto del grave pericolo che stavo per correre. Ho il fiatone, come se avessi appena corso per chissà quanti chilometri, e la testa mi pulsa per la confusione.
«Sta bene?»
Volto lo sguardo verso la mia destra, incontrando l'espressione fredda di una donna, sulla quarantina, i capelli biondissimi tirati in una stretta coda di cavallo. Mi fissa, con intensità, quasi volesse rimproverarmi per il mio gesto assai pericoloso.
«Io...»
Volgo lo sguardo da una parte all'altra del ponte, che adesso è tornato a vivere in mezzo alla moltitudine di persone che lo affollano. In mezzo a questa calca, comincio a cercare Amy, sperando con tutta me stessa di non averla persa per sempre, che sia ancora in grado di ritrovarla.
«Sta cercando qualcuno?» continua la donna, lasciando adesso trapelare il suo forte accento russo. Sarà probabilmente una turista...
«No, no, io...»
«È assolutamente sicura di sentirsi bene?»
Tengo gli occhi fissi davanti a me, nella direzione verso cui si è allontanata la mia migliore amica. E solo adesso tocco davvero con mano la consapevolezza che non la vedrò mai più. Un vuoto si impossessa del mio stomaco, e mi dice che mi mancherà. Mi mancherà davvero, davvero tanto, ne sono certa. Ma le parole con cui mi ha lasciata... Hanno infuso in me una felicità anomala, una gioia incomprensibile. Eppure c'è. È qui, come lo è lei. Adesso lo so: non sarò mai più sola.
«Sto bene» dico, alla fine. E per la prima volta lo intendo davvero. «Adesso sto bene»
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