{50° Capitolo}
[Capitolo cinquanta]
Jane
«Non posso credere che avesse tutta questa roba»
Alzo gli occhi dallo scatolone che sto a poco a poco finendo di riempire con magliette colorate, jeans strappati, gonne lunghe fino al ginocchio...
«Beh, diciamo che lei raramente riusciva a trattenersi dallo spendere poco» sorrido, a labbra strette, per poi riprendere a piegare un paio di pantaloni neri.
Josh sospira, mentre esamina con attenzione una foto incorniciata, che ritrae lui insieme ad Amanda da bambini. La guarda con nostalgia, magari anche dolore. E credo che sia comprensibile: loro due erano praticamente come fratelli, tanto erano inseparabili, uniti da un legame indissolubile e potente.
Ho chiamato Josh stamattina. Gli ho chiesto di aiutarmi a sistemare le cose della cugina e lui ha accettato senza troppi ripensamenti, intuendo forse quanto io ne avessi bisogno. Si è presentato due ore fa, circa, e subito si è messo ad impacchettare scarpe e altri oggetti che appartenevano ad Amanda, con l'intenzione di portarli ai genitori. O magari di tenerli per sé, come suo ricordo. Non lo so, né credo mi importi molto saperlo. Io voglio solo liberarmi di queste memorie dolorose, con la speranza che questo sia solo il primo passo per lasciarmi tutto alle spalle.
«Non riesco proprio ad immaginarmela come una persona cattiva...» mormora, con fare mesto. «Lei non era così. La conoscevo bene, lei...»
«Ti do un consiglio: evita di cercare una spiegazione logica a quanto è successo» lo interrompo, alzando gli occhi verso di lui. «Non servirà a niente, credimi»
Annuisce, tornando poi a guardare la cornice. Passa un pollice lungo il vetro, sorridendo tristemente. «Mi manca, sai?»
Un brivido mi corre lungo la schiena, mi fa tremare per il freddo. Tante, tante volte mi sono chiesta la stessa cosa. Mi sono domandata se mancasse anche a me, ritrovandomi a rispondere spontaneamente che sì, mi mancava da morire, e continua tuttora. Ma solo ragionandoci su mi sono accorta di non potermi impedire di metterlo anche in dubbio: mi mancano davvero le sue bugie e le sue maschere, i suoi tradimenti e cambiamenti? Alla fine, mi sono risposta che mi mancava la Amy di prima. Quella con cui potevo parlare di ogni cosa, con cui condividevo segreti, risate, pianti... Mi manca la Amy di prima, e nient'altro. Probabilmente, mi è sempre mancata, anche prima che scoprissi quello che davvero era, ed io non me ne sono mai semplicemente accorta.
«Anche a me» rispondo, girandomi verso di lui per rivolgergli un sorriso rassicurante.
Mi ricambia, e poi entrambi ci rimettiamo a sistemare gli scatoloni. Josh si avvicina alla libreria presso la finestra e butta giù una veloce occhiata, verso la strada.
«Le volanti sono ancora qui fuori...» mormora, dopo qualche secondo.
Alzo gli occhi al cielo, con fare annoiato. «Sì?» dico, noncurante. «Non è una cosa insolita. Sai com'è, i miei vicini di casa ci collaborano spesso»
La polizia è arrivata circa una decina di minuti fa, a sirene spiegate. Non ci ho fatto molto caso, sinceramente, dato che è una cosa che succede piuttosto di frequente. E poi, dopo quello che è successo, non ho molta voglia di mettermi a parlare di Sherlock, del suo lavoro... O di noi.
«Di solito si fanno arrestare, per dare prova della loro collaborazione?»
Porto gli occhi verso di lui, velocemente. «Cosa?!»
Mi alzo di scatto dal pavimento e mi avvicino in fretta alla finestra. Scosto la tenda, mettendomi a sbirciare: John e Sherlock sono schiacciati contro una volante, le mani dietro alla schiena. Attorno a loro, una decina di poliziotti.
«Ma che cosa...»
Non faccio in tempo a finire la frase, che Sherlock si dimena in fretta, con dei gesti repentini. Un attimo solo, e si ritrova con una pistola in mano.
«Signore e signori, potreste cortesemente inginocchiarvi?» grida, puntando l'arma verso i presenti.
Poi, vedendo che nessuno fa niente, alza il braccio verso il cielo e fa esplodere due colpi in rapida successione, sufficienti a farmi portare istintivamente le mani alle orecchie e piegare il capo verso il petto, mentre Josh si abbassa sulle ginocchia, come per schivare i proiettili invisibili.
«Avanti! Avete sentito?!»
«Fate come dice!»
Scatto sull'attenti e mi precipito alla porta.
«Resta qui!» grido a Josh, mettendomi a correre per le scale.
«Jane! Non andare, potrebbe essere pericoloso!»
Ignoro le sue urla, che si spengono non appena arrivo in strada, dove una schiera di poliziotti, in divisa o borghese, è inginocchiata a terra, minacciata da Sherlock.
«Tanto per farvelo sapere, la pistola è una sua idea!» grida John, legato a lui da un paio di manette. «Io sono... Ehm... Come...»
Sherlock si passa velocemente la pistola da una mano all'altra, per poi puntargliela alla tempia. «Un mio ostaggio!»
«Ostaggio! Sì, giusto. Questo è giusto...»
Guardo la scena, letteralmente pietrificata.
«Cosa facciamo, ora?» chiede John, facendo saltare gli occhi da un poliziotto a un altro.
«Quello che Moriarty vuole» risponde Sherlock, prima di voltarsi verso di me e far incontrare il suo sguardo con il mio. Cerca di dirmi qualcosa, ma non riesco ad afferrare il suo messaggio. «Diventiamo fuggitivi. Scappa!»
Si volta e comincia a correre, trascinandosi dietro John attraverso le manette.
«Inseguiteli, forza!»
«Sherlock!»
Attraverso la strada, ancora di corsa, come se quell'ordine fosse rivolto anche a me. Faccio per mettermi dietro a loro, ma vengo fermata ancor prima di cominciare.
«No, ferma! Stia ferma!»
«Che succede?» Alzo lo sguardo verso la persona che mi ha preso le spalle, per trattenermi. «Lestrade, cosa state facendo?»
«Adesso si calmi»
«Cosa diavolo sta succedendo qui?!» grido, dimenandomi nel tentativo di staccarmi dalla sua presa.
«Si calmi, o le faccio un richiamo per opposizione a pubblico ufficiale!» mi mette in guardia, alzando il tono di voce.
Mi blocco, mettendomi a guardarlo negli occhi. Tenta di intimidirmi, di farmi tacere. Vuole avere una conversazione pacifica, credo.
«Tutto bene qui?»
Un uomo massiccio, con indosso un paio d'occhiali, si avvicina a noi, allontanandosi in fretta un fazzoletto macchiato di rosso dal naso insanguinato, che ad occhio mi sembra fratturato. Non ha un'aria troppo spaventosa, ma Lestrade scatta subito verso di lui.
«Sì, signore» dice infatti, voltandosi totalmente nella sua direzione. «È la vicina di casa, Jane Aldernis. Ha sentito gli spari ed è scesa in strada per verificare cosa stesse succedendo»
«Capisco» risponde l'altro, con voce nasale, per poi lanciarmi un'occhiata, insieme ad un sorriso mellifluo. «Non si preoccupi, signorina. Presto prenderemo quei due criminali e lei potrà tornare a dormire sonni tranquilli»
Alzo le sopracciglia, guardandolo con fare truce. Ma non credo che lui abbia effettivamente capito il mio atteggiamento canzonatorio. Lestrade sì, però.
«Mi occupo io di lei, signore» dice infatti, mettendosi in mezzo. «Finirò in un attimo»
L'uomo annuisce. «Confido in lei, ispettore»
Mi lancia un altro sorriso, garbato solo in apparenza, si volta e poi si allontana ciondolando, tornando a tenersi il naso con il pollice e l'indice.
«Mi ascolti, Jane» riprende Lestrade, dopo qualche attimo di silenzio. «Torni a casa. Ci occuperemo noi di questa faccenda» Tira fuori dalla tasca della giacca un'agendina, la apre e ci scribacchia sopra alcune cifre. «Ecco, questo è il mio numero privato» Lo firma e strappa il foglio. «Mi chiami, se dovesse venirle in mente...»
«Prima voglio sapere cosa sta succedendo» lo fermo, respingendo il pezzo di carta che lui mi ha teso. «Perché stavate arrestando Sherlock e John?»
L'ispettore mi guarda, come se stesse valutando se dirmelo o no. Oppure è solo stupito dal mio sguardo, in cui si riesce a scorgere dello spavento mal celato.
«Sherlock è sospettato di aver rapito due bambini»
«Che cosa?!» esclamo. «Non lo farebbe mai!»
«Abbiamo delle prove che...»
«Quali? Me le elenchi!»
«Sono informazioni riservate, mi spiace»
Rimango immobile per qualche secondo, prima di incrociare le braccia al petto. «Ottimo» dico. «Presumo che, allora, siano informazioni riservate anche il luogo dove potrebbe trovarsi Sherlock adesso, non trova?»
Lestrade mi guarda ancora un po', prima di sospirare. Mi prende per le spalle, come per creare una sorta di muro contro le orecchie indiscrete dei suoi colleghi, e inizia a passeggiare lentamente lungo il marciapiedi, con me al suo fianco.
«Stamattina, in centrale, è arrivata una telefonata da Washington che diceva che i figli di Rufus Bruhl, l'ambasciatore degli Stati Uniti, erano stati rapiti nel loro collegio, Saint Aldates, nel Surrey»
«L'ambasciatore degli Stati Uniti?» ripeto, sgranando gli occhi.
D'improvviso, un ricordo si fa largo nella mia testa. Durante la mia degenza in ospedale, Sherlock mi aveva spiegato che la chiave per il lucchetto della matrioska si trovava all'interno della cassa dove ero stata rinchiusa. All'interno della bambola di legno, aveva trovato un altro biglietto, che mi aveva fatto leggere.
"Ho l'impressione che accadrà presto una Seconda Guerra d'Indipendenza... Tic-Tac"
Anche questo fa parte del piano di Moriarty.
Lestrade annuisce. «L'ambasciatore aveva personalmente richiesto l'aiuto di Sherlock per ritrovarli» Si ferma un attimo, si guarda alle spalle con fare sospettoso, e poi continua. «Lui... Ci è riuscito, ovviamente. Ha ritrovato quei bambini ad Addlestone, analizzando l'impronta del rapitore»
Alzo le sopracciglia. «Non capisco» dico. «Questa sarebbe una prova? Andiamo, sa perfettamente che lui ne sarebbe in grado!»
«Certo che lo so» replica. «Non dubiterei mai delle sue capacità. Ma quando ha cercato di interrogare Claudette, la più grande, non ci è riuscito. Quella bambina non l'ha fatto nemmeno parlare, tanto era spaventata»
«Beh, è comprensibile»
«No, non capisce» ribatte, con fermezza, bloccandosi per rivolgermi un'occhiata. Dal suo sguardo, sembra che la prossima informazione sarà la batosta finale. «Claudette era letteralmente terrorizzata. Terrorizzata da Sherlock»
Non rispondo. A bocca spalancata e gli occhi aperti, tento di dare una spiegazione a quanto ho appena sentito. Ma non rispondo, e continuo a non farlo. Dopotutto, cosa potrei dire? Come potrei prendere le sue difese?
«Ci... Ci deve essere un errore» balbetto, con voce incerta, alla fine. È l'unica cosa sensata che mi sia venuta in mente. Le sue parole non sono state solo una batosta, ma un vero e proprio colpo mortale.
Lestrade sospira. «Eravamo tutti presenti. Quella bambina si è messa ad urlare in preda al panico, non appena l'ha visto entrare nella stanza»
«Ma non ha senso!» esclamo. «Perché avrebbe dovuto rapire due bambini, per poi ritrovarli?»
«Sono perplesso anche io, ma...» Abbassa gli occhi, scuotendo la testa. «Voglio dire... Sappiamo com'è fatto, no? La modestia non è di certo la sua qualità migliore»
Mi scanso bruscamente, mettendomi di fronte a lui. «Mi sta dicendo che crede che lui l'abbia fatto per mettersi in mostra?!»
«È una possibilità...»
«Vi state sbagliando! Lestrade, lei sa bene che Sherlock non lo farebbe mai! Lui non è...»
Mi blocco. Lui non è cosa? Malvagio, bugiardo, un mostro? Cosa è lui, se non quello che pretende di essere?
«Lui non è così stupido» finisco col dire. «Non si azzarderebbe mai a fare una sciocchezza pericolosa come questa»
Lo dico e subito me ne pento: d'altronde, è appena fuggito da una decina di poliziotti, dopo averli minacciati con una pistola. Lo ha fatto sotto agli occhi di tutti. Persino sotto ai miei. Non ci ha pensato due volte: mi ha solo lanciato uno sguardo prima di scappare.
E solo ora mi ricordo del messaggio che aveva cercato di mandarmi. L'ho visto farlo. So che stava per dirmi qualcosa, ma cosa?
«Lestrade, devo entrare nel suo appartamento» annuncio, dopo qualche attimo, facendo per incamminarmi verso la porta.
Inizio a credere che, qualunque cosa volesse dirmi, potrò trovare la risposta là dentro. Deve avermi lasciato qualcosa, o quello sguardo sarebbe stato senza senso. E sono certa che Sherlock non farebbe mai qualcosa, senza uno scopo preciso.
«È fuori discussione» replica l'ispettore, sbarrandomi la strada. «Quel posto è sotto sequestro. Non sono autorizzato a...»
«Lei sa meglio di me che Sherlock è innocente» lo fermo, con un gesto della mano. «Quali prove potrei mai inquinare?»
«Se l'ispettore capo dovesse venire a saperlo...»
«Chi, il tipo con la cravatta blu e il naso spaccato?» chiedo. «Non penso succederà, non trova? Ho la sua autorizzazione, ispettore» Volto un secondo la mia attenzione all'uomo che poco prima è venuto vicino a noi e che, adesso, è piuttosto lontano dalla nostra portata. «A proposito, cosa gli è successo?»
Lestrade si gira, lanciando una veloce occhiata al suo capo. «John Watson gli ha dato un pugno» risponde. «Per questo era anche lui sotto arresto»
«Non mi stupisce. Sicuramente se l'è meritato»
«Ehi, abbassi i toni. Stiamo parlando dell'ispettore capo»
«Questo non toglie che sia un idiota»
Riporto lo sguardo verso Lestrade che, però, non replica. Mi osserva, cercando di assumere un'aria autoritaria, ma non mi dice nulla. Probabilmente, anche lui la pensa come me. Potrei provare ad usare questo punto a mio vantaggio...
«Ci impiegherò solo cinque minuti»
L'ispettore sospira, si lancia di nuovo un'occhiata alle spalle e poi torna a guardarmi, in silenzio per qualche altro secondo. «Dio mi aiuti...» mormora, prima di farmi un cenno del capo, come invito a seguirlo.
Mi scorta verso la porta, mi fa salire le scale, sotto la sua guida che mi garantisce una sorta di immunità.
«Cinque minuti» dice, mostrandomi una mano, le dita ben distanziate, una volta arrivati sul pianerottolo. «Non di più»
Annuisco. «La ringrazio, Lestrade»
Mi rivolge un sorriso. In modo nascosto, professionale, con il suo atteggiamento da poliziotto. Ma pur sempre un sorriso. E io mi precipito all'interno del soggiorno vuoto, pronta ad una folle caccia all'indizio.
•••
Il Barts ha da sempre un odore strano. Più forte di quello di ogni altro ospedale in cui sia mai stata, per vaccini, analisi e quant'altro. Ma, ad essere sincera, l'odore di disinfettante che impregna questo posto non mi è mai dispiaciuto. Al contrario: l'ho sempre trovato... Piacevole. Respirarlo non mi ha mai fatto ribrezzo, fino ad ora. Adesso lo trovo stranamente nauseante, fastidioso, insopportabile. Sarà la sensazione di torsione allo stomaco che me lo fa odiare tanto? Può darsi. Anzi, è più che una semplice congettura: sono quasi certa che sia proprio per questo.
Non appena sono riuscita a trovare l'indizio che cercavo, ho liquidato Josh con un banale messaggio, in cui gli chiedevo di lasciare le chiavi dell'appartamento al mio padrone di casa, e mi sono precipitata qui. Il Barts è stato il primo posto che mi è venuto in mente, perché ho la netta sensazione che Molly sarà la prima persona a cui Sherlock si rivolgerà. Forse, persino l'unica che gli darebbe retta.
Attraverso il corridoio, facendo scricchiolare la suola di gomma dei miei stivaletti contro il pavimento. Mi avvicino ad una delle tante finestre che occupano la parete sinistra, la apro con un gesto veloce e mi affaccio, inspirando quanta più aria possibile. La strada, sotto di me, è rumorosamente trafficata, e arriva un odore impressionante di asfalto e smog, ma che comunque preferisco a quello di disinfettante. Chiudo gli occhi, continuando a respirare l'aria fresca, beandomi del breve momento di pace regalatomi.
Da quanto sono qui? Venti, trenta minuti? So solo che di tempo ne è passato. Più secondi scorrevano, però, e più dolore allo stomaco provavo. Più nausea che a poco a poco si trasformava in paura. Sta per succedere qualcosa di brutto, me lo sento. O meglio, ho iniziato a sentirlo non appena ho letto l'ultimo messaggio della matrioska.
"Pronto per il problema finale?" diceva l'inchiostro nero, e la velata minaccia, nascosta in mezzo a quelle lettere, mi ha spaventata. È una specie di conto alla rovescia e, irrimediabilmente, ci stiamo avvicinando allo zero. Non è più lontano, verso l'orizzonte, ma qui, accanto a noi. Posso quasi avvertirne la presenza invisibile. Fa paura.
Mi sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e, nel farlo, guardo giù: non mi ha mai spaventata l'altezza, ma a vederla adesso sembra stranamente inquietante. Ogni cosa, ad essere sincera, mi sembra inquietante, ora.
Mi stacco dal davanzale e richiudo la finestra, per poi rimettermi a camminare lungo il corridoio, diretta al laboratorio, dove ho lasciato Molly ad aspettarmi. Come se non le avessi già rubato abbastanza tempo...
Sono arrivata al Barts di corsa, credendo che avrei trovato Sherlock già qui. Ma di lui non c'era traccia, e Molly mi ha semplicemente proposto di restare ad aspettarlo, mentre lei finiva il suo turno. A dirla tutta, credo che lo abbia già finito da un pezzo, e che abbia deciso di restare un po' di più solo perché sono stata io a chiederglielo, seppur indirettamente.
In ogni caso, rimanere ferma non ha aiutato affatto. Sebbene abbia la certezza più assoluta che Sherlock passerà di qui, sento come se non stessi facendo abbastanza. Inutile, immobile, spettatrice di un'esibizione irraggiungibile. L'ansia è cresciuta pian piano, senza che me ne accorgessi nemmeno, fino ad esplodere in un insopportabile sapore di bile alla bocca, che mi ha fatto sentire il bisogno di aria nuova e fredda contro la pelle.
Svolto l'angolo, conto due porte tagliafuoco e apro la terza, trovandomi inspiegabilmente al buio. La luce del corridoio è l'unica che mi faccia chiaramente vedere l'interno del laboratorio: davanti a me, a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altra, Sherlock e Molly si fronteggiano, fissandosi negli occhi. Ma il mio arrivo interrompe bruscamente il loro scambio di sguardi.
Molly volta la testa verso di me, che sono alle sue spalle, mentre Sherlock non fa altro che lanciarmi una fugace occhiata. Cerco di capire più cose di quante voglia effettivamente saperne, tento di fargli più domande di quante sia mai in grado di farne.
Molly lo nota. Nota le nostre parole silenziose, e intuisce di cosa abbiamo effettivamente bisogno. «Vi lascio soli» dice, tenendo la porta che io ho aperto. «Ti aspetto fuori, Sherlock»
Esce dalla sala che, adesso, rimane più al buio di prima. L'unica fonte di flebile luce arriva dai lampioni in strada, attraverso le finestre. Io e Sherlock rimaniamo fermi a guardarci, in un silenzio dannatamente opprimente, tra le ombre che ci avvolgono come freddi mantelli neri.
«Cosa ci fai qui?»
«Beh, potrei benissimo chiederti la stessa cosa» ribatto, infilandomi le mani nelle tasche. «Dopotutto, sei scappato da una squadra di poliziotti inferociti, il che non è stata esattamente una mossa intelligente»
Di nuovo silenzio. Nessuna replica, nessuna difesa, nessuna spiegazione. Nessun tentativo di rispondere a tono. Solo silenzio.
«Ho trovato questo a casa tua...» Tiro fuori dalla tasca della giacca un ritaglio di giornale dai bordi storti, che indicano la fretta con cui l'ho strappato. Lo tengo tra l'indice e il medio, il titolo rivolto verso di lui. «"Il libro della rivelazione" di Kitty Reilly»
Sherlock lo prende in mano, per poi leggerlo velocemente nonostante il buio. Aspetto qualche secondo, le braccia incrociate al petto, prima di continuare.
«È meglio se cominci a spiegare questa storia, Sherlock, perché io non so più a cosa credere»
Rialza gli occhi dal pezzo di carta, li fissa su di me, poi inarca un sopracciglio. «Quale storia?» dice, fingendosi ironicamente inconsapevole. «Oh, ti riferisci al fatto che sono un sequestratore di bambini, per caso?»
Mi mordicchio l'interno del labbro inferiore, cercando le parole giuste per poter continuare. Non ho mai dubitato di lui, e ne è consapevole, ma ho bisogno di spiegazioni. Devo averle, e lui non può fare altrimenti.
«Perché mai dovrebbero pensarlo?»
«Non è chiaro?» dice, facendo il giro del bancone. «Secondo Scotland Yard, non è umanamente possibile riuscire a risalire al rapitore da un'impronta»
Il suo tono si alza, parola dopo parola, ma non sembra arrabbiato. Non lo è, in realtà. Il tono di voce è alto, è vero, ma lui sembra... Calmo.
«E allora chi è questa donna?» domando, indicando il ritaglio di giornale. «Lei cosa c'entra?»
«È una giornalista che ho incontrato tempo fa» Si ferma, tornando di nuovo con lo sguardo sul pezzo di carta. Poi alza un angolo della bocca. «A quanto pare ha scoperto tutto...»
«Tutto?» ripeto, con fare perplesso. «Tutto cosa?»
«Oh, beh...» comincia, con un gesto della mano. «Ovviamente, non posso essere tanto intelligente da aver risolto da solo ogni caso della mia carriera. Ho inventato tutto, ogni cosa. Solo per guadagnarmi gli elogi della gente» Si ferma, mi guarda. Poi ghigna. «Sono un impostore»
«Ma di che diavolo stai parlando?!» esclamo, quasi gridando, creando uno strano contrasto tra noi due. Un contrasto che non credevo nemmeno possibile tra me e lui.
«Oh, andiamo, metti in moto le rotelle in quella testa!» ribatte, in tono annoiato.
Mi blocco. Ogni mio tentativo di movimento si fa lento. O magari è solo la mia impressione. In realtà, è come se tutto, attorno a me, si fosse fatto improvvisamente più lento, persino la polvere. È tutto mostruosamente lento, in confronto ai miei pensieri, alle mie idee che si ripetono, le mie domande che continuano a risuonarmi nella testa. Eppure, c'è solo una cosa di cui sono assolutamente certa, contro cui nessun fatto potrà mai andare.
«Io non dubiterei mai di te!» esclamo, alzando la voce. Ma il mio tono è niente, in confronto al suo.
«Beh, allora dovresti!» esplode, voltandosi di scatto verso di me. «Ancora non te ne sei resa conto? Eppure credevo che fossi intelligente!»
Lo guardo a bocca socchiusa, combattendo contro la confusione per cercare di capire. «Come?»
Sherlock posa le mani sulla superficie del bancone, il cui colore pallido spicca nell'oscurità, senza smettere mai di fronteggiarmi, trafiggermi con i suoi occhi gelidi. «Non c'è mai stato niente di vero. Non erano altro che bugie. Il nostro rapporto era interamente costruito su delle menzogne»
Si ferma un attimo, come se credesse che così facendo mi darà la possibilità di assimilare il tutto. Ma non è vero, perché succede l'esatto opposto. Ho più domande che risposte, e penso che lui lo legga benissimo attraverso la mia espressione.
«La persona che ti ho fatto conoscere, l'unico consulente investigativo del mondo... Niente di tutto ciò è mai stato vero»
«Oh, sul serio?» ribatto. «Stai davvero cercando di convincermi che tutto quello che mi hai detto su te stesso non è stato altro che una bugia?» Mi fermo, lasciandomi sfuggire una risata aspra. «Beh, allora complimenti: sei davvero più stupido di quanto dai a vedere. E allora dimmi...» Faccio un passo verso di lui. «Se hai davvero inventato ogni cosa, se davvero tu non sei chi hai sempre sostenuto di essere... Come facevi a sapere tutto della mia vita?» gli chiedo, inclinando di lato la testa. «Come facevi a sapere di mio padre, della depressione di mia madre, delle mie abitudini...»
«Ho fatto delle ricerche su di te, ovviamente»
«Delle ricerche?» ribadisco, con una risatina ironica, sull'orlo dell'isterico. «Ottimo. Ottimo davvero» Annuisco, lottando per trattenere uno scoppio d'ira improvviso. «Ti rendi almeno conto che quello che stai dicendo non ha senso?»
«In cosa non ha senso?» fa lui, beffardo. «Potrei cercare di illuminare la tua testolina confusa»
«Perché hai scelto di rovinare la mia vita cambiando la facoltà che io avevo scelto?»
Sherlock si lascia sfuggire un gesto stizzito. «Una prova di idoneità. Niente di più semplice. Volevo vedere se ti saresti battuta per la tua autonomia o se avresti accettato le cose come stavano» Alza un angolo della bocca, con fare compiaciuto. «Per questo ti ho chiesto di seguirmi ad Horsham: ormai sapevo che non avresti rifiutato»
«Ma perché io?!» grido, ormai fuori di me. A nulla sono serviti i miei tentativi di rimanere con la testa a posto. «Ci sono sette miliardi di persone nel mondo, e tu hai scelto di venire a sconvolgere proprio la mia esistenza!»
«Mi serviva una persona come te, per poter rendere la mia messinscena più credibile» Fa una breve pausa, giusto il tempo per stringersi semplicemente nelle spalle. «E poi Amanda doveva ritrovarsi con la possibilità di potermi spiare da vicino, e tu eri la scelta migliore»
«Amanda?»
«Devo dire che è stata piuttosto d'aiuto, sotto certi aspetti, in particolare...»
«Che stai dicendo?!» lo interrompo, con voce furiosa. «Cosa c'entra Amanda in tutto questo?»
Sherlock si mette a fissarmi, con uno sguardo con cui fa finta di essere inconscio.
«Non lo hai capito?» dice, inclinando la testa, guardandomi nello stesso modo in cui si guarderebbe una bambina che non riesce a capire ciò che le viene detto. «Lei lavorava per me»
«Amanda lavorava per Moriarty!» ribatto, stringendo i pugni, tentando con tutta me stessa di trattenere tutte le mie lacrime di rabbia e confusione, provando a sferrare dei contrattacchi che, alla fine, risultano troppo deboli per essere efficaci. «Lei gli ha detto il mio punto debole e mi ha chiusa in quella cassa! Lo ha fatto per colpire te, perché...»
Mi blocco di nuovo. Un'altra dannata pausa, che non fa altro che accentuare il rumore dei pezzi restanti della mia anima che s'infrangono uno ad uno contro il pavimento. Adesso capisco. Arriva un breve istante, in cui tutto diventa improvvisamente e spaventosamente chiaro. Una consapevolezza atroce contro cui vorrei oppormi, se solo ne avessi la forza.
«No...» mormoro.
«Moriarty non esiste»
Si avvicina a me, piano piano.
'Ti prego, no... Non dirlo'
«Io sono Moriarty»
Lo guardo per qualche attimo, prima di piegarmi in due. «No, no, no...» Mi tappo le orecchie, proteggendomi da una verità che non voglio sapere. E soprattutto... Perché anche l'ultimo pezzo è caduto. L'ho sentito rompersi, e quel rumore è esploso in ogni angolo del mio corpo, rimbombando con un'esplosione atroce. Incasso questo suo colpo finale, e lotto per riprendere ossigeno. «Stai mentendo, stai mentendo!» grido, rialzandomi di scatto. «Amanda è morta perché voleva ucciderti! John le ha sparato per salvarti!»
«Oh, no» fa lui, ridendo, come se fosse un gioco. Tutto un enorme, stupidissimo gioco. «Era ovviamente programmato che lei dovesse morire. Era diventata leggermente d'impaccio, e prendeva il suo lavoro troppo alla lettera. Di questo passo avrebbe scoperto che dietro a tutta quella storia c'ero io» Ride di nuovo, divertito, sotto il mio sguardo disgustato.
«La mia migliore amica è morta...» inizio, stringendo i pugni così forte da farmi male ai palmi delle mani. «Per una cosa che tu stesso le avevi chiesto di fare?!»
«Lei mi serviva solo per delineare meglio il carattere di Moriarty»
«Mi fai schifo»
«Non sei la prima che lo dice»
Richiudo lentamente la bocca e deglutisco, per inghiottire a forza tutte le mie lacrime e le brutte parole. Stringo forte i denti. L'uno contro l'altro. I miei respiri accelerano, come se stessi correndo, facendo uno sforzo fisico inumano, lottando contro me stessa per evitare di esplodere e combinare chissà quali casini.
Il mio corpo comincia a muoversi senza che me ne renda nemmeno conto. Mi avvicino a lui, la mascella serrata e le mani strette a pugno. Lo guardo. Mi guarda. Lo guardo. Mi guarda. Vorrei rimanere qui, ferma a fissarlo, in attesa che il fuoco che mi brucia dentro lo incenerisca, facendolo ardere tra le fiamme della mia rabbia. Vorrei fargli del male, farlo soffrire con una serie di atroci torture, ma più lo guardo e più mi rendo conto che non posso. Non so perché, ma non posso. Non posso, non posso, non posso...
Vedo la mia mano volare velocemente verso la sua faccia. Immagino la sua pelle, prima bianchissima, farsi leggermente rossa per l'impatto. È tutto quello che posso fare. Mi tengo dentro ogni altra cosa, ogni pugno e colpo mortale. Non posso.
'L'omicidio è illegale, Jane. Illegale' non faccio altro che ripetermi, tentando di calmare l'incessante necessità di scagliarmi contro di lui.
«Non ho parole»
Ed ho ragione. Mai mi sarei immaginata di avere ragione come ora. Mai.
Mi volto e, con passo deciso, mi avvicino alla porta.
«Oh, piantala di fare così» mi dice, prima che possa anche solo posare la mano sulla maniglia. «Fingerti forte non ti si addice, Aldernis»
Ecco il punto di rottura. Quelle otto lettere che dovrebbero indentificarmi, ma che io odio con tutta me stessa. Il modo con cui lui le ha pronunciate, il disprezzo e il distacco della sua voce. Il tono, scelto apposta per farmi del male.
Stringo le spalle, forte. Cerco di trattenere un singhiozzo, ma totalmente invano. «Va' all'inferno, Holmes!»
Spingo la maniglia della porta con foga, esco e la richiudo sbattendola alle mie spalle.
«Jane?»
«Lasciami stare!» urlo, girandomi appena verso Molly, senza smettere di camminare lungo il corridoio. «Voglio rimanere da sola»
Non replica. Mi lascia percorrere la breve distanza tra me e l'ascensore. Premo il pulsante, più e più volte, finché non perdo la pazienza e mi allontano con un verso d'irritazione. Corro verso le scale, le scendo volando, più in fretta che posso e, una volta raggiunto il piano terra, esco a testa bassa. Sono così fremente di rabbia incontrollata che per poco non mi metto ad urlare in mezzo alla strada. Le mani mi tremano, mentre cerco le chiavi della macchina nella mia tracolla. Le tiro fuori da un taschino laterale, apro la mia auto parcheggiata accanto al marciapiedi e vi salgo dentro, richiudendo poi la portiera con forza. Poso le mani sul volante, stringendolo fino a farmi dolore le dita. E poi esplodo. Come con un pallone pieno d'aria tenuto per troppo tempo sotto pressione, si apre una fessura dalla quale esce tutto il miscuglio di emozioni che mi tortura.
Batto le mani contro il volante, gridando e piangendo, per poi appoggiare la fronte sui pugni chiusi. Singhiozzo incontrollatamente, ed ogni sobbalzo è una pugnalata ad un fianco, che provoca dolore e nient'altro.
Mi sento in bilico, con un equilibrio precario, sull'orlo di un dirupo profondo a cui, però, do le spalle. I piedi piantati a terra mi danno quell'illusoria sensazione di sicurezza, mentre il vento impetuoso della mia disperazione mi prende a schiaffi, spingendomi all'indietro. Ed io mi piego, dondolando da una parte all'altra come una canna di bambù, e più mi sforzo di rimanere integra, più temo di spezzarmi in due. Di permettere che una parte di me cada nel baratro, lasciando l'altra sulla cima, ancorata alle radici. Ho persino paura che sia già successo.
«Fa male, non è vero?»
Sobbalzo e spalanco gli occhi, quando sento una voce accanto a me. Una voce viva, presente. Una voce che credevo di aver dimenticato.
Mi rialzo lentamente e guardo alla mia sinistra. «Amy?»
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