{46° Capitolo}
"Bitter, sweet and strange,
finding you can change,
learning you were wrong"
-Céline Dion, Peabo Bryson,
"Beauty and the Beast"
[Capitolo quarantasei]
Jane
Mi fischiano le orecchie, non appena Sherlock termina di spiegare. Nel suo racconto, ci sono troppe informazioni, troppi fatti, che ho dovuto assimilare in una volta sola. Mi confondono i pensieri e, soprattutto, li destabilizzano.
Sospiro, abbandonandomi sui cuscini.
«Tutto bene?»
«Sì, solo... Non capisco» mormoro. «Non capisco: cosa c'entro io, col piano di Moriarty?»
Sherlock serra la mascella, forte, e mi fissa negli occhi, aggrottando le sopracciglia. Il suo sguardo è freddo, e ciò mi fa capire che mi sta nascondendo qualcosa. Qualcosa di grande, di indicibile.
Non mi accorgo del silenzio che regna nella stanza, del vociare nel corridoio, del bip che accelera. Non mi accorgo di tutto questo, finché il brontolio del mio stomaco non mi riporta con la mente alla realtà, cosicché il mio principale pensiero non siano più i segreti di Sherlock.
«Scusa...» mi affretto a dire, portandomi una mano in grembo. «È da ieri che non tocco cibo per studiare»
Il suo volto si rilassa e le sue labbra si piegano in un sorriso, questa volta palese, visibile. Non saprei dire se forzato o no.
«Forse, posso risolvere questa situazione» dice, per poi sistemare davanti a me il tavolo pieghevole del letto.
Prende da terra un sacchetto di carta e ne estrae qualcosa, che poi poggia davanti a me.
«Crostata al limone da Costa!»
«John mi ha detto che non avrei dovuto portarti niente da mangiare» dice, ritirando le mani. «Ma date le circostanze...»
«Come sei pieno di tatto» lo canzono, con una risatina.
Prendo la crostata da sopra la busta e la divido in due, con un tripudio di briciole che cadono sul tavolo, per poi tenderne una metà a Sherlock.
«Cosa?»
«Prendila»
«Perché?»
«Per mangiarla, forse?» rispondo, con tono ovvio.
Lui apre di nuovo la bocca per replicare, ma io sono più rapida.
«Sta' zitto e non fare complimenti» lo blocco, mettendogli in mano il pezzo di dolce. «Penso che tu sia messo addirittura peggio di me»
Guarda la crostata, storcendo di lato le labbra. «Non questa volta»
Alzo le sopracciglia, assumendo un'espressione scettica, che lui nota solo dopo qualche secondo.
«È una lunga storia»
Scuoto la testa, con un sorriso appena accennato. «Mangialo» ripeto, portandomi alla bocca la mia parte. «Tanto non devi usare il cervello, per ora»
Ne addento un lato, invitando Sherlock con un cenno del capo a fare altrettanto. Lui guarda di nuovo il pezzo di crostata, indeciso, come un bambino che viene costretto a mangiare verdura. Poi lo avvicina alla bocca e ne morde un'estremità, cominciando a masticarlo lentamente.
Il cambiamento sul suo viso è la cosa più divertente che potessi mai sperare di vedere: prima ha un'espressione cinica, ma poi muta e diventa stupita, quasi soddisfatta.
«Però...» dice, senza aspettare di ingoiare. «Non è poi tanto male»
Alzo le spalle, come per dire: "Che ti avevo detto?". Lui alza gli occhi al cielo, ma non fa una faccia disperata, o biasimante, o superba. Non si atteggia ad essere migliore. Lui sorride. È la cosa più strana ed improbabile che avrei mai potuto vedergli fare. Eppure lui sta mangiando e sorridendo. Insieme a me.
«Come hai fatto a capire qual era il posto esatto in cui mi trovavo?»
Blocca la mandibola, per poi riprendere a masticare subito dopo ed ingoiare il boccone.
«Non è stato troppo complicato» risponde, semplicemente. «Mi avevi detto che eri uscita dall'università alle dieci, ma dato che io avevo provato a chiamare il numero alle undici meno un quarto senza ricevere risposta, ho pensato che ti avessero portata in un luogo lontano almeno quaranta minuti d'auto dal King's College, traffico permettendo. Quando hai risposto, mi hai detto di sentire una campana e la descrizione del suono mi ha lasciato intendere che fosse quella di una cappella. Ho pensato immediatamente ad un cimitero, quindi ho fatto una ricerca incrociata tra quelli lontani almeno quaranta minuti dalla School of Law e i funerali che si erano svolti in quelle zone nell'ora in cui abbiamo parlato»
Annuisco, abbassando lo sguardo. «Davvero bravo» gli dico. «Credevo che ci avresti messo molto più tempo»
«Tutti, a parte me, ci avrebbero messo molto più tempo» replica lui, altezzosamente.
Sbuffo una risata. «Presuntuoso»
Lui alza di nuovo gli occhi al cielo, per poi scuotere la testa. Però continua a sorridere, come se non gli desse fastidio essere qui, con me, a raccontarmi cose che probabilmente già so, a sentirsi chiamare in modi che già conosce.
«Posso...» inizio, titubante, ma mi fermo subito, perché credo che questa domanda sia stupida. Magari quel suo tono era solo frutto della mia immaginazione, della mia scarsa lucidità che potrebbe avermi confuso le idee. Però decido di porgergliela lo stesso. «Posso sapere perché eri sorpreso?»
Ferma la sua mano, con cui stava per portarsi l'ultimo pezzo di crostata alla bocca, abbassandola lentamente. Poi inclina di lato la testa e inarca le sopracciglia. «Prego?»
«Quando mi hai risposto al telefono, avevi un tono sorpreso» gli dico. «Ma non avresti dovuto esserlo, dato che avevi un indizio, giusto?»
Sherlock schiude appena le labbra, così come leggermente spalanca le palpebre.
«Nel senso... Dovevi aver capito che si trattava di me, no? L'indizio doveva avertelo fatto intuire»
La sua espressione non muta. Rimane immobile, la bocca aperta, e quello sguardo agitato di chi si sta perdendo in un bicchier d'acqua.
Però non capisco... Perché dovrebbe essere agitato?
Si schiarisce la gola. «Io...»
«Jane!»
La porta della stanza si spalanca, mostrando un ragazzo in piedi sulla soglia, con i capelli spettinati e il fiatone, che gli conferiscono un'aria trascurata.
«Alan?»
Mi guarda per un secondo, come se volesse accertarsi di non star avendo una visione, e poi si fionda verso di me come una furia, abbracciandomi stretta, fino a soffocarmi.
«Oh, Dio, Jane! Stai bene!»
«Ehm... Sì, Al» gli rispondo, ridendo con voce strozzata, sebbene sappia perfettamente che la sua era un'affermazione, con la quale rassicurare sé stesso. «È tutto passato. Adesso sto bene»
«Ero così preoccupato...»
«Sto bene, sul serio»
«Togliti, togliti!»
Alan scioglie in fretta la sua presa attorno alla mia schiena, sotto l'insistente richiesta di mia madre, entrata poco dopo di lui. Non faccio in tempo a riprendere fiato che anche lei mi stringe a sé, persino più saldamente di Al.
«Oh, Jane! È terribile, terribile quel che ti hanno fatto! Oh, Signore, temevo che ti avrei persa...»
«È tutto okay, mamma, sta' tranquilla» la rincuoro, senza riuscire a ricambiare l'abbraccio a causa della sua forte presa attorno al mio busto. «Sono al sicuro, adesso. Non preoccuparti, è...»
«Tu!»
La voce furiosa di mio fratello blocca le mie parole. Mi prende alla sprovvista, facendomi sobbalzare, tanto è arrabbiata e... Anomala. Perché la sua voce è sempre felice o preoccupata, al massimo infastidita o delusa. Ma mai arrabbiata.
«Io?»
In un secondo, capisco a cosa si riferiva. Capisco cosa voleva dire, con quel tono intimidatorio.
Mi libero dalla presa di mia madre, giusto in tempo per vedere Alan afferrare Sherlock per la camicia e sbatterlo al muro, con un tonfo.
«Alan!»
«Sei stato tu a metterla in pericolo!» ringhia lui, ignorandomi completamente.
«Io? Le ho salvato la vita!» grida Sherlock, di rimando.
Mio fratello lo tira verso di sé, per poi sbatterlo di nuovo contro la parete.
«Alan, smettila subito!» lo avverte mia madre, muovendo un passo verso la sua direzione.
«Prova soltanto ad avvicinarti di nuovo a lei e giuro che ti farò di rimpiangere di essere nato, razza di psicopatico!»
Sherlock avvolge con le mani gli avambracci di mio fratello e, con una mossa veloce, si libera della sua presa. Lo allontana con dei rapidi movimenti delle gambe, riuscendo, infine, a piegargli un braccio dietro la schiena.
Tutto accade in fretta, come le immagini confusionarie di un film col quale non è possibile interagire. L'unica differenza è che, invece, io posso.
Mi alzo dal letto, staccandomi gli elettrodi con fare stizzito, facendo così accelerare il bip delle macchine.
«Basta, piantatela!»
Mi avvicino a loro correndo, ma non li raggiungo. Mi fermo prima, perché capisco immediatamente che qualcosa non va. Spalanco gli occhi e mi porto prima una mano, poi anche l'altra, alla gola, annaspando. Qualcosa non va, sì, ma cosa?
«Jane?»
Tento di parlare, ma non riesco ad emettere alcun suono. Crollo in ginocchio, chiedendo aria.
«Jane!»
Sherlock allenta la presa attorno al braccio di Alan, che subito si precipita affianco a me, con gli occhi spalancati, mentre mia madre mi posa una mano sulla schiena e con l'altra mi dà leggeri colpetti sulla guancia.
«Cos'hai, Jane?! Cos'hai?»
«Ha un'insufficienza respiratoria»
«Cosa?!»
Sherlock si avvicina a me e mi prende in braccio, per poi posarmi sul letto.
«Corro a chiamare qualcuno!»
Alan esce dalla stanza e io vedo il mondo attorno a me scorrere, senza che io riesca a reagire in alcun modo. Ho bisogno d'aria, non credo di riuscire a resistere ancora per molto.
«Cos'ha? Cosa le prende?» non fa che chiedere mia madre, tenendomi stretta una mano.
«Non lo so...» balbetta Sherlock, incerto, con quelle sue iridi azzurre spalancate. «A meno che...» Gli viene un'idea. Posso leggerglielo chiaramente in faccia. «Jane, ascoltami» mi dice, prendendomi il viso tra le sue mani calde. «Hai preso l'Oxazepam, quando eri nella cassa?»
Ho un altro flash, questa volta più veloce. La borsa era vicino a me. L'avevo aperta, avevo stretto la boccetta con il mio psicofarmaco. Due pillole. Solo due. Pensavo che mi avrebbero aiutato, come sempre. Solo ora capisco quanto mi sbagliassi.
«Oxa-cosa?» domanda mia madre, preoccupata. «Che cos'è? Cosa le sta chiedendo?»
«Lo hai preso?»
Raccolgo tutte le mie energie e mi costringo ad annuire. Piano, ma con convinzione.
Poi la bocca mi si riempie d'un sapore ferroso, forte, nauseante. Lo stesso che sento quando mi mordo un labbro per sbaglio. Solo che adesso arriva a getti.
Mi chino sul bordo del letto e vomito. Spalanco gli occhi, nel vedere una pozza di sangue denso sul pavimento.
«Jane! Oh, mio Dio!»
«Tutti fuori dalla camera! Uscite immediatamente!»
Medici in camice bianco o tuta verde si accalcano attorno a me, affaccendandosi per sistemare il mio corpo malfunzionante.
«Lasciatemi rimanere! È mia figlia!» Mia madre urla istericamente, mentre la vedo venir trascinata verso la porta. «Jane! Jane!»
Il mondo sfuma, diventa scuro man mano che i secondi passano. Le ultime cose che vedo, prima di svenire, sono tubi di plastica, la crostata al limone buttata a terra, ormai ridotta in briciole, e Sherlock. Attraverso il vetro, prima che vengano abbassate le tendine, vedo anche lui. Non urla, come mia madre ormai scoppiata in lacrime, o come mio fratello, sull'orlo di una crisi. Ma la sua espressione dice tutto. Stona un po', sul suo volto, a cui è estranea, ma io la riconosco subito. Ho dovuto conviverci per anni e la conosco bene: è panico.
Baker Street, Londra, Inghilterra•19 Marzo 2012, ore 15:50
«Non lasciarmi sola, Sherlock...»
«Devo trovarti. Ti prometto che farò presto»
Il detective fece scorrere velocemente il dito lungo lo schermo del cellulare, così da chiudere la chiamata, poi si fiondò in salotto e afferrò in fretta il portatile di John che, nel frattempo, non la smetteva di mormorare frasi sconnesse ed esclamazioni inutili.
«Chiamo Lestrade» si decise, alla fine, prendendo il cellulare di Sherlock ancora posato sul tavolo. «Gli chiedo se riesce a mettere a disposizione una squadra di cani molecolari»
Sherlock non lo ascoltava, intento com'era a fare vertiginosi calcoli a mente. Aprì una nuova pagina di ricerca e digitò la parola "necrologi", insieme alla data corrente. Iniziò velocemente a scartare i cimiteri troppo lontani o troppo vicini alla School of Law e fece una ricerca incrociata con i funerali che si erano tenuti più o meno alla stessa ora della chiamata con Jane.
«Pronto, Lestrade?»
Kensington Hanwell...
«È un'emergenza»
Greenwich... Trent Park...
«Devi immediatamente mandare una squadra di soccorso...»
Woolwich... East Finchley...
«E dei cani molecolari a...»
Fu a quel punto, esattamente a quel punto, che lo trovò: dopo aver ristretto enormemente il campo, trovò il cimitero che aveva tutti i requisiti per essere il luogo dove si trovava Jane.
«Al Gunnersbury Cemetery!» gridò Sherlock, alzandosi con uno scatto, rovesciando la sedia, per poi afferrare il cappotto e infilarlo velocemente mentre iniziava a scendere le scale.
Si mise a saltare parecchi gradini per andare più veloce, indossando la sciarpa, con John che lo seguiva in fretta senza staccare il cellulare dall'orecchio.
«Al Gunnersbury Cemetery: una ragazza è stata sepolta viva!»
Non appena giunse in strada, Sherlock allungò un braccio per attirare l'attenzione di un taxi, ma la vettura non si fermò.
«Maledizione...» imprecò sottovoce, abbassando la mano e iniziando a guardarsi intorno, impaziente di vedere un'altra di quelle dannate auto nere far capolino davanti ai suoi occhi.
Rimase immobile e, improvvisamente, si rese conto di un errore. Si maledisse, si diede dello stupido più e più volte. Come aveva fatto a non pensarci prima? Con un taxi, avrebbe impiegato il doppio del tempo per arrivare nella zona di Hounslow. Era ovvio.
Si voltò verso John e lo prese per le spalle. «Devi chiamare Amanda,» gli disse, guardandolo dritto negli occhi. «e chiederle di prestarci la macchina»
Il medico lo guardò per un attimo, confuso, prima di annuire e dirigersi correndo verso il 222B.
Sherlock rimase fermo un'altra volta, a fissare il vuoto. Continuava a maledirsi, nella sua testa piena di preoccupazioni. Ma perché avrebbe dovuto essere preoccupato? Per quale motivo? Si passò una mano tra i capelli, chiuse gli occhi ed inspirò. Cosa gli stava succedendo? Cosa lo...
«Sherlock!»
Si voltò, lasciando andare la presa sui suoi capelli: John aveva in mano un mazzetto di chiavi e lo sventolava, tenendolo in alto.
Il detective attraversò Baker Street di corsa, fermandosi non appena raggiunse il ciglio della strada dove era parcheggiata la Smart di Amanda.
La ragazza era sul marciapiedi, la bocca semiaperta, gli occhi spalancati, ma di poco. «Cosa diavolo sta succedendo?»
Sherlock aprì la portiera dal lato del conducente e salì in macchina, senza risponderle. Si erano scambiati una fuggevole occhiata, con la quale lui aveva capito tutto. Tutto.
«Jane è in pericolo» spiegò rapidamente John, affiancando Sherlock. «Chiama il fratello. Digli di venire subito qui»
Diede le chiavi al detective, che mise in moto e partì a tutta velocità, con una manovra alquanto pericolosa. Sorpassò il semaforo rosso e tutta la coda di macchine, senza curarsi delle multe salatissime che gli sarebbero presto arrivate.
Per la prima parte del viaggio, Sherlock tenne le mani strette sul volante, il piede che spingeva l'acceleratore quasi di peso e gli occhi, ridotti a due sottilissime fessure, fissi davanti a sé. La sua testa era un disordinato insieme di pensieri, ipotesi e domande. Troppe domande, tutte con lo stesso fattore in comune:
'Perché Moriarty ha preso Jane? Lei cosa c'entra? Perché rinchiuderla in una cassa? Adesso sta bene? È stata torturata, prima? È ferita?'
Non riusciva a metter loro un freno. Ci provava e riprovava, ancora e ancora, ma senza successo.
Perché? Perché non si stava più comportando in modo razionale?
«Sherlock?»
«Non ora» rispose, acidamente, quando John cercò di attirare la sua attenzione. «Sto pensando»
«Ma...»
«Sto pensando!»
«Ti ha inviato un messaggio»
Sherlock smise di battere le palpebre, serrò la mascella e strinse ancora di più il volante, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
«Cosa dice?» chiese, con tono distaccato.
John aveva aspettato un momento, prima di rispondere, come se volesse preparare meglio l'amico al contenuto di quell'avviso.
«"Passa. Il tempo scorre. L'attimo passa. Tutto, prima o poi, finisce. Farai in tempo? Tic-tac"»
Il suo respiro prese ad essere improvvisamente più veloce. Rimase in silenzio per un po', con lo sguardo assorto e dritto davanti a sé, perso in chissà quali pensieri. E poi lo fece. Fece la pazzia che avrebbe potuto uccidere entrambi. Con una rotazione fulminea del volante, si buttò sulla corsia opposta e iniziò a zig-zagare tra le auto, con l'acceleratore premuto fin quasi al limite.
«Sherlock!» urlò John, preso dal panico. «Frena! Frena!»
Lui non rispose. Evitò di farlo. Evitò di dargli ragione o di contraddirlo, perché John non avrebbe capito il motivo di quell'azione. Nessuno lo avrebbe mai capito.
Per tutto il frenetico tragitto, Sherlock non fece altro che pensare a quel messaggio, che ormai era diventato il suo chiodo fisso. Aveva ripreso a contare i secondi, a scandire il ticchettio dei suoi pensieri, cercando in tutti i modi di non far scorrere troppo tempo.
Sapeva benissimo perché lo stava facendo, perché era così impaziente di far presto. Non lo avrebbe mai ammesso, però. Lui non ammetteva mai niente.
«Perché hai scelto me?»
Arrivò davanti l'entrata del Gunnersbury Cemetery e parcheggiò malamente l'auto a pochi centimetri dal cancello. Scese ed entrò di corsa nel cimitero. Si guardò attorno un attimo, giusto il tempo necessario a John per raggiungerlo. Poi individuò ciò che cercava.
«Di qua!» disse, tirando l'amico per una manica così da condurlo ad una piccola cappella, nei pressi della quale si fermarono.
Jane alzò lentamente gli occhi verso quelli di Sherlock, incontrando il suo sguardo confuso. «In che senso?»
«Jane!»
«Jane, dove sei?»
John si allontanò, per andare a cercare dall'altro lato della costruzione in mattoni rossi, lasciando il detective da solo.
«Jane!»
Sherlock urlava. Urlava, fino a perdere la voce. Urlava, e il suo grido si perdeva tra gli alberi del cimitero di Hounslow. Urlava, per darsi una certezza.
«Jane!»
Girava su sé stesso, guardandosi attorno, alla ricerca di un segno, di un minuscolo indizio, che solo lui sarebbe stato in grado di cogliere.
«Jane!»
Si azzittì, in attesa di una risposta che, però, non arrivò.
«Jane, riesci a sentirmi?»
Ancora una volta, niente. Non un sibilo, non un grido sommesso o una supplica soffocata. Niente di quello che si aspettava di sentire.
Sherlock non capiva: doveva essere lì, per forza... Come mai non gli rispondeva? Cosa glielo impediva?
Poi spalancò gli occhi, quando un piccolo, insignificante pensiero iniziò a tartassargli la mente. Un pensiero stupido, quasi improbabile, ma possibile. Certamente possibile. Una consapevolezza che lui aveva sempre respinto con altezzosità, rara nella sua testa, mai accettata dal suo orgoglio. Ma, questa volta, possibile.
«Avresti potuto scegliere chiunque. Tuo fratello, Amanda, un personaggio dei tuoi amati libri...»
Eppure era improponibile, al limite del concepibile, che lui avesse sbagliato. Lui, Sherlock Holmes, conosciuto per il suo infallibile intuito, non poteva aver errato. Non lui.
Ripercorse velocemente tutti i passaggi che aveva seguito, focalizzando davanti ai suoi occhi, in una lista ordinata e completa, tutte le sue azioni. Si portò entrambe le mani alla testa, piegandosi in due.
Dove? In cosa aveva sbagliato? Quale punto aveva dimenticato di calcolare?
Serrò gli occhi, riaprendoli subito dopo.
La risposta era lì, lo era sempre stata. Ma anch'essa faceva parte delle cose che aveva continuamente respinto, che mai avrebbe ammesso. Neppure a sé stesso.
La domanda la spiazzò.
Sherlock si tirò su e si guardò attorno, un'ultima volta.
«Immagino che sia perché mi stai salvando la vita»
«Davvero?» fece lui, ridacchiando. «È una scusa un po' banale, non credi?»
Gridò ancora il suo nome.
«Tu ne hai una migliore, genio?»
Questa volta più forte, più disperatamente.
Sherlock sorrise. «Credo di sì»
Jane si svegliò, spalancando gli occhi all'improvviso, e riemerse dalla sua allucinazione. Aveva sentito una voce che la chiamava. Che urlava il suo nome a squarciagola.
«Sherlock...» mormorò, posando una mano sulla superficie sopra di lei.
Si rese conto solo dopo che, con quel tono debole, lui non l'avrebbe mai sentita. Così, catturò ogni atomo di ossigeno che le rimaneva a disposizione, per chiamarlo di nuovo, gridando.
«Sherlock!»
Il detective si fermò, cogliendo la voce smorzata, flebile, ma presente. Lì, in quel luogo.
«Jane!» urlò ancora, voltandosi da una parte all'altra.
«Sherlock! Aiutami, Sherlock!»
Jane iniziò a battere il legno che la imprigionava, senza smettere per un attimo di tirare calci e pugni nonostante la stanchezza, nonostante la paura.
Sherlock li vide: minuscoli granelli di terra ancora smossa che si muovevano, rotolando giù da una piccola montagnola.
«John, corri a prendere una pala dal custode! In fretta!» gridò all'amico, prima di precipitarsi sul tumolo oscillante. Cadde in ginocchio affianco ad esso e iniziò a togliere la terra con le mani. «Jane! Jane, sono qui!»
Velocemente, le sue unghie cominciarono a spezzarsi, la pelle gli si sporcava di terra, e il cervello cadeva nel buio più nero. Ma non gli importava, non più. Continuò a scavare, con sempre maggiore energia, fidandosi ciecamente dei suoi sentimenti.
«Sherlock... Ti prego...»
«Sono qui, Jane! Sono qui!» continuava a ripeterle, come se fosse convinto che, così facendo, sarebbe riuscito a tirarla fuori più in fretta.
Non appena John tornò con due badili, Sherlock gliene strappò uno dalle mani, con impazienza. Si alzò e, affondando la punta nella terra morbida, la sollevò, per poi buttarla da qualche parte alle sue spalle. John prese ad imitarlo.
Continuarono così finché non riuscirono a scorgere una superficie di legno bianco. Il detective gettò di lato la pala e si chinò, per togliere il resto del terreno con le mani. Vide cos'era: non una cassa, non una scatola, ma una bara. Una bara bianca, con una scritta rossa che l'attraversava.
"Endgame?"
Nel leggerla, si accorse di un fatto agghiacciante, che gli fece gelare il sangue: non sentiva più nessun grido, nessuna supplica. Tutto era tornato spaventosamente silenzioso.
«No...»
Afferrò nuovamente la pala che aveva buttato via e ne infilò la punta nella fessura che divideva la parte superiore da quella inferiore della bara. Poi fece leva con le braccia, fino a sentire uno schiocco che fece volare in aria delle schegge di legno. Si inginocchiò di nuovo e, con l'aiuto di John, sollevò il pesante coperchio.
Jane si parò il viso con una mano, per proteggersi degli improvvisi raggi del sole. Strizzò gli occhi e, non appena mise a fuoco i lineamenti di Sherlock, li spalancò tutti in una volta.
«Sherlock!»
Scattò a sedere dritta e gli gettò le braccia al collo, ansimante e scossa dai singhiozzi.
«Jane...» mormorò lui, poggiandole istintivamente una mano sui capelli e una sulla schiena, incurante delle dita sporche e delle unghie spezzate. «È tutto finito, Jane. Adesso sei al sicuro» La strinse a sé, posando la propria guancia sulla sua testa. «Sono qui, ora...»
West Middlesex University Hospital, Londra, Inghilterra•20 Marzo 2012, ore 04:09
Strani, gli esseri umani: si presentano in un modo, dicono di essere una determinata persona e poi, con un solo gesto, cambiano faccia. Succede qualcosa che li trasforma in qualcuno di completamente diverso, facendo cadere a terra le maschere che celavano il loro vero volto, la loro vera espressione. Con soltanto un gesto, tutto cambia. Ogni tua convinzione viene annullata, messa in dubbio, e nuove, insidiose scelte ti si parano davanti: accettare o rifiutare? Credere o diffidare? Arrabbiarsi o perdonare?
La gente cambia faccia, ma non sempre risulta essere una cosa negativa: ci sono delle volte in cui le persone pretendono di essere peggiori di quello che sono in realtà.
Inizio a credere che questo sia il mio caso. Il caso di Sherlock. Un caso riguarda entrambi, che riguarda i nostri pensieri e le nostre idee.
Per sei lunghi mesi, sono stata abituata a vederlo comportarsi come la persona più altezzosa e presuntuosa del mondo. Ma in un solo giorno è riuscito a cambiare la mia visione sul suo conto. Nonostante il mio perenne fastidio per il suo atteggiamento da Dio supremo e le sue risposte da saputello, è riuscito a stupirmi ancora una volta. Ha lasciato cadere la sua maschera di acciaio, lucente ed impenetrabile, e mi ha permesso di vedere ciò che davvero è. Ciò che ha sempre celato, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da cancellare.
Ho le palpebre pesanti, che a fatica riesco a sollevare. Il petto mi fa malissimo, come mai prima. Ho paura. Temo che, aprendo gli occhi, possa ritrovarmi in un posto sconosciuto, fatto di luce candida e cori angelici. È la prima volta che mi capita di provare una sensazione come questa: terrore di essere morta, di riprendere conoscenza e scoprire che dovrò dire addio a tutto quello che faceva parte della mia esistenza. Ci penso e ripenso, optando, alla fine, per la spietata verità, che di certo preferisco alla beata ignoranza. Mi impongo di aprire gli occhi, di vedere quel che mi circonda e constatare se sia tutto effettivamente finito.
Ciò che per prima scorgo è la luce, calda e fievole, e ciò mi rassicura, garantendomi il fatto che sia ancora viva. Ma tutto il resto che vedo, quando abbasso lo sguardo... È a dir poco spaventoso: tubi e aghi che attraversano il mio corpo, sacche di liquidi e sangue attorno a me, gli elettrodi che tengono il mio cuore sotto controllo... E una maschera. Mi copre il naso e la bocca, pompando l'ossigeno che io, da sola, non riuscirei ad inspirare. Sono sdraiata, anche se lo schienale del letto è alzato, e sto tremando, sebbene non sappia di preciso perché. Lo shock, forse. Non ne sono sicura.
Mi costringo a tornare calma. Rilasso i polmoni doloranti e le spalle rigide, porto il mio respiro ad una condizione accettabile e solo allora mi metto a studiare anche il resto dell'ambiente.
La camera è cambiata, rispetto a quella che ricordavo: questa è più piccola e ha un solo letto, oltre ad una poltroncina dall'aria scomoda, una porta di legno sulla destra ma, in compenso, un'enorme finestra a sinistra che, da quello che riesco a scorgere, dà su un ampio giardino.
In piedi, davanti ad essa, c'è qualcuno. È girato di spalle, quindi non riesco a vederlo bene. Indossa una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, ha le braccia incrociate e lo sguardo rivolto al giardino avvolto dalle tenebre, mentre il suo busto si muove al ritmo lento dei suoi calmi respiri.
«Sherlock...»
Lui volta la testa verso di me, guardandomi per un po' prima di girare tutto il corpo.
«Sei sveglia» nota, avvicinandosi.
«Ottimo spirito d'osservazione, davvero» tento di sdrammatizzare, con la mia voce fioca, per poi porgergli un sorriso stanco che lui ricambia.
Si siede sulla poltroncina accanto al mio letto e su cui, noto solo ora, sono poggiati la giacca del suo completo, la sciarpa e il suo cappotto.
«Sei in terapia intensiva» mi dice dopo pochi attimi, senza troppi giri di parole. «Immagino che te lo stia chiedendo, no?»
Batto debolmente le palpebre, per poi abbassare gli occhi sulle mie mani percorse dalle flebo.
«Cosa è successo?»
«L'Oxazepam che hai preso ha avuto una reazione con la morfina che ti hanno somministrato qui per sedarti, e ciò ha determinato un'insufficienza respiratoria. Il poco afflusso di ossigeno ha provocato la rottura di un capillare nel polmone destro e...»
Si ferma un secondo, non appena nota la mia espressione. Adesso sì che sono spaventata.
«E la fuoriuscita di un quarto di litro di sangue» continua, rallentando il tono. Poi si schiarisce la voce e aspetta che sia io a continuare a parlare.
Il mio respiro è divenuto di nuovo veloce, così come i miei battiti. Forse, la mia paura di ritrovarmi morta non era poi così ingiustificata...
«È... Grave?»
«Hanno drenato la maggior parte del sangue, ma vogliono tenerti sotto controllo per un po' e fare... Altri test, credo»
Apro la bocca, per far entrare più ossigeno proveniente dalla mascherina, ma non ho molto successo.
«Dov'è Alan?»
«Oh, ehm... Amanda gli ha consigliato di prendersi una pausa e andare a casa tua. Era un po' restio, all'inizio, ma tua madre lo ha... Costretto, diciamo così» Aggrotta la fronte, inclinando di lato la testa. «È lei che comanda in casa, vero?»
Lo guardo fisso negli occhi per un bel po'. Probabilmente riesco a raggiungere persino i sessanta secondi, prima di scoppiare a ridere. Nonostante le flebo, la stanchezza e il dolore al petto, mi metto a ridere come una bambina che guarda un cartone animato comico alla televisione.
«Che c'è?»
«No, niente, è solo che...» tento di spiegare, cercando di trattenermi. «È solo che è ironico il fatto che mio fratello, sebbene sia grande, grosso e vaccinato, abbia ancora paura di mia madre» Mi porto una mano davanti alla bocca, coprendola con il dorso su cui è inserito un ago tenuto fermo da un cerotto. «Credevo che avesse superato questa fase»
«Nessuno supera realmente questa fase» replica Sherlock, fingendosi inizialmente serio, per poi mettersi a ridere assieme a me.
Ecco un altro motivo che mi ha spinto a credere che la sua sia solo un'enorme facciata ben strutturata: il fatto che si sia messo a ridere con me per una cosa stupida come il terrore di mio fratello per l'ira di mia mamma. O, semplicemente, il fatto che sia rimasto qui, con me.
«E perché tu non sei andato via?»
Il tono allegro che ho usato potrebbe far sembrare ironica questa domanda, quando è tutt'altro.
Calmiamo a poco a poco la nostra risata, abbassando il volume della nostra voce. Sherlock mi guarda, ma non smette di sorridere. È strano non vederlo imperturbabilmente impassibile.
«Pensavo che avessi bisogno di assistenza» risponde. «I tuoi sono andati via solo da qualche ora»
Gli sorrido, con fare quasi premuroso. «Sembri stanco»
«Sono solo le quattro del mattino»
Poggio la testa sui cuscini, senza distogliere lo sguardo dal suo volto, dal suo sorriso che, sento, tra poco svanirà.
«Dovresti tornare a casa» gli consiglio. «Hai fatto abbastanza»
«No» ribatte, tramutando quell'espressione divertita in un'altra piena di rammarico, per poi puntare gli occhi verso il basso. «Non è vero»
«Sì, invece»
«No»
«Sì»
«Avrei potuto evitarlo»
Punto i miei occhi smarriti sul suo profilo. Questa volta non gli rispondo, perché non so cosa voglia intendere, dicendo così.
«Tutto questo non sarebbe dovuto succedere» spiega. «La cassa, l'edema... Ero in grado di evitarlo»
«Non è colpa tua se la morfina mi ha causato l'insufficienza respiratoria» replico, stringendomi nelle spalle.
«Non avresti preso l'Oxazepam se non fossi stata rinchiusa in quella bara. Non ti saresti ritrovata qui, se solo io avessi capito prima. Perché l'indizio era chiarissimo. Fin troppo»
Torna a guardarmi, intransigente, severo. Ma con sé stesso. Solo con sé stesso.
«E cosa diceva l'indizio, per essere così chiaro?»
«Lo vuoi sapere davvero?» chiede, fissandomi intensamente. Non aspetta neanche la mia risposta. «"Ho scoperto il tuo punto debole, Sherlock... E poi ho scoperto il suo. È una catena, riuscirai a spezzarla?"»
Spalanco gli occhi, nel sentire quel che esce dalla sua bocca. Che mi sorprenda è dir poco: mi lascia senza parole, col fiato sospeso e un sacco di domande. Non capisco... Io continuo a non capire.
«Cosa vuol dire?»
Sembra la richiesta più stupida che possa mai fare ma, per ora, è tutto quello che voglio sapere. Perché se quel messaggio era davvero tanto palese, allora significa che, in quel suo cuore di ghiaccio, Sherlock è riuscito ad aprire un varco. Uno solo, piccolo e stretto, ma giusto per me.
«Significa che ha capito tutto. Ha capito il motivo per cui rimango qui, invece di tornare a casa e fare esperimenti col microonde, per cui non avrei mai lasciato che tu morissi, per cui inizio ad avere un sacco di dubbi su quello in cui ho sempre creduto»
Si ferma, e io comprendo subito ciò che sta provando. Perché anche io ho iniziato ad avere lo stesso tipo di dubbi, che non mi lascia in pace da più di un mese, da quando ho capito che mi sarebbe mancato tutto quello che abbiamo fatto insieme.
Quel tipo di dubbi che non mi fa dormire la notte e concentrare durante il giorno.
Quel tipo di dubbi che, quando comincia, non molla la presa nemmeno per un attimo.
«E sai perché ti considero il mio punto debole?»
Chiudo le labbra e, abbassando lo sguardo, scuoto velocemente il capo.
«Perché tu sei neutra»
Corrugo la fronte, prima di rialzare in fretta la testa e lanciargli un'occhiata confusa. «Come?»
Adesso è lui a distogliere gli occhi, puntandoli verso la finestra.
«Ho sempre avuto la certezza assoluta che l'unica scienza che non ammette eccezioni è quella della deduzione. Ma tu... Tu non hai un profumo da riconoscere in mezzo ad una folla, un particolare tipo di abbigliamento che mi parli del tuo carattere e detesti avere delle briciole sul maglione. Sei precisa, ordinata... E neutra. Ma nonostante questo, io riesco a leggerti comunque. Riesco a leggere perfettamente ogni parte del tuo essere. Riesco a capirti. Riesco a capire i tuoi pensieri e i tuoi ideali, anche se non sono uguali ai miei» Si ferma, torna ad osservarmi. «Ed è per questo che penso di aver trovato un'eccezione»
Rimango immobile a fissarlo per non so neanche quanto tempo, dritto in quelle iridi glaciali. A dire la verità, credo soltanto di essermi paralizzata.
Distolgo lo sguardo, portandolo alla porta. «Ho sempre creduto che essere un'eccezione non voglia dire essere unici, ma essere diversi» dico, abbassando la voce. «La normalità è sempre stata l'unica conquista a cui aspiravo, detestavo il mio essere fuori dal comune, il mio sapermi distinguere» Però, poi, sorrido. Perché mi rendo conto che le mie idee, per quanto giuste, erano sbagliate. Adesso non mi dispiace sentirmelo dire. «Però, sai...» Punto di nuovo i miei occhi verdi nei suoi, senza timore né imbarazzo. «Detto da te non suona poi tanto male»
È una delle certezze più assolute che possa avere, adesso. Perché così come io sono un'eccezione per il suo metodo di ragionamento, così lui è un'eccezione per il mio. Per me. Lui è la mia eccezione, che mai mi sarei sognata di trovare e accettare.
Sherlock rimane fermo un po', con fare pensieroso. Poi prende un respiro e allunga una mano verso di me. Posa le dita sopra la mia mascherina e la sposta lentamente verso il basso. La fa arrivare fino a sotto il mento, così da scoprirmi la bocca.
Respirare è leggermente più faticoso, adesso, ma non importa. Neanche a lui sembra importare. Perché sporge il busto verso di me, avvicina il suo viso al mio.
E poi un momento. Un altro, infinito momento, di quelli che riesco a vivere solo con lui. Un momento breve e meravigliosamente lungo insieme.
Le sue labbra sono appena poggiate sulle mie. Solo poggiate. Niente bacio appassionato da film americano. Siamo solo noi due. Noi due, alle quattro del mattino, con la luce accesa, la mascherina che continua a pompare ossigeno a vuoto, le macchine che segnano il mio batticuore come soltanto una linea sul monitor scuro. Ma non importa. È come se niente davvero importasse, in realtà. E se questo gesto avventato sembra illegale ai nostri principi, alle nostre leggi morali... Non ci rimane altro che fare di questo momento un crimine.
[Spazio Autrice]
Mi scuso per l'ora. E questo è quanto.
No, scherzo XD
Allora, ehm... Come cominciare questo discorso?
Partiamo dal fatto che io vi adoro tutti, e su questo non si discute. Perché solo delle persone speciali come voi avrebbero potuto farmi arrivare a più di 50.000 views e 3.000 voti. Io non so che dire, perché certe volte penso di non meritarli. Penso che esistano storie più belle, scritte meglio, con un messaggio più profondo. Io sono soltanto una sedicenne che scrive una storia su Sherlock Holmes, interpretato da Benedict Cumberbatch.
Ebbene sì, adesso ho sedici anni. Esattamente da ventitré ore. E volevo festeggiare insieme a voi con questo capitolo che, nonostante la lunghezza spropositata, mi è molto caro. Spero che non vi abbia deluso.
L'ultima frase è la traduzione di una canzone dei The Format, "Let's make this moment a crime". Se vi incuriosisce, in alto vi ho lasciato il video.
Detto questo, vi auguro la buonanotte.
Grazie a tutti per esistere, Sherlocked <3
˜ Maddy
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro