{45° Capitolo}
[Capitolo quarantacinque]
Jane
Gli occhi mi bruciano. È la prima sensazione che ho, non appena riemergo dal sonno. Ho le palpebre serrate, e le tengo così finché non troverò il coraggio di aprirle.
La seconda sensazione, che poi si muta in certezza, è che sono sdraiata. Saperlo mi fa spalancare gli occhi all'improvviso, spaventata, sollevare il busto, poggiando il mio peso sul gomito sinistro e la mano destra, e iniziare a respirare affannosamente. Comincio a cercare dell'aria, ma mi graffia la gola. Ho le labbra aride, la lingua secca. Respirare fa male.
All'inizio, quello che vedo è del tutto bianco e sfocato. Tengo gli occhi aperti fin quando la luce diventa insopportabile. Li chiudo, conto fino a dieci secondi. Tento di riaprirli, ma non ci riesco. Mi stropiccio il sinistro con il palmo della mano, sorreggendomi solo con la destra. Questa volta, mi costringo a sollevare le palpebre, con un sospiro, e adesso le immagini sono nitide e chiare, per quanto io rimanga confusa.
Mi lascio cadere, atterrando su dei cuscini, e calmo il mio respiro. Mi scruto intorno, studio l'ambiente facendo viaggiare lo sguardo da un angolo all'altro della camera in cui sono. Mi trovo in una triste ed asettica stanza d'ospedale. La flebile luce del tramonto entra da una piccola finestra, posta sul lato sinistro, e si riflette sulle pareti e i mobili bianchi, persino sulle lenzuola tra le quali sono avvolta. Ogni cosa è immersa nel silenzio, tranne che per un debole e regolare bip che scandisce i secondi.
Il petto mi fa male. Davvero tanto. E c'è qualcos'altro... Una terza sensazione. Qualcosa che mi ha portata qui, qualcosa di brutto. È un fatto reale, ma sfuggente. Cerco di afferrarlo, ma l'idea di riuscirci mi spaventa. Mi terrorizza.
Volto lentamente il capo verso destra, per avere una migliore visuale, per trovare qualcosa che mi dica di più, e faccio toccare la guancia con il cuscino. Aguzzo un poco la vista, per farmi mettere a fuoco la figura davanti a me, e ciò che vedo mi stupisce, fino a farmi quasi perdere un battito.
Sherlock è seduto su una poltroncina color crema, posta non molto lontano dal mio letto, le gambe accavallate, i gomiti appoggiati sui braccioli di plastica e le punte delle dita, distanziate tra loro, che si toccano, con cui si sfiora appena le labbra. Il suo volto è immobile, gli occhi persi nel vuoto, la bocca che si muove impercettibilmente, in un mormorio muto che solo la sua mente può sentire. I raggi del sole calante gli illuminano la pelle chiara di una metà del viso, mentre l'altra è oscurata dalle tende che non lasciando filtrare la luce in una parte della stanza.
E poi arriva. Un flash improvviso, un lampo di immagini. Mi travolge, come un'onda, e io affogo. In un secondo, ricordo tutto, ogni cosa. Il terrore torna ad essere reale, il buio e l'aria pesante riprendono ad asfissiarmi. Ogni aspetto del motivo per cui mi trovo qui diviene di nuovo reale, più che mai.
E capisco cos'era quella terza sensazione che mi sfuggiva: era la paura.
Londra, Inghilterra•19 Marzo 2012, ore 15:42
La prima cosa di cui Jane si accorse, non appena riprese i sensi, fu la difficoltà che aveva nel respirare. L'aria che faceva entrare nei suoi polmoni era pesante, la soffocava. La testa le faceva male. Così male che, nonostante fosse sdraiata, le veniva la nausea. Si portò una mano alla tempia, con lentezza, e premette forte due dita contro la pelle per scacciare il dolore che le faceva stringere i denti. Cercò, invano, di riaprire gli occhi, senza accorgersi di averli già spalancati, quasi da non riuscire nemmeno a battere le palpebre. Il nero attorno a lei era reale, asfissiante... E la intimoriva.
Iniziò a chiedersi dove diavolo si trovasse e perché vi si trovasse. Si sforzò di trovare una linea diretta, un ricordo che la collegasse a quel posto... Ma non ci riuscì.
Allargò le mani verso i suoi lati, per trovare un appiglio che l'aiutasse ad alzarsi, ma ciò che toccò fu un superficie morbida, come una stoffa pregiata. Inizialmente, pensò ad una tenda, o qualcosa di simile, ma quando si rese conto che c'era un'altra superficie, piatta e robusta, al di là di essa, un dubbio atroce si impossessò della parte razionale del suo cervello. Fece scivolare le mani fin sopra la sua testa, sperando con tutta sé stessa di trovare il vuoto. Almeno lì.
Invece...
«No...» mormorò, cominciando a battere con i palmi. «No, no, no!» Le sue mani si strinsero a pugno, con i quali continuò a colpire il legno sopra di lei, impiegando tutta la forza e la disperazione di cui disponeva. «No, vi prego!» gridò, con quanto fiato aveva in corpo. «Aiutatemi, vi prego!»
Tirò un calcio alle pareti, ottenendo come unico risultato una tremenda conferma. Il legno vibrò, e continuò anche quando Jane tentò inutilmente di fermarlo con le mani. Rimase immobile per un lasso di tempo che non seppe definire, paralizzata dal terrore. Poi, l'incubo cominciò. In modo spietato ed inevitabile, iniziò a mancarle il respiro, sempre più in fretta. Si tappò la bocca con entrambe le mani, poste una sopra l'altra, e spinse forte per tentare di reprimere la paura, di allontanare l'imminente attacco di panico. Cominciò a respirare affannosamente attraverso le fessure tra le dita, e allora capì. Non era il legno a tremare: era lei.
«Vi prego...» continuò, arrancando, mentre il vuoto allo stomaco le fece salire le lacrime agli occhi. «Vi scongiuro, aiutatemi...»
Doveva reagire, come aveva sempre fatto. Doveva trovare un modo per tirarsi fuori di lì, lo sapeva. Non faceva altro che ripeterselo, dicendosi di trovare in fretta una soluzione. Ma il suo cervello era neutralizzato dal terrore, dall'impossibilità di agire. E, per la prima volta in tutta la sua vita, temette di morire. Nella sua testa, iniziò a farsi spazio la consapevolezza che, probabilmente, non sarebbe più riuscita a vedere la luce, a respirare aria pulita, a camminare, a vivere la sua esistenza. E la cosa che più la terrorizzava, che più le impediva di agire, era che quell'idea, per quanto tragica, fosse plausibile.
In quel silenzio assordante, rotto solo dal suo respiro affannato e dai suoi singhiozzi, un nuovo, improvviso rumore la distrasse: una musichetta fastidiosa, come la suoneria di un telefono.
Abbassò lo sguardo verso i suoi piedi, notando la flebile luce di uno schermo. Afferrò il vecchio cellulare a tasti e accettò immediatamente la chiamata, senza ragionare. Chiunque ci fosse dall'altra parte, avrebbe potuto in qualche modo aiutarla.
Non riuscì a spiccicare parola, nel panico com'era, ma la voce che le rispose le diede stranamente la forza di farlo.
«Pronto?»
«Sherlock...» sussurrò, in tono sollevato.
«Jane?» disse lui, sorpreso. «Jane, che succede?»
«Sono chiusa in una cassa, Sherlock. Ti prego, aiutami»
Non si era mai sentita così debole di fronte a qualcuno, così vulnerabile. In quel momento, detestò le sue paure che la facevano essere irrazionale nelle situazioni meno opportune.
«Jane, calmati» continuò lui, con voce ferma. «Sai dirmi dove ti trovi?»
La ragazza girò la testa da destra a sinistra, disperata, come se si aspettasse di trovare altro, all'infuori dell'aria pesante e del buio. «Io... Io non...» balbettò, continuando a singhiozzare. «Non ricordo come... Come sono finita...»
Non riuscì a terminare la frase, poiché tornò a respirare convulsamente, senza che fosse in grado di controllarsi.
«Qual è l'ultima cosa che ricordi?»
«Io... Ero appena uscita dall'università, e poi...»
«Che ore erano?»
«Le dieci, più o meno»
Il suo cuore batteva così forte da rimbombarle nella testa, pulsando sangue senza sosta. Ma il suo respiro, adesso... Era tornato quasi regolare.
«Okay, adesso concentrati» le ordinò Sherlock. «Cosa vedi attorno a te?»
«Niente, niente!» rispose lei, isterica. «È tutto buio, non riesco a...»
«E il resto?» la interruppe di nuovo lui. «C'è un particolare odore, un suono che senti...»
Rimase ferma per qualche secondo, ma la paura le fece credere che fossero passate delle ore intere. Ore di spaventosa quiete, durante le quali tentava con ogni suo sforzo di tornare lucida, così da dare a Sherlock una risposta esaustiva.
«Io... Sono sdraiata su qualcosa di morbido. Dei cuscini, credo...» disse, alla fine. «E il legno attorno a me è coperto con della stoffa... Non sono sicura del tipo»
«Cos'altro?»
«C'è odore di chiuso...»
Si sentì inutile, perché si rendeva perfettamente conto di non star facendo abbastanza per aiutarlo a trovarla. Avrebbe voluto essere come lui, ora come non mai. Avrebbe voluto essere in grado di catturare ogni singolo particolare, senza farsene sfuggire nemmeno uno.
Altro silenzio seguì le sue parole, che la fece sentire sempre più male, sempre più superflua.
E poi...
«Aspetta...» mormorò, mettendo sull'attenti il suo udito. «C'è... C'è una campana!»
«Riesci a descriverne il suono?»
Rimase in ascolto per un attimo, contando i rintocchi che scandivano ritmicamente il tempo.
«Non è un suono grave, come quello di una cattedrale. È più acuto...»
«D'accordo» rispose Sherlock, come se avesse già capito dove si trovava. Forse, lo aveva capito davvero. «Ora devo attaccare, Jane»
Le salì all'improvviso un groppo alla gola, che le mozzò ancora di più il respiro. «No...» balbettò. «No, no, no...»
«Jane, devo...»
«Non lasciarmi qui, non...»
«Jane, devo andare» ribadì lui, interrompendola. «Devo cercarti»
«No, per favore, no...»
Cominciò di nuovo con quei respiri mozzati, pieni di panico. Si accorse solo allora di essere riuscita a calmare la sua voce e i suoi gemiti, mentre parlava con Sherlock. E ora che stava per andarsene, che stava per lasciarla da sola a combattere il terrore, non ci riusciva più. Ci provò e riprovò, perdendo il conto dei tentativi vani, ma il suo cuore andava sempre più veloce, fino a dolerle, e i suoi polmoni si affaticavano secondo dopo secondo, in cerca di aria inesistente.
Sherlock rimase in silenzio per un po'. Un momento o due di smarrimento, durante i quali rifletté sulla sua prossima mossa. Jane riusciva quasi a vederlo, con lo sguardo perso nel vuoto dell'aria, nel pieno dei suoi pensieri.
«Okay, Jane, stammi a sentire»
La ragazza ascoltava, ma non riusciva a dirglielo. Era così terrorizzata da non essere in grado di formulare una frase completa.
«Mi stai ascoltando?» le chiese lui, con tono duro, autoritario.
Jane si coprì di nuovo la bocca con una mano, ingoiò a forza il terrore e i singhiozzi, mentre continuava a tenere il cellulare incollato all'orecchio. «Sì...» si costrinse a farfugliare, a voce così bassa che dubitava che Sherlock l'avesse sentita.
«Bene. Dovrai concentrarti, non appena avrò attaccato» le disse lui. «L'ossigeno non durerà a lungo, se continui così. Quindi dovrai smettere di pensare alla paura e all'aria pesante. Dovrai chiudere gli occhi e immaginare un posto che conosci alla perfezione, che ti faccia sentire bene»
Lei capì subito cosa stava tentando di fare. L'aveva visto farlo decine di volte, alcune senza neanche rendersene conto.
«Tu sei in quel posto, non nella cassa. Sei in un luogo spazioso e pieno di luce, dove l'aria è pulita e non hai difficoltà nel respirare. Con te c'è qualcuno che riesce a calmarti, con cui ti senti al sicuro. Sei in quel posto, Jane, capisci? In quel posto, non nella cassa. Lì, non qui»
Glielo ripeté altre tre volte, o forse erano di più? Non ne era certa. Doveva aver perso il conto.
«Non lasciarmi sola, Sherlock...»
«Devo trovarti» le ridisse. «Ti prometto che farò presto»
Chiuse in fretta la chiamata, probabilmente per evitare che Jane lo trattenesse ancora. Lei abbassò il telefono, lanciandolo di nuovo ai suoi piedi. Poi chiuse gli occhi, serrò le palpebre, anche se non faceva molta differenza.
Si sforzò di focalizzare un luogo, un posto che divenisse reale. Alla fine, immaginò di essere a Nottingham, distesa sul suo letto, avvolta tra le lenzuola che odoravano di bucato. La luce filtrava attraverso le tende e l'aria sapeva di biscotti alla cannella appena sfornati. Si immerse completamente in quell'atmosfera di pace, e quasi si convinse di essere tornata davvero a casa sua, nella sua stanza.
«Va tutto bene, Jane» le sussurrò una voce alle sue spalle. «Sta' tranquilla»
Lei volse pian piano la testa e incontrò i suoi occhi di ghiaccio, il suo sorriso rassicurante. Stava sorridendo a lei, e a lei sola.
«Sherlock...»
«Va tutto bene» ripeté lui, facendo passare un braccio sotto al suo fianco. La strinse a sé e, questa volta, le narici di Jane si riempirono dell'odore del suo dopobarba. Quello che le piaceva tanto.
Sapeva che tutto quello stava accadendo solo nella sua mente, nel suo misero palazzo mentale delle dimensioni di una minuscola cameretta. Ma la fece sentire meglio, riuscì a calmare i battiti del suo cuore e le lacrime che le solcavano le tempie, fino ad arrivare alle orecchie, mandandole in fiamme. Si lasciò cullare dal respiro calmo di Sherlock, dalla sua voce tranquilla. Si lasciò rassicurare dalla sua allucinazione.
«Non ti lascerò morire»
West Middlesex University Hospital, Londra, Inghilterra•19 Marzo 2012, ore 18:02
Rimango immobile ad osservarlo per qualche momento, senza riuscire a spiccicare parola. Senza riuscire a chiamarlo, chiedergli informazioni, domandargli se sono effettivamente viva e vegeta o se questa è solo un'altra allucinazione. Non lo faccio, principalmente perché non ne ho la forza.
«Non pensavo che ti saresti svegliata così presto»
Sobbalzo e giro di scatto la testa, portandola dritta. Prendo grandi respiri silenziosi, ora che di ossigeno ce n'è a sufficienza, e tento di calmare il batticuore, che ha iniziato senza preavviso, come se fossi appena stata beccata mentre commettevo il peggiore dei reati.
«Anche se mi stupisce il fatto che tu possa dormire tanto»
Con la coda dell'occhio, noto Sherlock muoversi sulla poltrona, mettendosi a sedere sul bordo di essa.
«Da quanto sono qui?»
Io stessa mi stupisco del suono che ha la mia voce, non appena esce dalla mia gola. Non avrei mai creduto che fosse mia, se non l'avessi sentita con le mie stesse orecchie. Adesso è roca, strozzata, stanca...
«Ehm...» fa lui, pensieroso. «Non ne sono sicuro. Ho perso la cognizione del tempo»
«Sai che novità» lo prendo in giro, con un sorriso debole. Mi schiarisco per bene la voce e mi volto verso di lui, ora che sono certa di poter sostenere il suo sguardo. «Cosa ci fai qui?»
Lui mi fissa per un attimo, prima di rispondere. «John sta parlando con i medici che dovrebbero finire i controlli per valutare le tue condizioni, dato che questo non è il mio campo, mentre Amanda è andata a prendere tua madre e tuo fratello a King's Cross. Dovrebbero essere qui tra poco»
Annuisco, facendo un rapido calcolo a mente. «Quindi, devo essere qui da un paio d'ore, no?»
Batte le palpebre in fretta, poi alza un angolo della bocca, in un sorrisetto compiaciuto. «Vedo che, nonostante il poco afflusso di ossigeno al cervello, non hai perso la tua perspicacia»
Sorrido stancamente e rimetto la testa dritta, per guardare il soffitto.
«Come...» Si ferma, chiude le labbra, deglutisce, le riapre con uno schiocco, cerca le parole che di solito si dicono in queste circostanze. «Come ti senti?»
Aggrotto la fronte e giro di nuovo la testa. «Cosa?»
«Beh, sei appena stata tirata fuori da una cassa... Dovresti sentirti in un modo particolare»
Alzo le sopracciglia, stupita, confusa, spiazzata.
Perché mi sta ponendo questa domanda? A lui non dovrebbe importare. A lui non importa mai di come si sentono le persone. Lui le salva, ma poi tutto termina lì. Non accetta ringraziamenti, detesta i sentimentalismi. Non si interessa del lato umano, delle paure e della salute di chi ha salvato. O di nessun'altro in genere. E allora perché mi sta ponendo questa domanda?
«Io...» balbetto, senza che riesca ancora a trovare qualcosa di sensato con cui rispondergli, con cui dirgli quello che vuole sapere. Perché lo vuole sapere, giusto?
«Non è così che... Le persone si comportano, di solito?»
Schiudo la bocca e mi affretto a rispondere. «Sì, ovviamente, è solo che...» Mi fermo un attimo, abbassando lo sguardo verso la mia mano, poggiata accanto alla gamba. «È solo che è strano sentirselo chiedere da te»
Rialzo gli occhi e trovo i suoi, che mi guardano con smarrimento. Non l'ho mai visto così... Insicuro.
«Comunque...» dico, alla fine, sbuffando una risata. «Se proprio ci tieni a saperlo, mi sento come una che è stata appena tirata fuori da una cassa»
Si acciglia per un attimo, prima di assumere un'espressione concordante. «Ottima sintesi»
«Grazie» ridacchio, con fare altezzoso. Poi, lentamente, torno seria, facendo scomparire il mio sorrisetto. Abbasso gli occhi un'altra volta, prendo un respiro, mi inumidisco le labbra e mi schiarisco di nuovo la voce. «Grazie, davvero...»
«Lo hai già detto»
«No, intendevo... Grazie, per avermi tirato fuori di lì»
«Non potevo lasciarti morire, mi pare ovvio» sbuffa, freddamente. «Ho fatto solo il mio lavoro»
«Non ti capita spesso di venire ringraziato, eh?»
Alzo lentamente gli occhi, mentre Sherlock punta i suoi gelidi su di me. All'inizio, sembra non avere intenzione di replicare, sembra che voglia lasciare perdere la mia ennesima frecciatina. Alla fine, però, accenna ad un sorriso invisibile, apparentemente divertito.
«Non così spesso»
Annuisco, radiosa. Inizio a mordermi un labbro, e l'ansia sale. «Cosa è successo, Sherlock?»
Lui aggrotta la fronte. «Beh, dovresti saperlo» risponde, guardandomi confuso. «Sei uscita dall'università e...»
«No, no» lo interrompo, agitando appena la mano. «Non volevo dire quello»
Conosco già quella parte. L'odore di chiuso, la paura, il male alla testa... Non voglio riviverla. Non voglio che torni di nuovo ad essere reale.
«Intendo... Cosa è successo dopo che hai attaccato?»
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