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{43° Capitolo}

[Capitolo quarantatré]

Camden Town, Londra, Inghilterra·20 Febbraio 2012

Il colorato mercato di Camden Town è una delle mete più frequentate da ogni visitatore che si reca in viaggio a Londra, rendendolo da sempre uno dei luoghi più affollati della capitale. Anche in quella fredda metà mattina di Febbraio, infatti, il mercato era gremito di persone, tra turisti e semplici cittadini, che si accalcavano attorno alle bancarelle per osservare, esaminare e valutare la numerosa merce esposta, rendendo la via piena di voci e sfumature.

Lui aveva sempre odiato i luoghi affollati: li trovava troppo rumorosi, troppo stretti. Così tanta gente in un unico luogo, che intasava la strada e non consentiva il passaggio a nessuno. Le spallate che davano mentre camminavano. I colpi che assestavano senza neanche accorgersene.

Affacciato alla finestra col vetro rotto della decadente casa in Camden High Street, guardava ogni stupido ed ordinario essere umano che passava davanti ai suoi occhi senza rendersi conto di nulla. Riusciva a vederli tutti, uno ad uno, a leggere la loro banale vita con una sola occhiata. Li osservava camminare a testa alta, con l'aria tranquilla, come se si sentissero padroni incondizionati del proprio mondo. E più li guardava, più capiva che loro, in realtà, non erano padroni di nulla. Lui stesso avrebbe potuto mettere fine alla loro noiosa esistenza con i metodi più fantasiosi e diversi: avvelenamento da arsenico mescolato nell'acqua che quell'adolescente con i tatuaggi su ogni lembo di pelle stava distrattamente bevendo, falsa rapina conclusasi in tragedia ai danni di quel benzinaio dall'aria tranquilla, accidentale caduta dal quinto piano di quella donna che abitava in un condominio nella periferia... Ogni volta che passava ad osservarne un altro, trovava, in base alle abitudini e ai difetti di ciascuno, un modo nuovo per farlo fuori, ognuno contraddistinto da una pacata malvagità.

Poi sospirò, costringendosi a distogliere lo sguardo dalla finestra per tornare a concentrarsi sul lavoro: avrebbe sicuramente trovato qualche altro modo per distrarsi, una volta tornato alla sua beneamata tranquillità. Volse gli occhi verso l'uomo che, inginocchiato in un angolo della vecchia stanza che crollava a pezzi, con il labbro spaccato e i numerosi ematomi sul viso, lo pregava a mani giunte, portate poco sopra la testa abbassata.

«La prego...» litaniava, singhiozzando. «La prego, non lo faccia! Io... Io ho un figlio da crescere! Ha già perso sua madre, non può rimanere da solo...»

Di nuovo con quella storia? Tutte le volte che doveva uccidere qualcuno, si ritrovava ad ascoltare la stessa, noiosa cantilena: "Io ho una famiglia, come faranno senza di me?"

Credevano davvero che, così facendo, lo avrebbero dissuaso? La gente era veramente tanto stupida?

Mentre la vittima lo scongiurava di avere pietà, lui ghignò. Uno dei suoi ghigni più sadici e malefici.

«Non posso farci niente» rispose, con una semplicità disumana. «Non sono problemi miei, lo sa bene»

Non lo erano mai stati, infatti. Era forse colpa sua, se quell'uomo aveva deciso di metter su famiglia? Era forse colpa sua, se sua moglie aveva commesso un reato e si trovava in carcere? Era forse colpa sua, se quel ragazzino si sarebbe trovato da solo perché il padre gli serviva per il suo piano? No di certo. Lui trovava solo i mezzi per ottenere ciò che voleva, ma i problemi dei suoi mezzi non erano problemi suoi.

«Io... Io potrei pagarla, se è questo che vuole» continuò quello, sperando di fargli cambiare idea. «Farò tutto quello che vuole, ma la prego, non lo faccia!»

Strinse forte le palpebre e sospirò ancora, questa volta con fare seccato. «I suoi soldi non mi servono» disse, lasciando intendere dal tono di voce quanto stupida fosse stata quella proposta. «Non più, almeno»

«Cosa vuole, allora?» sbottò a quel punto la vittima. «Perché lo sta facendo?»

«Perché è necessario, ovviamente»

«Necessario per cosa?»

«Non credo che questo la riguardi»

«Ma io ho diritto ad una spiegazione!» tentò di nuovo l'uomo inginocchiato.

Tuttavia, lui sorrise ancora, come per fargli capire che la conversazione terminava lì, che non avrebbe dato ascolto a nessun'altra lamentela, che quello era il suo punto fermo. E il punto fermo di Jim Moriarty non si tramutava mai in una virgola. Mai.

«Come farò con mio figlio?» singhiozzò un'altra volta l'uomo. «Come farà...»

«Sono sicuro che sopravvivrà lo stesso» lo interruppe Moriarty.

«No...»

Si volse verso il suo fidato cecchino, che per tutto quel tempo era rimasto in silenzio in un angolo della stanza. «Uccidilo. Poco sangue e niente rumore»

«Sì, capo» disse l'altro, chinandosi su una valigetta aperta sulle assi lacere del pavimento, per prendere un silenziatore da montare sulla pistola che aveva in mano.

«No, la prego, no...» ripeteva la vittima, piangendo.

«Direi che la nostra collaborazione finisce qui» lo ignorò lui, avvicinandosi alla porta con la vernice scrostata.

«La prego... La prego, mi risparmi!»

Prima di uscire nel corridoio, si girò un attimo. Osservò per un secondo l'uomo che, implorante, era pronto a tutto pur di aver salva la vita. Ma non sorrideva. Non più. I suoi occhi freddi e psicopatici erano molto più minacciosi di ogni suo ghigno.

Si voltò nuovamente. «Mi dispiace, ma...» cominciò, aprendo la porta. «Io non risparmio mai nessuno»

Andò fuori dalla stanza e scese con calma le scale, uscì dal retro della casa e salì sulla sua auto privata, che partì alla volta del suo lussuoso appartamento e della sua annoiata tranquillità.

Intanto, il cecchino caricò con un gesto fulmineo la pistola e la puntò alla testa dell'uomo che, ancora gemente, poteva solo attendere un miracolo.

«Niente di personale, amico»

Sparò un colpo. Uno solo, perfetto. Il proiettile si conficcò esattamente in mezzo agli occhi della vittima, che si accasciò a terra, cadendo all'indietro. Un sottile rivolo di sangue gli fuoriuscì dalla fronte, correndogli lungo il volto segnato dalla paura e dalla rassegnazione.

Jane

Hampstead, Londra, Inghilterra•18 Febbraio 2012

Muovo un passo verso l'entrata della villa, e poi un altro e un altro ancora, fino a coprire tutta la distanza che mi separa da essa. Salgo i gradini che portano alla veranda e sguscio all'interno dell'abitazione, cercando di sembrare disinvolta il più possibile, dato che devo farmi passare per una dei numerosi invitati.

Non appena mi ritrovo nel suntuoso atrio, richiamo alla mente ogni mio ricordo che concerne l'ubicazione delle varie camere e, soprattutto, dello studio di Carol Lovest: se la memoria non mi inganna, dovrebbe trovarsi al primo piano.

Inizio a salire le scale, tentando per quanto possibile di non far scricchiolare le assi dei gradini e attirare l'attenzione di qualcuno. Trattengo il respiro senza rendermene conto, il mio battito cardiaco è accelerato e l'adrenalina mi scorre fulminea nelle vene, scacciando la paura che tenta invano di fermarmi.

Quando arrivo nel corridoio del primo piano, mi guardo furtivamente intorno, le orecchie tese ad ogni minimo rumore.

«Posso sapere chi le ha dato il permesso di entrare?»

«Nessuno»

«Mi sta dicendo che si è introdotto in casa mia senza alcuna autorizzazione?»

«Le crea qualche problema?»

Mi avvicino con passo felpato alla stanza dalla quale provengono le voci di Sherlock e del signor Hawes, nella parte sinistra del corridoio. Mi fermo in prossimità della porta e attacco la schiena al tratto di muro accanto ad essa, i muscoli tirati e il respiro trattenuto, come per tentare di diventare un tutt'uno con la vernice giallina e non farmi assolutamente notare.

«Signor Holmes, sarei piuttosto impegnato...»

«Con la commemorazione?» lo interrompe Sherlock, la cui voce, adesso, riesco a sentire bene. «Sì, ho notato. Ma allora perché non è ad intrattenere i suoi ospiti, in questo momento?»

Hawes sospira, probabilmente per darsi un tono, calmare i nervi e trovare il tempo per le parole giuste. «Signor Holmes...» comincia, con tono trattenuto. «Questo è un evento privato, e mi dispiace dirle che lei non figura tra gli invitati. La prego di andarsene»

«Non ne ho alcuna intenzione» replica Sherlock, tranquillamente.

«Si è introdotto in casa mia senza permesso. Potrei farla arrestare per violazione di domicilio»

«Non credo che sia possibile»

«Perché no?»

«Perché sono io che la farò arrestare per l'omicidio doloso e volontario di Carol Lovest»

Il silenzio dilaga. Un silenzio pieno di paura e trionfo, un silenzio che preannuncia l'arrivo di una disperata difesa.

«Ma cosa va mai blaterando?»

Il tono di Hawes è diventato improvvisamente più incrinato, più spaventato, più traditore. Anche Sherlock se ne accorge.

«La smetta di negare, tanto è inutile. So bene che è stato lei»

«Lei è pazzo!»

«Ma questo non vuol dire che io abbia torto»

Si fermano un attimo, di nuovo. Poi Hawes fa una specie di risatina beffarda, quasi isterica.

«E cosa la rende tanto sicuro?»

«Prima di tutto, lei si trova qui» spiega il detective, con semplicità, cominciando a camminare lentamente per la stanza. «Per prendere la boccetta di profumo per ambienti»

«La... Cosa?»

«Quella che ha in mano, signor Hawes» gli fa notare Sherlock. «La stessa che ha appena preso da dietro la biografia di William Ewart Gladstone» Fa un'ulteriore pausa, solo per fare un collegamento ad effetto. «Banale, devo ammetterlo, ma non trovarla è stata una svista di cui mi pento. Il resto del piano, invece, non era affatto banale. Erano mesi che non mi capitava un caso così intrigante. Penso che la sua idea di mescolare cloroformio e Valium al profumo per ambienti sia stata davvero geniale»

«Non ho la benché minima idea di cosa lei stia parlando»

«Andiamo, sta davvero rinnegando il suo genio?» ribatte Sherlock, ridendo sarcastico. «Rinunciare al merito che la sua mente le porterebbe?»

So cosa sta facendo: fa pressione sul suo egocentrismo, sul desiderio che ha che tutti acclamino la sua meticolosità, la sua intelligenza...

Ma con Hawes sembra non funzionare.

«Sta vaneggiando, signor Holmes»

«Oh, non credo proprio di star dicendo cose senza senso, signor Hawes» sibila lui, fermamente. «Crede di essere assolutamente inattaccabile solo perche ha un alibi saldo. Ma c'è stata una pecca nel suo piano»

«E quale?»

«Questo significa che effettivamente lei aveva un piano»

Rimango immobile a fissare il vuoto per qualche secondo, proprio come credo che stia facendo Hawes. Poi sorrido, soddisfatta: Sherlock è riuscito a trovare un altro modo per incastrarlo. Un modo geniale quanto il primo.

'Touché'

«Capisco dal suo sguardo sbigottito che non se l'aspettava, eh?»

Adesso comincia la vera lotta, il lento declino che porterà ad una perdita di fiducia e ad una confessione. Sherlock inizia a parlare a ruota libera, in un discorso fluido e senza interruzioni di alcun genere, come se sapesse alla perfezione che nessuno lo bloccherà mai mentre mostra le sue argomentazioni, come se il fatto di aver battuto Barnaby Hawes gli permetta di discorrere senza fermarsi.

«Come ho già detto prima, il suo piano è stato minuziosamente studiato e messo in piedi. Non ho potuto non accorgermi della firma nascosta di Jim Moriarty, non solo perché sin dal principio ero sicuro che fosse coinvolto, ma anche perché ha sfruttato la sua rabbia omicida nel migliore dei modi.
«Quando vidi per la prima volta il cadavere di sua moglie, capii subito dalla modalità con cui era stata uccisa che mi trovavo di fronte ad un brillante omicida, che odiava la vittima nel profondo. Il più piccolo particolare mi diceva che l'assassino ce l'aveva tremendamente con Carol Lovest, così tanto da far sfociare la sua rabbia e il suo rancore in un delitto ben studiato. Persino i tagli inferti, trenta in tutto, avevano un ironico significato: gli anni che aveva quando si è sposato, quando ha deciso di dire addio a tutto per una donna che diceva di amarla.
«All'inizio era andato tutto bene: la casa grande, i viaggi magnifici, la felicità di una coppietta di innamorati...» elenca, con tono leggermente disgustato. «Poi sua moglie ha cominciato la sua carriera in politica, e da lì le cose non hanno fatto che peggiorare. Prima c'è stato un congelamento graduale del vostro rapporto, dopo iniziarono i litigi, i rimpianti, accuse rivolte dall'uno contro l'altra e viceversa, fino ad arrivare alla separazione e, infine, alla richiesta di divorzio. Un duro colpo, non è vero? Difficile da mandare giù, non c'è dubbio, soprattutto a causa delle conseguenze che quel divorzio avrebbe portato. In particolare, sua moglie avrebbe smesso di finanziare i progetti che lei conduceva nel suo laboratorio autonomo. Poiché la maggior parte dei soldi veniva proprio da Carol Lovest, perderli avrebbe comportato un crollo inevitabile nelle finanze del laboratorio: non sarebbe più stato in grado di pagare gli altri ricercatori, la struttura, i materiali... Il suo sogno si sarebbe sgretolato in un secondo. Ha provato più e più volte a far cambiare idea a sua moglie, a convincerla a tornare insieme, facendole promesse che probabilmente non avrebbe nemmeno mantenuto. Ma dopo l'ennesimo rifiuto, ha iniziato a trattarsi di una questione vendicativa: se davvero doveva rinunciare ai suoi progetti, allora anche Carol avrebbe perso i suoi»

Si ferma, come per far gravare di più il peso del silenzio che segue le sue parole. Poi riprende, persino più veloce di prima.

«Il resto è facile da spiegare: non appena ha saputo che sua moglie avrebbe fatto un viaggio in Giappone, si è rivolto a Jim Moriarty, che le ha dato qualche utile consiglio su come agire, per esempio quello di utilizzare come arma del delitto il coltello che possedeva da molti anni» continua, marcando in modo ironico la parola "utile". «E poi ha iniziato a studiare un piano, strutturandolo nei minimi dettagli. Ha nascosto in questo studio, dietro un libro che la coprisse bene, una boccetta di profumo per ambienti, dove erano mescolati cloroformio e Valium in gocce, probabilmente agendo di notte: d'altronde, conosceva la casa e aveva ancora le chiavi, quindi non deve essere stato difficile accedervi. Sapeva, inoltre, che nessuno sarebbe entrato in quella stanza, e che quindi non c'era alcun rischio che dell'aria pulita proveniente dall'esterno contaminasse quella satura di anestetici. Ha poi atteso che Moriarty l'avvertisse del rientro di sua moglie e in quel giorno si è recato nuovamente alla villa, e, poiché era sabato e gli inservienti avevano di solito il weekend libero, era sicuro di trovarla deserta. Ha trovato Carol Lovest stesa a terra, già sotto effetto dei sedativi, che devono aver avuto un effetto piuttosto immediato perché sua moglie assumeva spesso dei tranquillanti che hanno accelerato il loro tempo di reazione. Le ha cambiato i vestiti con alcuni trovati in casa e tolto gioielli e fede nuziale, poi l'ha trasportata in macchina fino al capanno nell'East End, dove le ha inflitto le trenta coltellate. E mentre sua moglie moriva, lei si creava un alibi andando ad una serata con i suoi colleghi»

«E come avrei fatto?» chiede Hawes, in un ultimo tentativo disperato di salvezza. O per vedere se Sherlock sia riuscito a capire anche questo. «Non avrei avuto il tempo per togliermi i vestiti sporchi di sangue e mettermene altri puliti, non crede?»

«Infatti, non si è cambiato» ribatte Sherlock, sicuro di sé. «Ha utilizzato una delle tute antiradiazioni che aveva nel laboratorio. Non a caso, quando sono tornato per ulteriori ricerche, le ho ispezionate e ho trovato delle tracce ematiche su una di esse, all'altezza del polso destro» Si ferma un'altra volta, emettendo un leggero sbuffo divertito. «Non è stata un'idea molto intelligente, questa: avrebbe potuto utilizzare una tuta per pittori»

Roteo gli occhi, con fare stanco: Dio, nonostante stia snocciolando il piano diabolico di un assassino, trova lo stesso il coraggio di commentare.

«Qualche giorno dopo l'omicidio,» riprende poi. «dato che ancora non si era certi dell'identità del cadavere, ha fatto recapitare un finto biglietto a May Jones, dove Carol Lovest le diceva di iniziare a pulire il suo studio, così che l'aria cambiasse e nessuno si accorgesse che l'odore era troppo forte per del profumo soltanto. E dopo è partito per Birmingham, fingendo un impegno lavorativo, per poi tornare a Londra e recitare alla perfezione la parte del marito afflitto. Si è comportato in modo impeccabile, fino ad oggi. Oggi ha scelto di celebrare una commemorazione per sua moglie, ma, non appena l'ho saputo, me ne sono domandato il motivo: tutte le persone che ho interrogato, infatti, l'avevano descritta come una persona che riusciva talvolta a portare sull'orlo dell'esaurimento. Lei stesso ne aveva dato conferma, quindi perché fare una commemorazione con anche tutti i colleghi di sua moglie? Chiaramente, non per tenere vivo il suo ricordo, ma per poter prendere quella boccetta di profumo che adesso stringe in mano. Ha invitato numerose persone per non rendere la sua assenza troppo evidente, e ha scelto di non agire al funerale, un mese fa, a causa della presenza dei poliziotti alla cerimonia. E poiché ormai la casa è costantemente sorvegliata dagli inservienti, una commemorazione le è sembrato il modo perfetto di disfarsi della prova definitiva, passando tranquillamente inosservato»

Per qualche secondo, l'unica cosa che riesco a sentire è il mio battito accelerato e il respiro pesante di Hawes, che non accenna minimamente ad aprir bocca e ribattere. Sarebbe inutile: lo abbiamo scoperto, abbiamo capito il suo piano, glielo abbiamo sbattuto in faccia senza pietà. Deve confessare, non ha scelta, e poi questa storia sarà definitivamente chiusa.

Ad interrompere il silenzio sono i passi di Sherlock che si dirigono verso la porta, verso di me.

«Devo dire che incastrarla non è stato troppo difficile: credevo che avrei dovuto impiegare più energie. Potrà rilasciare una confessione all'ispettore Lestrade, non appena...»

Spalanco gli occhi per lo spavento, non appena sento un urlo furente che lo interrompe, seguito subito da un colpo sordo. Sento Sherlock rantolare per il dolore e dei vetri infrangersi sul pavimento, il loro strisciare contro le mattonelle mentre vengono raccolti velocemente.

Non appena la figura di Barnaby Hawes, con le mani unite a coppa per tenere i cocci della bottiglietta di profumo, supera la soglia, io, con i pugni serrati e in posizione da combattimento, ruoto sul piede destro, alzando la gamba sinistra per colpirlo prima allo stomaco e subito dopo alla tempia. Perde l'equilibrio, facendo cadere a terra i frammenti di vetro, e si piega leggermente di lato per il colpo. Poggio in fretta il piede sinistro sul parquet del corridoio e lo uso come appoggio per piroettare su me stessa, con la gamba destra sollevata, e colpire di nuovo il viso di Hawes con il tallone. Questa volta, lui cade a terra, con la bocca un poco sanguinante, probabilmente perché, nell'impatto, si è morso la lingua.

Riatterro con entrambi i piedi e lo guardo mentre è steso a terra, i cocci colorati della bottiglietta di profumo sparsi attorno a lui, e non posso davvero credere di averlo fatto, di averlo... Picchiato. È stato sul serio troppo facile, colpire un uomo inerme.

«Ti avevo detto di chiamare Lestrade»

Rivolgo la mia attenzione verso Sherlock, adesso affacciato sul corridoio, e gli lancio una di quelle occhiate infuocate che solo con lui riesco a fare. «Io non conosco il numero di Lestrade, cretino»

Sostiene il mio sguardo per un secondo, prima di chinarsi su Hawes per ammanettargli le mani dietro la schiena. A vederlo sdraiato e privo di sensi, mi sento quasi in colpa. Forse non avrei dovuto andarci giù così pesantemente...

«È stata legittima difesa» riprende il detective, sollevandosi. «Dillo, se dovessero farti delle domande»

Annuisco, impercettibilmente: sono mesi che lo frequento e ancora devo capire come faccia a leggere i miei pensieri in maniera così naturale.

«Ti ha colpito?»

«Alla mandibola» risponde, toccandosi il mento con una mano, per poi tornare con gli occhi su di me. Per vedere la mia reazione, se darò segni di dispiacere anche qui.

«Beh, te lo sei meritato» replico, acidamente, incrociando le braccia al petto. «Io avrei fatto di peggio»

«Non ho dubbi»

Ecco che lo fa di nuovo: essere sicuro di ogni mia azione o intuizione futura, di ogni mia scelta o risposta. Eccolo che ricomincia con la sua incrollabile sicurezza, la certezza che ha di essere sempre dalla parte della ragione, che qualunque cosa faccia, tutti lo sosterranno.

Ma, forse, sta dando qualcosa per scontato.

«Io torno a casa» annuncio, girandomi per andare verso le scale.

«Non vuoi assistere all'arresto?»

«Perché dovrei essere presente?» Mi volto di nuovo, ritrovandomi a circa un paio di metri di distanza da lui. «Sai benissimo che non ti servo»

Lui non replica. Non questa volta. Rimane immobile, le braccia lungo i fianchi, i piedi piantati a terra, e quello sguardo. Quel maledetto sguardo impassibile e scrutatore, che mi dice quanto per lui sia semplice capire i motivi di ciò che faccio. Ma non questa volta. Questa volta è diverso. Come i suoi occhi. Vedo, nascosta dalla sua insormontabile fiducia in sé stesso, della confusione, in quelle iridi gelide.

«Ascolta...» comincio, perché credo che sia arrivato il momento di dirgli come penso che stiano le cose tra noi, di ammetterlo. «Io non... Non ci riesco, okay? Non riesco a fare finta che non sia successo niente e a tornare come prima. Per quanto mi sforzi, non riesco più a fidarmi ciecamente di te, non ce la faccio» Prendo un respiro, perché sto per fare qualcosa di cui non mi sarei mai creduta capace. Non io. «Quindi direi di finirla qui. Io continuerò con la mia vita e tu con la tua, e comportiamoci come due vicini di casa che si conoscono appena. Va bene?»

Non è un accordo, quello che gli sto proponendo, né un compromesso o una richiesta di pace. È una condizione, la mia condizione, con la quale spero di raggiungere la normalità che ho sempre voluto.

Lui sembra capirlo. «D'accordo» mi risponde, freddamente.

Annuisco di nuovo. «Salutami John»

E poi non gli dico altro. Mi dirigo velocemente verso le scale e inizio a scendere, quasi saltando i gradini. Mentre torno alla mia macchina, ho la testa alta, lo sguardo neutro, il passo rapido. E dentro di me, una parte della mia mente mi dice che ho fatto bene, che la mia scelta è stata la migliore che potessi fare, quella più logica e fedele ai miei principi. Ma l'altra parte, quella più piccola... Quella mi sta dicendo che sono un'idiota, che sto facendo un grosso errore, che non potrò fingere per sempre di essere la persona più felice del mondo, vivendo nella normalità che desidero, perché tutto quello che ho vissuto mi mancherà. Eccome se mi mancherà. Quella parte di me mi fa quasi sperare che Sherlock cambi idea, che corra per il giardino per fermarmi e dirmi che no, non è assolutamente d'accordo, che non ha alcuna intenzione di far finire tutto in questo modo così ridicolo.

Però so bene che non lo farà mai. Eppure ci spero. Spero che lasci da parte il suo orgoglio, per una volta, e che mi dica che gli dispiace. Ma è proprio questo il problema: lui non si dispiace mai per niente, e questo rende vane tutte le mie speranze. Speranze che vorrei abbandonare in un vicolo buio e non rivedere più, se non fosse per quella parte di me che continua a ripetermi che sto sbagliando. Quella parte così piccola, eppure potente, che non fa altro che piantare atroci dubbi nella mia anima insicura.

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