Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

{41° Capitolo}

Oggi sono due anni. Ancora non ci credo...

[Capitolo quarantuno]

Jane

Il laboratorio autonomo di cui Barnaby Hawes è capo chimico si trova nei pressi di Richmond, nella parte sudoccidentale della città: un anonimo fabbricato di mattoni grigi ad un piano solo che si erge in mezzo ad un complesso di edifici in stile vittoriano. La porta principale è aperta a chiunque, ma per accedere ai vari laboratori, che si estendono per tutto il piano terra, serve una tessera di riconoscimento, assegnata ad ogni responsabile di progetto o ricercatore. Per fortuna, questa volta non è stato necessario che Sherlock ne rubasse una, dato che Ines Coleman, una collega di Hawes, ha gentilmente accettato di scortarci da lui.

Il laboratorio non è molto grande: ha le stesse dimensioni di quello del mio liceo, solo con meno banchi e sedie per gli studenti. Il pavimento e le pareti sono ricoperti da mattonelle di un bianco che quasi scintilla e l'aria sa di disinfettante, mischiato all'odore di gas che viene da un becco Bunsen posto su un tavolo in fondo alla sala. Un uomo sulla quarantina, piuttosto atletico, con i capelli mori tendenti al grigio, è in piedi accanto al tavolo, con gli occhi scuri fissi su una beuta dalla quale sta estraendo del liquido con una pipetta.

«Non capisco cosa ci facciate qui» dice Hawes, non appena ci ritroviamo da soli nel laboratorio. «Ho parlato con Scotland Yard soltanto ieri pomeriggio»

«Noi stiamo... Conducendo delle indagini per loro conto» spiego, cercando di essere il più convincente possibile. «Non ci siamo messi ben d'accordo sulle domande, quindi potrei porgergliene involontariamente una alla quale ha già risposto ieri»

Lui sospira, posando la beuta per prendere una provetta. Non ha distolto gli occhi dal suo lavoro neanche per un secondo, da quando siamo entrati qui. «D'accordo»

Rimango in silenzio per poco più di un attimo. «Bene» concludo, con il tono di voce infastidito da questo suo comportamento distaccato. «Lei e Carol Lovest eravate sposati da sedici anni, ma sua moglie aveva avviato le pratiche per il divorzio da qualche mese: è corretto?»

«Sì» risponde, asciutto. «È corretto»

«Potrebbe spiegarmene i motivi?»

Si stringe nelle spalle, con indifferenza, e riempie la provetta con il liquido che ha estratto dalla beuta. «Non andavamo più d'accordo, tutto qui»

«Cos'è cambiato, di preciso?»

«Lei ambiva a diventare capo di partito e primo ministro. Molto spesso non si trovava a casa e, quando tornava, si rifugiava nel suo studio e non ne usciva fino all'ora di cena. Quello era l'unico momento della giornata che passavamo insieme» Sospira di nuovo e punta i suoi occhi castani su di me, dopo aver posato la provetta in una centrifuga che poi ha avviato. «È così necessario parlare di questa faccenda?»

Inarco lentamente le sopracciglia, assumendo lo sguardo più serio e minaccioso di cui sono capace. «Vuole trovare l'assassino di sua moglie?»

«Beh, certo»

«Allora temo proprio che lo sia» Torno con gli occhi sugli appunti che ho preso stamattina sul cellulare, rileggendone alcune righe in fretta. «Parlando con Jonathan Douglas, un collega di sua moglie, siamo venuti a sapere...»

«Lei ha un ufficio?»

Volto la testa verso Sherlock, che è in piedi alle mie spalle, con un'espressione che dice: "E adesso che c'entra?". Potrebbe anche capirlo, se si degnasse di guardarmi.

«Ehm, sì, al piano superiore, insieme a quelli degli altri responsabili di progetto» risponde Hawes, in modo distratto, come se non gli importasse minimamente del motivo di una domanda così fuori contesto.

«Dicevo, Jonathan Douglas ci ha riferito...»

«Posso andare a darci un'occhiata?»

Sbuffo, seccata per essere stata interrotta ancora, e giro tutto il busto nella sua direzione con uno sguardo che lancia fiamme. Sherlock, questa volta, mi osserva, ma dalla sua fronte aggrottata sembra non capire. Io lo osservo, intimandogli di tacere con cenni minacciosi del capo.

«Certamente» acconsente l'altro, con semplicità. «Si faccia accompagnare da Ines»

"Si faccia accompagnare da Ines": come se la sua collaboratrice fidata fosse una segretaria.

Sherlock esce dal laboratorio senza ringraziare o dare spiegazioni, lasciandomi da sola a fare le domande all'eventuale colpevole. Non che mi spaventi, ma... È strano pensare di essere nella stessa stanza con un assassino.

«Cosa diceva di Jonathan Douglas?»

Distolgo lo sguardo dalla porta ad ante tagliafuoco e lo porto sull'uomo davanti a me, sempre immerso nel suo lavoro.

Resto in silenzio, cercando di trovare le giuste parole. «Ehm... Che lei voleva dei figli»

Fa per aprire la centrifuga, ma si blocca per un attimo prima di continuare. «Anche mia moglie ne voleva, all'inizio. Il suo lavoro ha rovinato tutto»

«Crede sia stata questa la causa del divorzio?»

«Una delle tante, in realtà» dice, prendendo una piastra di Petri da un mobile a vetri, accanto al tavolo al quale ha lavorato fin'ora, e mettendoci dentro qualche goccia del liquido appena centrifugato. Poi, mentre la sistema sotto la lente di un microscopio, sospira, in modo... Direi malinconico. «Negli ultimi periodi quasi non la riconoscevo più...»

«Una delle tante?» ripeto. «Potrebbe spiegarsi meglio?»

«I bambini non erano l'unico motivo, mi pare ovvio» dice, sedendosi su uno sgabello dall'altro lato del bancone a cui anche io sono seduta. «Ma ne è stato il principale. Litigavamo spesso per ciò, il che non ha fatto altro che raffreddare il nostro rapporto giorno dopo giorno»

«Può elencarmene qualcuno?»

Lui fa una specie di risatina sarcastica, prima di posare gli occhi sulle lenti del microscopio. «Beh, ad esempio anche io avrei potuto trascurarla per il mio lavoro, visto che avevo, e ho tutt'ora, un progetto importante da portare avanti. Avrei voluto che almeno notasse gli sforzi che facevo per dedicarle il mio tempo» Poi storce le labbra, mentre gira la manopola per mettere a fuoco. «Senza poi contare che si comportava malissimo con ogni inserviente di casa, sollevava questioni inutili su ogni cosa, spendeva troppi soldi per i suoi maledetti viaggi in giro per il mondo che sarebbero potuti durare mesi, per quanto ne sapevo»

«Questo, almeno, poteva permetterselo, giusto?» replico. «Oltre ad avere un ottimo stipendio, veniva anche da una famiglia piuttosto benestante»

«Sì, certo» mi dà ragione lui, stringendosi nelle spalle. «Dico solo che avremmo potuto farne uno insieme, ogni tanto. Era come se... Mi avesse totalmente escluso dalla sua vita. O che non ne avessi mai fatto parte sul serio»

Stacco una mano dal cellulare e me la avvicino al viso, per poggiarmi la guancia sulle nocche. Osservo Hawes per qualche attimo, pensierosa, e alla fine decido di sostituire la domanda che avrei voluto porgli con un'altra del tutto differente.

«Chi finanzia i suoi progetti, signor Hawes?»

L'uomo sbatte le palpebre un paio di volte, velocemente, prima di alzare gli occhi su di me e squadrarmi per un po'. «Scusi?»

«Il suo è un laboratorio autonomo» gli faccio notare, sfruttando la completa attenzione che mi sta attualmente rivolgendo. «Non ha una partnership né lavora per un ospedale o il governo. Ma qualcuno deve pur finanziare le attrezzature, lo stabile, gli stipendi...»

«In parte lo faceva mia moglie» ammette, senza troppe difficoltà. «Ma non era l'unica, ovviamente. I suoi soldi soltanto non sarebbero mai bastati»

«È per questo che May Jones, la cameriera di sua moglie, ha affermato che lei tentava in tutti i modi di farla desistere dal portare avanti il divorzio?» chiedo. «Per non perdere i finanziamenti?»

Mi squadra, immobile e silenzioso, con uno sguardo penetrante di chi vuole imporre la propria ragione. «Pensa che questo potesse essere un movente, se fossi stato io a uccidere mia moglie?» Muove le labbra fino a formare un ghigno derisorio. «È un po' debole, non crede? Non aveva neanche un'assicurazione sulla vita che avrei potuto investire nelle mie ricerche»

«La mia domanda era un'altra, signora Hawes. Non sto certamente dicendo che lei è l'assassino, né che ne ha i requisiti» rispondo, ricambiando la smorfia nello stesso modo beffardo. «Ma sa, fare supposizioni è il mio compito»

Ci fissiamo negli occhi per qualche secondo, prima che venga distratta dalla suoneria del mio cellulare, che vibra tra le mie mani.

"Ti aspetto fuori. S"

Sollevo lo sguardo e fingo di sorridere per un'ultima volta. «Beh, io avrei finito»

Mi alzo dallo sgabello, con le mani poggiate sul tavolo e il cellulare ancora sbloccato, da cui arriva un nuovo segnale di notifica.

"Digli che stiamo cercando il Diazepam. Sii vaga"

Aggrotto la fronte per un attimo, spiazzata da questa richiesta: dovrei parlare di informazioni riservate al possibile assassino? Ma è diventato matto?

«Tutto bene?»

Punto nuovamente gli occhi su Hawes, inizialmente smarrita, ma poi cerco di apparire il più disinvolta possibile. «Oh, sì, solo... Alcune novità dalla centrale»

«Di che genere?» mi domanda, ma poi si affretta ad assumere un tono più rispettoso. «Se posso chiedere»

«Ehm...»

'Dio, come glielo dico rimanendo sul vago?'

«Noi stiamo cercando del Diazepam nelle pillole che assumeva sua moglie»

Lui sbatte un'altra volta le palpebre, veloce, come per assimilare l'informazione. «Perché cercate uno psicofarmaco mescolato a quello che assumeva già?»

«Perché sua moglie ha impiegato diverse ore a morire per dissanguamento e, poiché si trovava in una zona alquanto affollata, troviamo improbabile che non abbia neanche tentato di urlare per chiedere aiuto. Piuttosto, crediamo che sia stata drogata e che sia morta senza neanche accorgersene» Poi mi stringo nelle spalle, assumendo un'espressione quasi disinteressata. «Ma è solo un'ipotesi: non c'è ancora nulla di totalmente certo»

'Fa' che funzioni, fa' che funzioni!'

Lui annuisce, con un'aria che, in apparenza, sembra comprensiva. «Capisco»

Ricambio lo stesso, invisibile sorriso e gli tendo la mano. «Continueremo ad indagare. Le faremo sapere di eventuali sviluppi»

«Sì» risponde lui, stringendomela con vigore senza però alzarsi. «Grazie»

Esco in fretta dal laboratorio e attraverso il lungo corridoio con enormi finestroni su un lato e porte tagliafuoco sull'altro, fino a ritrovarmi fuori dal fabbricato. Una folata di freddo vento mi investe in pieno il volto, in modo tanto improvviso e potente da farmi abbottonare per bene la mia giacca di lana. Inspiro a pieni polmoni l'aria umida di metà mattino, che ancora avvolge l'intera capitale preannunciando un'ennesima giornata fredda e piovosa, e affondo le mani nelle tasche.

Sherlock, in piedi accanto alla porta, ha iniziato a camminare a passo lento non appena mi ha vista mettere il naso fuori dalla porta principale. Io rimango ferma sull'uscio, cercando di farmi passare il batticuore per la paura che Hawes potesse sospettare della mia credibilità, e solo dopo aver fatto tornare il mio battito cardiaco ad una velocità accettabile, inizio a camminare, con calma.

«Hai trovato quello che cercavi nello studio?»

Lui si ferma un attimo, si porta una mano in una tasca interna del cappotto e ne estrae qualcosa con un fruscio. «Direi di sì»

Si volta e mi lancia una specie di spada corta, con un'impugnatura di legno scuro intagliato e un fodero dello stesso materiale. Lo afferro al volo, con entrambe le mani e il respiro trattenuto, piegando le braccia verso il torace per attutire l'impatto. Dopo essere rimasta ferma un attimo per riprendermi da quest'ulteriore shock, inizio a studiare l'arma, e rivolgo uno sguardo in attesa di spiegazioni a Sherlock, che è rimasto girato per godersi la scena.

«Cosa diavolo è quest'arnese?»

«Coltello giapponese, lama di dieci centimetri» spiega tutto d'un fiato, tornando poi a camminare verso Paradise Road.

«Come quello usato per il rituale jigai nella "Madama Butterfly"?»

«Esattamente»

Comincio a muovermi, seguendo i suoi passi, senza smettere di osservare incuriosita il coltello. «Quindi... Sto stringendo l'arma del delitto?»

«Perché, ti fa ribrezzo?» ridacchia lui.

«No, è solo che... Lo abbiamo preso senza un mandato, o qualcosa del genere»

«Lestrade saprà risolvere la situazione» Si ferma sul ciglio della strada, voltando la testa a destra e sinistra, poi alza una mano per attirare l'attenzione di un taxi. «Dopotutto, ho trovato la prova definitiva per incastrare il colpevole»

Sospiro, porgendogli il coltello: sicuramente, ha più destrezza di me, con certe armi. «Mi spieghi perché non siamo venuti prima?»

«Lestrade mi ha detto che era fuori per lavoro. A Birmingham, mi sembra. Appena ha saputo della moglie, si è precipitato dagli ufficiali, ha risposto alle loro domande e lo hanno lasciato andare. Tornare subito ad interrogarlo lo avrebbe messo in allarme. Crede di essere inattaccabile, in fin dei conti, perché ha un alibi piuttosto forte, ma noi sappiamo che l'ora del decesso non corrisponde all'ora in cui la vittima è stata drogata e ferita mortalmente»

Apre la portiera del taxi e dice l'indirizzo all'autista, poi entra e io lo seguo in fretta.

«E perché gli abbiamo detto del Diazepam?»

«Perché era necessario che lo sapesse»

«Necessario per cosa?»

«Fai troppe domande, Jane» replica, infastidito. «Non rivelo mai i miei piani per intero, lo sai»

Roteo gli occhi, con fare stanco, poi incrocio le braccia e punto lo sguardo fuori dal finestrino. «Egocentrico...»

Lui sbuffa, scocciato, sistemandosi meglio sul sedile, e lasciamo che l'abitacolo si riempia senza problemi di silenzio, interrotto solo dalla radio che trasmette un pezzo anni '80. Poi mi volto verso Sherlock, anche lui con gli occhi fissi sul finestrino, ma so benissimo che non sta guardando niente in particolare.

«Alla fine non mi hai detto cosa hai trovato nello studio di Carol Lovest all'House of Parliament»

Si gira nella mia direzione, mi guarda per qualche secondo e sospira, socchiudendo le palpebre. «Niente, oltre alle solite boccette di profumo»

«Beh, è già qualcosa»

«Errore» mi corregge. «Per entrare, è necessario un badge e il suo non rileva alcun movimento dal periodo della sua partenza per il Giappone»

«Quindi niente Valium...»

«In realtà, cercavo qualcosa come un diario dove poteva aver scritto di sospettare che il marito cercasse di ucciderla»

«Mio Dio, davvero credi che abbia tentato più volte di ucciderla?» esclamo, stupita.

«Certo»

Resto in attesa di una spiegazione, con le sopracciglia alzate e l'udito sull'attenti, ma mi rendo conto solo dopo un po' di star aspettando invano.

«Perché?» gli domando alla fine, stizzita.

«Non è ovvio?»

«No»

«Eppure credevo che fossi una persona sveglia»

«Ti vuoi decidere a spiegarmi e basta, per favore?»

«Non credi che avrebbe usato altri metodi che non lo avrebbero reso un sospettato, per esempio un infarto? Dopotutto, aveva le conoscenze e i mezzi per farlo. Invece ha lasciato delle tracce, ha fatto sì che si aprisse un'indagine per omicidio, e inoltre...»

«Moriarty è coinvolto» aggiungo. «Significa che doveva essere davvero disperato»

«Esattamente» mi dà ragione, per poi rivolgermi un sorrisetto ironico. «Vedi che se ti applichi riesci a tirare fuori il meglio di te?»

«Spiritoso» gli faccio il verso, accennando ad una finta risata.

Lui fa sparire lentamente il sorriso e comincia a squadrarmi, pensieroso. «Sbaglio, o la tua espressione soddisfatta mi dice che, invece, tu hai trovato qualcosa?»

In effetti, ho assunto involontariamente un'aria fiera: lo posso capire dal sorriso smagliante che solo adesso mi accorgo di avere. «Già» rispondo, in modo altezzoso. «Lo ammetto, non è un granché, ma penso che mi sarà utile in seguito»

«Per fare cosa?» mi chiede, aggrottando la fronte.

«Diciamo solo che ho un progetto» rispondo, con aria misteriosa. «E, per una volta, ho voglia di ripagarti con la tua stessa moneta tenendoti sulle spine»

Lui si lascia sfuggire una risatina sarcastica. «Certo. Devo ricordarti che sono io la mente geniale, tra noi due?»

«Devo ricordarti che sono io a studiare criminologia, tra noi due?»

«Hai appena cominciato gli studi!»

«Ne so certamente più di te!»

«Già, e dovresti solo ringraziarmi»

«Cosa? E perché do...»

Non termino la frase. Non ci riesco. Il mio cervello ha trovato una risposta logica in pochi istanti, quasi automaticamente. Il ragionamento fila, senza dubbio, ma mi sembra talmente assurdo che non riesco a darlo subito per vero.

Non appena l'idea è balenata nella mia testa, sono rimasta immobile a fissare Sherlock, con gli occhi che si spalancavano man mano che prendevo consapevolezza di quest'agghiacciante verità. Lui, invece, ha distolto lo sguardo, puntandolo nuovamente sul finestrino, con aria del tutto indifferente. E questo non può che dimostrarmi quanto avessi ragione.

«Oh, mio Dio...» mormoro, non sapendo con precisione cos'altro dire, cos'altro fare. Mi sporgo verso il sedile del conducente. «Fermi il taxi!»

L'uomo mi guarda attraverso lo specchietto retrovisore, con un'espressione confusa. «Come?»

«Si fermi, adesso!»

L'auto si blocca e io scendo velocemente. Ho bisogno d'aria, mi sento male. Inizio a camminare, senza sapere verso dove.

«Jane!» Sento Sherlock che mi chiama, ma io non voglio voltarmi. «Resti qui» aggiunge, rivolto al tassista.

Continuo ad appoggiare un piede davanti all'altro in modo meccanico. Credo che questa sia l'unica certezza che mi resta, per ora. La testa mi gira, non capisco più niente...

«Jane, dove diavolo stai andando?»

Mi fermo e un secondo dopo mi giro, trovando Sherlock a pochissimi passi da me. Non ha la faccia di chi non capisce cosa stia succedendo. Nient'affatto.

«Sei stato tu!» esplodo, con tutto lo stupore e la rabbia che mi invadono il corpo.

«Abbassa la voce» sibila lui.

«Tu mi hai fatto sbagliare aula, il giorno del test!» grido, puntandogli un dito contro.

Lui sospira, con fare annoiato. «Ti ricordo che abbiamo un caso da risolvere: possiamo par...»

«No che non possiamo parlarne più tardi!» lo interrompo, urlando con quanto fiato ho in corpo, e poco mi interessa se tutti i passanti mi stanno fissando, perché un solo, terribile dato di fatto si è impossessato delle mie priorità.

Sherlock inspira dalla bocca ed espira dalle narici, velocemente. «D'accordo, è vero, sono entrato nel database dell'università e ho scambiato le aule. E allora?»

«"E allora"?!» ripeto, rabbiosa. «"E allora"?! Ti rendi minimamente conto di quello che hai fatto?!»

«Beh, sì: ti ho fatto un favore!» esclama lui, come se non capisse di avere torto.

«Hai giocato con il mio futuro!» gli grido in faccia. «Hai almeno la più pallida idea di ciò che avrei voluto fare, con una laurea in giurisprudenza?»

«Sì, sì, saresti diventata un brillante avvocato per poter trascinare tuo padre in tribunale perché non aveva pagato il mantenimento, cosicché tu e tuo fratello poteste prendervi la vostra rivincita, eccetera eccetera... Direi che non è poi una grande ricompensa per sei anni di studi» cantilena, come se il mio fosse il progetto più stupido del mondo. «Saresti stata sprecata come avvocato»

«Questo non è affar tuo!»

Non so cos'altro aggiungere, sebbene abbia tantissime cose da dirgli. Ma quando mi accorgo che sono tutti o insulti volgari o concetti poco bene espressi, mi limito a voltarmi e riprendere a camminare, senza una parola di più. Potrei persino far succedere il finimondo, se aprissi bocca un'altra volta.

«Andiamo, Jane, adesso non fare l'offesa!» si lamenta, alle mie spalle.

«Ah, non sono offesa!» replico, girandomi solo per guardarlo dritto in quella faccia che mi sto seriamente trattenendo dal rompergli. «Sono furibonda, Sherlock. Furibonda!»

Faccio un paio di passi all'indietro, prima di voltarmi di nuovo e continuare a camminare a ritmo sostenuto.

«Dai, smettila!»

Mi prende per un polso e mi tira a sé, costringendomi a girarmi. Mi ritrovo improvvisamente così vicino al suo viso che quasi posso contare le sfumature dei suoi occhi.

«Lasciami andare» gli ordino, a denti stretti.

«No» risponde lui, senza accennare ad allentare la presa della sua mano destra sul mio polso.

«Lasciami andare o giuro che strillo»

Lui fa di nuovo quel suo risolino sarcastico. «Come se non lo stessi già facendo»

È un attimo. Un attimo così rapido e lento allo stesso tempo. Vedo il mio palmo sinistro dirigersi verso la sua guancia ad una velocità assurda, ma probabilmente la concezione che ho di essa è distorta dalla cieca collera che si è impossessata della mia parte razionale.

Sherlock, usando i suoi riflessi, mi blocca appena in tempo con la sua mano sinistra, così da formare una X con le braccia.

Rimaniamo in silenzio per circa cinque secondi, a cercare di intimidirci con lo sguardo, prima che io mi liberi bruscamente dalla sua presa. Non oppone alcuna resistenza.

«Sai qual è il tuo problema, Sherlock?» gli dico, facendo un paio di passi all'indietro. «Pensi di poter avere il controllo su tutto. Ma tu non sei un burattinaio, io non sono la tua marionetta, e il mondo non è un teatrino» Scuoto leggermente la testa, trattenendo a forza le lacrime. Lacrime di rabbia, frustrazione, confusione... Lacrime di delusione. «Non ti lascerò giocare così con la mia vita»

Non so neanche il motivo, ma, non appena mi rigiro, riprendo a camminare così velocemente che quasi corro. O forse scappo? Non so nemmeno questo. L'unica cosa di cui sono certa è che sto alternando un passo all'altro a testa alta, incurante del vento che mi sferza il viso o delle lacrime che mi bruciano sulla pelle. Me ne vado così in fretta da non darmi neanche il tempo di fermarmi o di permettere a Sherlock di farlo. Non mi do tempo nemmeno per sentirmi in colpa per averlo piantato in asso nel bel mezzo di un'indagine. Non mi do tempo per nulla, al di fuori della rabbia: mi invade da capo a piedi, come una scarica elettrica, e brucia come il fuoco. Brucia così tanto che neanche il rigido freddo di Londra riesce a smorzarla.

Scendo i gradini della stazione di Richmond a razzo, compro un biglietto e prendo la linea District, diretta verso Hammersmith, dove dovrò prendere la Circle e tornare a casa. È la prima volta da quando mi sono trasferita qui che non vedo l'ora di tornarci così presto. Ma nonostante tutte queste mie azioni si susseguano tra loro in maniera lineare, la mia testa è in fiamme, tanto sono furiosa, confusa... Non riesco a pensare a nient'altro.

Il viaggio in metropolitana è piuttosto veloce, rispetto a quello in taxi o in auto, anche se più caotico: il vociare delle persone e lo sferragliare delle rotaie non mi danno tregua. Forse, è anche un bene, dato che riescono ad annullare in parte i miei pensieri, che vorticano in una spirale impazzita e sempre più profonda, in modo così veloce che quasi mi danno la nausea.

Non riesco a crederci... Non posso credere di aver visto i miei progetti volarmi via dalle mani come sabbia al vento, di essermi data la colpa per un errore che non avevo commesso. Ogni obiettivo che mi ero prefissata, ogni idea di riscatto, ogni promessa che avevo giurato di mantenere... Tutto distrutto in un secondo, con una sola frase: "Aula 32, lungo il corridoio a destra, la settima a sinistra". Dopo quasi quattro mesi, ancora ricordo alla perfezione le parole veloci della segretaria, avendole ripetute così tante volte nella mia testa per paura di dimenticarle. E le ho ripetute ancora e ancora, dopo essermi accorta di star facendo il test per la facoltà sbagliata, nel tentativo di trovare la causa della mia svista. Avrei dovuto reclamare in tempo, dirigermi in fretta in segreteria e cercare di rimediare. Ma non l'ho fatto. Avrei dovuto, ma non l'ho fatto, e adesso me ne pento così tanto...

Forse, lui sapeva anche questo: sapeva che non mi sarei tirata indietro, davanti a un'occasione del genere, che l'avrei presa al volo senza troppi ripensamenti, e non si è fatto alcuno scrupolo a giocare con le mie decisioni, mischiando le carte in tavola e ridisponendole come più gli piaceva.

Non so più che pensare... Mi sento tanto confusa da voler solo buttarmi in un angolo e fare ordine nella testa. Si prospetta un lavoro davvero arduo.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro