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{36° Capitolo}

[Capitolo trentasei]

Jane

«Sherlock, sei a casa? John mi ha chiesto se potevo comprarvi del latte, visto che lui è fuori, e...» Quando raggiungo la soglia del salotto, le mie parole si bloccano automaticamente, non appena lo sguardo mi cade su Sherlock. «Ma cosa stai facendo?»

Lui apre lentamente gli occhi e mi lancia una veloce occhiata, prima di sospirare. «Mi annoio...» mormora.

«E metterti a testa in giù dal bordo del divano aiuta?» gli chiedo, avvicinandomi a lui.

«John mi ha nascosto le sigarette, la pistola, la cerbottana, l'arpione e la cocaina» risponde, contando con le dita, per poi lasciare andare la mano, dandosi un colpo sulla gamba. «Non conosco altri modi per farmi arrivare il sangue al cervello»

Sospiro: almeno John riesce a prendere precauzioni. Mi tolgo la borsa a tracolla e la poggio sulla poltrona dell'investigatore, dato che è l'unico pezzo d'arredamento libero da scartoffie e attrezzi chimici. Poi vado in cucina per posare il latte nel frigorifero, non dopo essere saltata per aver trovato un orecchio mozzato accanto a delle verdure quasi scadute. Evito di commentare.

Quando torno in salotto, Sherlock è nella stessa posizione, senza essersi spostato di un solo millimetro, e io mi siedo accanto a lui.

«Cosa stai facendo?» mi chiede, voltandosi di scatto per osservarmi con aria confusa mentre butto la testa all'indietro, come lui.

«Mi annoio con te» rispondo, sorridendogli.

Lui rotea gli occhi, per poi mettersi a guardare il soffitto con aria assente e io lo imito.

«Ci sono novità?»

«Le impronte digitali e il DNA non ci hanno detto niente. Nessuno la conosce nella zona industriale, e dato che non possiamo far girare la foto nei media, siamo ad un punto morto. Da una settimana!»

«Nessuna denuncia di scomparsa?»

«Solo due, ma non si trattava di lei in entrambi i casi. Si vede che, ovunque sia andata, non aveva intenzione di tornare in una data precisa, perché è impossibile che nessuno si sia accorto della sua assenza»

«Scommetto che hai già ordinato a Lestrade di controllare tutti i biglietti di sola andata per luoghi freddi e costosi»

«Non immagini nemmeno quanti siano...» brontola lui.

Poi si volta verso di me: posso vederlo, con la coda dell'occhio, mentre mi osserva con il suo solito sguardo pensieroso.

«Non sembri irritata dal non avere informazioni sul caso» mi dice, alla fine.

«Dovrei?»

«Beh... Sì» replica, con tono ovvio. «Come fate voi persone normali a non annoiarvi?»

Volto la testa verso di lui e mi stringo nelle spalle. «Io leggo» rispondo, semplicemente. «Storie vere, inventate, poco credibili... Leggo e basta. E se una storia è ben raccontata e riesce ad appassionarmi, difficilmente mi annoio»

Lui si mette a sedere, tirandosi su di scatto, e si appoggia sui palmi delle mani. «Jane, voglio che tu mi racconti una storia» annuncia, guardandomi. «Una storia che tu conosci molto bene»

Mi siedo accanto a lui, con un'espressione corrucciata. «Una storia che conosco bene?» ripeto. «E quale?»

«La tua»

Nottingham, Inghilterra•1987-2011

In quell'assolato giorno di Maggio, Jane sembrava più frenetica e preoccupata del solito: correva da una stanza all'altra della casa, cercando nei più remoti e nascosti angoli il prezioso libro di cui sentiva un disperato bisogno per potersi sollevare il morale dopo una giornata storta.

«Accidenti... Dove l'avrò messo?» si disperava la ragazza, angosciata.

«Lo avrai appoggiato da qualche parte e non te lo ricordi» sbuffò suo fratello, che la stava svogliatamente aiutando nella ricerca.

«E se lo avessi perso?» replicò lei, con tono preoccupato. «Ma io non posso averlo perso!»

«Calmati, Jane, è solo un libro»

«Non è solo un libro!» urlò lei, quasi con rabbia, perché anche la sola ipotesi di aver perso qualcos'altro le faceva venire da piangere.

Jane era sempre stata molto protettiva nei confronti delle proprie cose. E come darle torto? A quattordici anni aveva già perso molto, e la paura di ritrovarsi di nuovo abbandonata, persino dai suoi amati libri, le si insinuava prepotentemente nella testa, tanto che lei non riusciva più a fare a meno di pensare sempre al peggio, di farsi numerosi problemi inutili su una sua possibile parola sbagliata o un gesto scorretto. Le persone sono fatte così, dopotutto: basta un'azione ad offenderli e a farli, di conseguenza, andare via. Ed era proprio questa la sua paura: pagare il suo modo di essere impulsivo rimanendo sola ancora, e ancora, e ancora... Jane aveva da tempo cominciato a credere di avere qualcosa di sbagliato, perché se suo padre, sua madre, la sua amica Amanda e anche Billy avevano scelto di essere egoisti e di lasciarla sola, un motivo doveva pur esserci. E il motivo era sicuramente lei.

La notte in cui la piccola Jane vide il mondo per la prima volta era buia e temporalesca, quasi a presagire la vita burrascosa che avrebbe avuto. Eveline era felicissima per la nascita della sua bambina, e persino il piccolo Alan provava una certa curiosità nei confronti di quell'esserino dalle mani minuscole, sebbene lo mascherasse dietro un comportamento piuttosto geloso. Gareth, il padre di Jane, sembrava essere l'unico a non provare la stessa gioia, forse perché era sovraccarico di lavoro e non aveva molto tempo da dedicare alla famiglia. Nessuno ne parlava, nessuno voleva affrontare il problema, e alla fine il peso di tanto tempo di silenzio portò Gareth ad andarsene, senza alcun apparente rimpianto. Per qualche anno, Eveline riuscì a resistere, sostenuta dall'amore che provava per i figli, prima di cadere del tutto vittima del dolore e della tristezza. Aveva cominciato ad alzarsi tardi, ad andare sempre più di rado alla scuola di musica dove lavorava come insegnante, ad essere sempre più stanca, senza in realtà aver fatto niente, a mangiare sempre di meno, e a non riuscire neanche a trovare conforto nella musica di cui aveva fatto il suo lavoro. Gradualmente, arrivò al non alzarsi neanche più dal letto e a non smettere mai di piangere.

Da allora, Jane la vide sempre così, come uno spettro che raramente vagava per casa, ma che aveva sempre il potere di far sorridere una bambina che aveva tanto bisogno di lei. La piccola non riusciva a capire perché Eveline scomparisse sempre all'improvviso, e alla domanda sul perché la mamma fosse sempre così triste, le veniva risposto che stava così per il papà. Alan, nonostante fosse solo un ragazzino, di cose ne capiva fin troppe, ma non aveva mai avuto il coraggio di spiegare alla sorellina il vero motivo di quella brutta situazione, per paura o, semplicemente, per proteggerla da una verità troppo dura per una bambina.

Jane non conosceva molto di suo padre, solo il suo nome e il suo aspetto, grazie soprattutto a vecchie fotografie che Eveline teneva nascoste in un remoto angolo di un cassetto, e che non aveva mai avuto il coraggio di buttare. Alan le aveva trovate grazie alla sua fervente curiosità degna di un archeologo, e le aveva mostrate a Jane che, finalmente, poteva dare un volto a quel nome che raramente veniva pronunciato. Le uniche cose che ancora non conosceva di lui erano la voce e il profumo, ma non le dispiaceva poi tanto: li considerava una sorpresa per quando sarebbe riuscita ad incontrarlo ed abbracciarlo.

«Alan, credi che papà ci verrà a prendere a scuola, oggi?» le capitava spesso di chiedere, mentre il fratello le avvolgeva per bene la sciarpa intorno al collo.

«Sicuro! Vedrai, sarà lì ad aspettarci»

Alan non aveva il coraggio di deludere le speranze della sorellina, e gli capitava spesso di farle promesse che sapeva di non poter mantenere. Forse, lo faceva perché in fondo ci sperava anche lui.

Ma quel pomeriggio Gareth non si presentò alla fine delle lezioni, per poter riabbracciare i figli, come non si era presentato il giorno prima, e quello prima ancora, e tutti i pomeriggi precedenti da lì a quando se n'era andato via. Così, con il passare delle settimane e dei mesi, Jane iniziava a sperare sempre di meno e a crescere sempre di più.

Non era mai stata una persona socievole o alla quale piace stare in compagnia, ma crescendo era diventata sempre più fredda e solitaria. Prima di conoscere la sua amica Amanda, così diversa da lei ma con la quale riusciva sempre a trovare un modo per evadere dalla sua solitudine, non le dispiaceva affatto rimanere da sola, non se aveva i suoi libri, il suo Billy e il suo pianoforte. E fu proprio grazie a quello strumento impolverato di ricordi, i cui tasti non venivano premuti da quando Eveline aveva scelto di smettere di lottare, che aveva fatto sentire Jane la persona più importante di tutte.

In quel pomeriggio d'inverno, dopo la scuola, Jane era tornata a casa da sola, mentre Alan era rimasto in punizione a scuola. Non le piaceva stare senza suo fratello, ma ormai ci stava facendo l'abitudine: era già la quarta volta, dall'inizio del mese, che il ragazzo non faceva che trasgredire alle regole, senza contare le volte in cui era riuscito a non farsi beccare. Forse, si comportava così perché, almeno a scuola, non aveva bisogno di fare l'adulto e poteva essere un sedicenne qualunque. Jane non riusciva a capire cosa il fratello nascondesse dietro quel suo comportamento da duro, ma certe volte si sentiva in colpa per avere sempre così bisogno di lui e, per questo, cercava sempre di essere il più indipendente possibile.

Mentre passeggiava per il salotto, cercando il libro che doveva aver poggiato lì da qualche parte, le cadde l'occhio sul pianoforte in legno nero della madre. Quello strumento, che aveva sempre fatto soltanto parte della mobilia, al quale non aveva mai fatto troppo caso, quel giorno sembrava chiamarla. Jane se ne sentì improvvisamente incuriosita e lo raggiunse a passi brevi. Per un attimo, ebbe quasi paura di toccarlo, come se fosse un oggetto magico e pericoloso, ma si riprese subito: la magia non era reale, e lei lo sapeva più di tutti. Prese un respiro e sollevò il coperchio del pianoforte, per poi togliere dolcemente la stoffa di velluto dalla tastiera. Rimase per un po' ad osservare l'armoniosa alternanza di bianco e nero, e non riuscì a trattenersi dallo sfiorare con le dita la superficie liscia dei tasti. E poi ne pigiò uno. Il suono che ne derivò viaggiò nell'aria, sfumando a poco a poco, ed era così semplice e lineare da non poter nemmeno essere considerato musica, ma a Jane sembrò il più bello che avesse mai sentito. Decise di provare di nuovo, e di nuovo ancora, fino a quando le dita non iniziarono a viaggiare frenetiche lungo i tasti, senza una logica o una precisa armonia, ma a Jane non importava. Non in quel momento, quando c'erano solo lei e il pianoforte.

Quando finalmente staccò le dita dalla tastiera, si volse con una piroetta, sorridendo felice, e sussultò nel vedere la madre sulla soglia del corridoio, con una mano appoggiata allo stipite e un sorriso sul volto.

«Era da tanto che non sentivo il suono di un pianoforte» mormorò. «Mi era mancato molto»

La bambina osservò attentamente la madre mentre si avvicinava allo strumento con un'andatura stanca, ma il solito sorriso dipinto sul viso. Non aveva mai visto sua madre sorridere. Non in quel modo così luminoso e sincero con cui lo stava facendo ora.

«Mi dispiace di averti svegliata...» balbettò, abbassando lo sguardo.

«Oh, no, non devi dispiacerti» si affrettò a dire Eveline, prima di sfiorare i tasti polverosi come aveva fatto la figlia poco prima. «Questo vecchio pianoforte aspettava solo di essere suonato di nuovo» Poi eseguì un arpeggio con assoluta naturalezza, come se non avesse mai smesso di esercitarsi, e l'intera casa si riempì di quella melodia meravigliosa. «Ti piacerebbe se ti insegnassi?»

Jane rimase senza parole per qualche attimo, perché non riusciva a credere che sua madre glielo avesse chiesto. In quei tre anni, in cui si faceva vedere sì e no quattro volte ogni due settimane, Jane aveva cominciato a pensare che non avrebbe mai avuto l'occasione di parlare con lei, e invece stava tentando di uscire dal suo guscio fatto di dolore. Lo stava facendo per lei, per insegnarle a suonare, per non farla più rimanere sola.

«Non sai quanto!»

Con il passare dei mesi, Eveline riuscì a riprendersi dalla depressione, tornando alla sua vita. Alan, finito il liceo, si iscrisse alla facoltà di storia dell'università di Sheffield, la più vicina a Nottingham. Jane, che era molto legata a suo fratello, stranamente non sembrò prenderla male, ma lui conosceva bene la sua piccola Einstein, e sapeva quanto fosse sensibile ed insicura, tanto da nascondersi dietro quel comportamento indifferente. Sapeva che lei non era la ragazzina menefreghista che tutti credevano, affatto, ma vivere senza un padre, con una madre-fantasma, con il solo aiuto del fratello, e occasionalmente dei nonni, aveva portato Jane ad essere sempre scontrosa con chiunque e ad isolarsi per non dover fingere che andasse tutto bene. E da quando la sua amica Amanda si era fidanzata con Ed e Billy, il suo inseparabile amico a quattro zampe, era morto, attaccato da un branco di cani randagi, lei era diventata sempre più chiusa, più acida, più triste. E ciò non la rendeva adatta alle persone.

Alan passò interi mesi chiedendosi come mai, in quel particolare giorno, avesse deciso di tornare a Nottingham col primo treno da Sheffield, per andare a prendere Jane a scuola, ma, alla fine, smise di farlo, cominciando a considerarlo un intervento dal Cielo.

Quando arrivò davanti al liceo, infatti, venne accolto da un insieme di grida ed incitazioni, proveniente da un gruppo di ragazzi stretti in una sorta di cerchio. Alan vi si avvicinò, con un terribile presentimento, e si fece largo tra gli studenti a suon di spinte e gomitate, fino ad arrivare al limite interno del gruppo. Nel centro, c'erano due ragazze, nel pieno di una rissa, e una di loro era Jane: si proteggeva dai pugni della sua avversaria con le braccia unite e le mani serrate davanti al volto, senza che riuscisse a controbattere l'offensiva.

«Ehi, smettetela!» gridò Alan, gettandosi in mezzo alle due. «Ma che sta succedendo qui?»

«Ha cominciato lei!» strillò Jane, approfittando del momento di tregua per riprendere fiato.

«Cosa fai, Aldernis? Chiami in aiuto il fratellone perché hai paura? Sei una codarda, per caso?»

«Ora ti ammazzo!»

Jane si lanciò verso l'altra ragazza, pronta ad attaccare, ma venne subito trattenuta dal fratello.

«Lasciami andare, Alan!»

«Prima ti devi calmare!»

«Devo ucciderla!»

«Non ti permetterò di combinare un casino!»

Jane si fermò, ma la presa di Alan attorno alle sue braccia non si allentò.

«E tu, ragazzina» aggiunse lui, rivolgendosi all'avversaria della sorella. «Vedi di andartene senza fiatare, altrimenti mi farò una bella chiacchierata con i tuoi genitori e vedrò di farti sospendere dalla scuola. Mi hai compreso?»

La ragazza squadrò Alan, sistemandosi una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio, con fare provocatorio, poi si spolverò l'uniforme e si fece ridare la cartella, affidata ad una compagna. Si avvicinò a Jane e la osservò per un attimo, prima di superarla altezzosamente.

«Ci vediamo domani, Aldernis»

«Spero ti metta sotto un autobus, Cox!» le gridò dietro Jane, e, se non fosse stata bloccata dal fratello, avrebbe sicuramente fatto in modo che la sua minaccia venisse messa in atto. «Non avete niente di meglio da fare, voi?!» aggiunse, rabbiosa, osservando attentamente il basito pubblico di quello spettacolo.

Il cerchio si sciolse velocemente, e non appena i due fratelli rimasero soli, Alan prese Jane per le spalle, scuotendola, e la guardò negli occhi con sguardo furente. «Ma sei impazzita? Cosa ti è saltato in mente?!»

Jane si staccò bruscamente dalla presa del fratello, si avvicinò alla sua tracolla gettata in un angolo e si chinò per raccogliere i libri sparsi per terra, senza fiatare.

«Vuoi spiegarmi perché hai fatto a botte con quella ragazza?!»

«Lasciami in pace, Al»

«Neanche per idea!» ribatté lui. «Non finché non mi avrai dato una spiegazione valida!»

Jane si alzò, sistemandosi la divisa sgualcita, e dopo aver lanciato una veloce occhiata al fratello, si allontanò lungo la strada che di solito percorreva per tornare a casa. «Mi ha chiamata "scarto umano"»

«E ti sembra un buon motivo per aizzare una rissa?!» disse Alan, affiancandola di corsa.

«Sai, quando te lo senti ripetere tutti i giorni per quattro mesi, dopo un po' perdi la pazienza» replicò lei, con il tono di chi si mantiene calmo a forza.

«Oh, Jane...» mormorò Alan, sentendo tutta la rabbia che provava fino a pochi attimi prima scivolare via lentamente. «Perché non me lo hai mai detto? Avrei potuto...»

«Cosa, aiutarmi?» lo interruppe la ragazza, acidamente. «Non dire scemenze. Hai altro a cui pensare»

«Ma di cosa stai parlando?»

«Dell'università, di Lucy, dei tuoi amici... Non hai tempo per me»

Alan si bloccò un secondo, non riuscendo inizialmente a capire perché la sorella pensasse qualcosa del genere. Ultimamente era stato molto impegnato, questo era vero, ma non l'aveva trascurata. Almeno così gli sembrava.

«E Amanda non ti ha aiutata?» le chiese poi, cambiando subito discorso.

Jane si fermò all'improvviso e, sulle prime, non rispose. Alan la sentì prendere un respiro, prima di parlare. «Il suo ragazzo è venuta a prenderla, oggi. Ha preparato lo zaino ed è uscita senza neanche salutarmi» mormorò, con voce spezzata. «Sono giorni che non parliamo»

Non si voltò verso il fratello, come se non volesse fargli credere che avesse bisogno di lui: Jane sapeva essere davvero molto orgogliosa, il più delle volte.

«Jane...»

«Voglio stare da sola, Al» lo interruppe lei, di nuovo, prima di riprendere a camminare e svoltare in un piccolo vicolo sul lato destro della strada.

Alan non la seguì, e non seppe mai dove fosse andata, non avendo nemmeno il coraggio di chiederglielo. Rimase immobile a guardarla sparire davanti ai suoi occhi, a vederla mentre gli sfuggiva dalle mani. E si rese conto, improvvisamente, di aver davvero trascurato la sua piccola Einstein, l'unica persona che avesse mai avuto davvero bisogno di lui, e si sentì come se avesse fallito il suo ruolo di fratello maggiore. Capì che Jane stava ergendo a poco a poco un muro dietro al quale nascondersi, uno scudo che l'avrebbe protetta dagli attacchi della gente, ma non poteva tollerare che lo stesso accadesse far loro due. E, di certo, non glielo avrebbe permesso.

Quando, quel pomeriggio, Jane tornò a casa, Alan era lì ad aspettarla e, senza dire niente, corse a stringerla forte a sé, come per farsi perdonare tutte le volte in cui non lo aveva fatto. Le promise che non l'avrebbe più lasciata sola e che l'avrebbe sempre protetta, ad ogni costo, nonostante sapesse bene che non ci sarebbe sempre stato per fermare le risse nelle quali veniva coinvolta. Le impose di frequentare un corso di karate e judo, così che potesse essere in grado di difendersi, e fece in modo che il loro rapporto diventasse più forte.

Quando si trovava a Sheffield, la chiamava ogni sera, e riuscivano a rimanere incollati al telefono per ore ed ore, parlando della loro giornata, di aneddoti strani, novità, voti, di come andava lo studio ed ogni conversazione si concludeva con un "mi manchi" mascherato con una risata. Quando tornava a casa nei finesettimana, Alan portava Jane fuori, passeggiando insieme per Nottingham senza andare, alla fine, da nessuna parte. A volte si sedevano sulle panchine del parco, ad osservare i passanti e commentare i loro stravaganti modi di camminare, vestire, sedere o parlare, oppure si rifugiavano da Costa per prendere un caffèlatte e un pezzo di crostata al limone, i loro preferiti. E insieme ridevano, ridevano tantissimo, come se la loro vita fosse sempre stata perfetta.

Jane dimenticava tutto, quando stava con suo fratello, e lo considerava il suo unico, vero amico: gli raccontava sempre tutto, chiedeva la sua opinione per tutto, e spesso lo prendeva in giro per il suo pessimo gusto in fatto di fidanzate. Erano uniti da un legame così forte da non poter essere spezzato, perfettamente e totalmente indissolubile.

Quando, all'età di ventidue anni, ottenne la cintura nera in entrambe le discipline, per le quali aveva lottato tanto, Jane cominciò a prendere in considerazione numerosi indirizzi universitari, la maggior parte dei quali erano facoltà che avrebbe voluto intraprendere sin da piccola. Ma quando venne a sapere che Alan aveva trovato Gareth, dopo una lunga ricerca, lasciò da parte i suoi progetti e prese una decisione definitiva, risoluta a non tornare indietro: sarebbe diventata un avvocato, e avrebbe aiutato suo fratello nel processo contro loro padre.

Alan tentò più volte di farle cambiare idea, perché non voleva che sua sorella si sacrificasse per quella sua stupida idea, ma Jane aveva fatto una scelta, convinta, determinata a prendersi una rivincita contro la persona che odiava più di tutte, per la quale aveva avuto un'infanzia difficile e spenta, nascondendo davanti al giudice la sua vera colpa con una denuncia per mancato mantenimento dei figli.

Jane, dopo essere stata accettata, si iscrisse al King's College di Londra, nell'Aprile del 2011, e si trasferì pronta a vivere la sua nuova, normale vita, perché la normalità era tutto ciò che aveva sempre desiderato. Ma se fosse stata normale, non sarebbe mai diventata quello che era fiera di essere. E, soprattutto, Sherlock Holmes non le avrebbe mai chiesto di seguirlo.

Baker Street, Londra, Inghilterra•15 Gennaio 2012

Non appena finisco di raccontare, le immagini del mio passato, che mi avevano travolto come un fiume in piena, scompaiono con le mie parole, e nel salotto del 221B cade il silenzio. Un silenzio fastidioso, durante il quale riesco solo a sentire le lancette del mio orologio battere ritmicamente i secondi, Baker Street che vive fuori da questo appartamento e la signora Hudson che canticchia al piano di sotto.

«La tua vita è stata davvero noiosa» sbuffa alla fine Sherlock, con voce scocciata.

«Perché, la tua è stata più attiva?»

«Beh, io a quindici anni risolvevo crimini, non aizzavo risse fuori dalla scuola»

«Quella se l'è meritato» replico. «Lo avresti fatto anche tu»

Lui alza gli occhi al cielo, che in pratica sarebbe il pavimento, e sembra trattenersi dal rifilarmi una battuta tagliente. «È per questo che sei sempre così acida?» mi dice. «Perché ti sei sentita messa da parte da tutti?»

«In un certo senso...» mormoro, con un sospiro, che dovrebbe tentare di reprimere quel maledetto senso di malessere che mi attanaglia la pancia.

È solo che ogni volta che ripenso alla mia storia, nuovi dubbi mi assalgono: forse è colpa mia se Amanda ha scelto Ed, forse è colpa mia se Alan mi ha trascurata... Ho iniziato persino a pensare che fosse per colpa mia se mio padre se n'è andato...

«È che... Sono stanca di essere quella che ci tiene, quindi cerco di prendere ogni cosa nel modo più distaccato possibile, così da non rimanerci male se dovessi rimanere sola. Cerco di illudermi poco ed essere razionale. Persino un sentimento come l'amore non mi sfiora nemmeno: tanto, è solo un ammasso di farfalle che ti scompigliano lo stomaco e qualcuno a cui fare un regalo per San Valentino. L'amore è superfluo ed effimero, ed io non ho bisogno di qualcosa che è destinato a fallire in partenza»

«Non sembri una che porta rancore, però» ribatte Sherlock.

«Oh, ti sbagli» rido io. «Io sono una vera e propria matrioska di rancore»

Non appena pronuncio quella parola, "matrioska", una luminosa lampadina si accende nella mia testa, in modo così improvviso ma logico che mi do dell'idiota per non averci pensato prima.

Mi tiro su, sedendomi sul bordo del divano, insieme a Sherlock che, a giudicare dal suo sguardo, ha avuto la mia stessa intuizione.

«La matrioska!» diciamo insieme, prima di fiondarci giù dal divano.

«La "Madama Butterfly" è ambientata in Giappone» dice lui, togliendosi la vestaglia azzurrognola per mettersi la giacca del suo completo nero.

«Pensi che sia il luogo dove è andata la nostra vittima?»

Lui si gira verso di me, mentre chiude l'ultimo bottone, e mi sorride. Un sorriso soddisfatto, felice, fiero. «Ne sono certo»

[Spazio Autrice]

*Coro di voci angeliche*

SIGNORI E SIGNORE, SONO VIVA!

Scusatemi tantissimo per il ritardo (di esattamente 27 giorni), ma sapete meglio di me che la scuola uccide... Comunque, eccovi il capitolo 36 (che è tipo la roba più lunga che io abbia mai scritto in 222B, ma dettagli). Perdonate la mancanza di trama, ma era necessario che io spiegassi determinate cose della vita di Jane, come il perché volesse diventare avvocato (anche se questa parte non l'ho ben ampliata) o perché fosse spesso scontrosa con tutti (no, non è carattere ahaha).

Non vi prometto niente sulla data di uscita del prossimo capitolo (dato che la scuola è quasi finita, i compiti in classe si sono moltiplicati >.< Morirò trai libri!), ma vi prometto che cominceranno le vere e proprie indagini!

Finalmente 'sta tizia trovata morta avrà un nome, Jane e Sherlock indagheranno insieme sul loro primo, vero caso, John (ebbene sì, lui tornerà, dopo seimila capitoli in cui era magicamente scomparso eheheh) rimarrà spiazzato perché ehi, Sherlock ha dei rapporti sociali! Tutto questo, però, non so ancora quando :(

Un'ultima cosa... Secondo voi, c'è qualcosa da migliorare (oltre al fatto che Amy e John siano praticamente inutili)? Che ne so, faccio poche descrizioni, troppi dialoghi... Fatemi sapere.

Detto questo, vi lascio. Spero non mi truciderete per avervi fatto attendere così a lungo *corre a nascondersi*

Alla prossima, Sherlocked!

~Maddy♥

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