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{30° Capitolo}

[Capitolo trenta]

Sherlock

Ah, il Natale: può esistere festa più inutile? Persone che si scambiano regali e cantano nauseanti e allegre canzoncine, tutti rannicchiati sotto ad un abete di plastica decorato con altri pezzi di plastica, dalla forma principalmente sferica.

Noioso. Se solo John me lo permettesse, sparerei al muro o farei qualche esperimento in cucina, dato che mi sono rimasti alcuni residui di fegato nel frigorifero, e devo assolutamente utilizzarli prima che si decompongano. E invece no: sono costretto a presenziare ad una stupida festa della Vigilia, suonando al violino Jingle Bells e altre canzoncine inutili, con Amanda alla chitarra.

Quanto vorrei che qualcuno venga ucciso... Ci sarebbe un caso da risolvere, in questo periodo di vuoto totale.

«Wow, Sherlock: sprizzi gioia da tutti i pori!» mi dice Jane, quando finisco di suonare l'ultima nota di quella canzone dal nome lunghissimo, di cui non ricordo molte parole.

«Non capisco perché dobbiamo mettere in scena questa pantomima solo per mangiare un po' di pudding con l'uvetta» brontolo, abbassando il violino.

«È Natale!»

«Un giorno come gli altri» replico. «Il fatto che sia Natale non cambia granché le cose»

«La tua visione del mondo è davvero molto deprimente, sai?»

«Lui è sempre così. Dopo un po' ci fai l'abitudine» dice John, posando sul tavolo alcune bottiglie di birra e altri alcolici a me sconosciuti.

«Si può avere dell'acqua?» domanda timidamente Jane, indicando i contenitori con un cenno della testa.

«Astemia?»

«Non le piace l'alcol» correggo John quasi meccanicamente, senza neanche rendermene conto. «Andiamo, è palese!» protesto, accorgendomi della sua occhiata interrogativa.

«Non per me» fa lui.

«Se fosse stata astemia...»

«Sì, Sherlock, hai ragione. Peccato sia Natale, e almeno per oggi risparmiaci di spiegare in quale modo hai usato le tue capacità» mi interrompe Jane, con un sorriso beffardo.

«Prendo l'acqua» dice in fretta John, sparendo in cucina. Credo che non voglia sorbirsi un altro dei nostri battibecchi.

«Oh, Jane, sei una delle poche persone che riesce a tenere testa a Sherlock» ridacchia la signora Hudson.

«È solo pratica»

«Devi averne fatta davvero tanta, ultimamente!» dice Amanda, con fare allegro.

«Credo che questo Natale sarà più lungo del solito...» borbotto, a bassa voce.

«Sta' zitto» mi riprende John, tornando con una bottiglia di vetro piena d'acqua. «Ti serve ancora quella roba molliccia e dal colore strano che si trova in frigo?»

«Quella roba molliccia e dal colore strano si chiama fegato, e sì, mi serve ancora» rispondo, irritato.

«Hai rubato di nuovo dall'obitorio?» domanda Molly, con voce sottile. «Potrei rimetterci il lavoro! Te l'ho già spiegato milioni di volte!»

«Non sapranno mai che sono stato io»

«Oh, Sherlock! Non è igienico tenere pezzi di corpo umano insieme al cibo» mi rimprovera la signora Hudson.

«Sono entrambi commestibili»

«Dopo questa dichiarazione, inizio a pensare che voi due siate cannibali» ride Amy.

Le lancio un'occhiata torva, e, nel farlo, mi accorgo che Jane non è più seduta sulla poltrona, dove si era accomodata. Mi guardo intorno, senza riuscire a trovarla.

Non può essere andata in bagno: lo avrebbe sicuramente chiesto a me, o a John, ma la prima è assolutamente impossibile, la seconda anche, dato che lui era impegnato a parlare con noi. In cucina non avrebbe motivo di andare, quindi l'unica soluzione possibile è che sia uscita.

Mi volto verso la finestra e, scostando un lembo di tenda, la vedo sul marciapiede che si siede a terra, con la schiena attaccata al muro. Lascio il pezzo di stoffa, allontanandomi dalla finestra, prendo al volo il mio impermeabile e, senza dire niente a nessuno, scendo.

Quando apro la porta principale, un leggero e freddo soffio di vento mi accoglie nella Londra di Dicembre. Volto lo sguardo a destra e mi metto ad osservare Jane che, a sua volta, fissa il cielo con insistenza.

«Perché rimani qui?» le chiedo, alla fine.

Lei accenna ad un sorriso, senza distogliere lo sguardo. «Mi piace Londra quando nevica»

«Ma non sta nevicando» le faccio notare.

«Sono certa che tra poco lo farà» risponde, in modo semplice, stringendosi nelle spalle.

Mi siedo accanto a lei, e poi alzo anche io gli occhi al cielo, per cercare un qualche segno che possa farglielo dire con certezza. Ma niente: non una nuvola minacciosa, né un'altra qualsiasi traccia che indichi l'imminente arrivo della neve. Forse, ha sentito le previsioni del tempo in televisione.

«E come fai a dirlo?» le domando, aspettandomi una sua risposta logica.

«Lo fa tutti gli anni, a Natale. Sono certa che tra poco nevicherà» insiste.

Tutto ciò non ha senso... Jane non direbbe mai qualcosa con tanta sicurezza, senza avere prove razionali. E invece... Mi ha appena dato una risposta del tutto insensata. No, deve esserci qualcosa di più.

Inizio a frugarmi in una tasca, per prendere un pacchetto di sigarette e un accendino. Ne sfilo una dalla confezione, me la porto alle labbra e la accendo, assaporando subito il sapore di tabacco e nicotina che tanto mi era mancato.

«John non te le aveva nascoste?» mi chiede, dopo avermi visto soffiare via uno sbuffo di fumo bianco.

«Non è stato difficile trovarle» rispondo. «È il mio lavoro, cercare le cose. Ricordi?» Poi mi fermo un attimo, per tirare su un altro paio di boccate. «E poi conosco un segreto del tabacchiere dell'angolo che nessuno vorrebbe sapere. Specialmente la moglie»

Lei fa quella sua strana risata che la caratterizza, come un leitmotiv, e poi comincia a ridere in modo vero e proprio. Ed io non posso fare altro che osservarla, sorridendo divertito, sebbene questo non fosse l'effetto che desideravo ottenere in lei. Ritorno a guardare il cielo, per poi avvicinarmi di nuovo la sigaretta alle labbra.

Pensa, Sherlock, pensa: per quale assurdo motivo Jane si è messa ad aspettare la neve se, forse, neanche scenderà? Perché farlo qui, da sola, al gelo?

«Posso dare una boccata?» La sua voce rompe il silenzio della strada, il brulichio al piano di sopra e il flusso dei miei pensieri.

La guardo con un sopracciglio inarcato. «Perché? Non eri la ragazza tutta acqua e sapone che non si lascia andare a questo genere di cose?» le faccio, provocatorio.

«C'è sempre un prima volta» replica, con fermezza.

Mi blocco per fissarla, ma lei non riesce a sostenere il mio sguardo tanto a lungo. Vorrei chiederle il motivo di questo suo improvviso comportamento da "quasi-ribelle", ma credo che non ce ne sia bisogno: dopo il mio incontro con Moriarty, a Baker Street, è diventata un po' strana, quasi diversa. La risposta più logica è che voglia dimostrarmi di non aver paura di lui, e lo fa agendo in modo più acido e tagliente del solito. Tanto vale farle credere che sia così.

Le allungo la sigaretta, che lei afferra tra le dita, con insicurezza, poi prende un respiro e tira su un po' di fumo, cominciando a tossire subito dopo.

«Cavolo, come fa a piacerti questa roba?!» esclama, ridandomela.

Sorrido: non riuscirà mai a diventare più forte. «Mi aiutano a pensare» rispondo, semplicemente.

«E a cosa pensi adesso?»

I nostri occhi si scontrano all'improvviso, e mi accorgo che questa è la prima volta in tutta la serata, la prima in cui Jane riesce a tenere lo sguardo fisso sul mio.

«Sto cercando di capire la verità»

«Verità?»

«Sì, sai...» continuo, volgendo la testa verso l'alto. «Del perché sei qui»

Ed è vero: il mio cervello lavora ad una velocità pazzesca, nel tentativo di trovare una spiegazione. Ci deve essere un motivo sentimentale e privato, se è scesa senza dire niente a nessuno. Qualcosa di... Personale.

«Aspetto qualcuno...» mormora, dopo un po'.

«Non la considero una risposta»

«Fai troppe domande, Sherlock»

«Fare domande è il modo migliore per scoprire le cose»

Lei rimane per qualche secondo in silenzio, e poi borbotta un "giusto" un po' scocciato, per poi sospirare.

«Sto aspettando il mio migliore amico...» mormora, ed io, nel sentire questa risposta, mi acciglio: Jane che ha altri amici all'infuori di Amy? Amici umani, e non fatti di carta e inchiostro o, semplicemente, di fantasia? No, questa cosa non mi convince. E poi... Perché non ne ha mai fatto parola con nessuno, nonostante sia così logorroica?

«Lo so... Sembrerà strano, aspettarlo qui»

«No, non lo è» dico. «La cosa strana è che tu non ne abbia mai parlato»

Volto lo sguardo verso di lei, e la osservo mentre rifà ancora quella sua risata.

«Non mi piace parlare di lui»

«Perché no? È il tuo migliore amico, e sicuramente ci tieni. Mi sembra strano che tu non ne abbia mai fatto parola con nessuno» replico. Dopotutto, è questo quello che fanno le persone, secondo quello che ho sentito dire.

«Lo so...» dice lei, con la voce leggermente spezzata. «Solo che farebbe troppo male»

Getto la sigaretta, ormai del tutto consumata, nonostante abbia tirato su solo poche boccate, e intanto penso. Penso a Jane e al suo "migliore amico": non me ne intendo molto, di dolore e altre sensazioni, ma se ha detto che parlare di lui la fa stare male, magari hanno litigato. No, impossibile: altrimenti non starebbe qua, ad aspettarlo. Ma allora, deve essere qualcosa di simbolico. E quindi, significa che...

«Oh, no» faccio, voltandomi di nuovo verso di lei.

«Oh, sì» replica, amareggiata, mentre posa il mento sulle ginocchia.

«Mi dispiace, Jane...»

«Certo, come no. A nessuno è dispiaciuto sul serio della sua morte... Solo a me»

«Come si chiamava?»

«Dovrebbe interessarti?»

«Sto solo cercando di fare conversazione mentre aspetto la mezzanotte»

«Potresti andare da John»

«È con Amanda, io sarei di troppo» spiego, però mi rendo subito conto che potrei parlare con la signora Hudson o Molly.

Eppure, voglio scoprire qualcosa di più su questa ragazzina dal carattere chiuso e il passato nascosto, con mille paure da sopprimere. Voglio conoscere qualcosa oltre al fatto che ha un fratello a cui è molto legata, una madre uscita da un periodo di depressione, un padre menefreghista, libri e tasti di un pianoforte come rifugi e la passione di fingere sopra ad un palcoscenico. Non che tenga a lei: è solo che mi intriga la sua personalità e il suo modo di comportarsi. Solo questo.

«Billy...» riesce a dire, alla fine. «Il suo nome. Era uno dei pochi che sapesse davvero apprezzare quello che dicevo, quello che pensavo, senza mai ribattere. Dopotutto, è questo quello che vuole ognuno di noi, no? Avere ragione. Ma avere ragione era l'ultima cosa che mi interessava. Io desideravo soltanto quell'amicizia che si trova solo nei libri, quella che va oltre ogni cosa: oltre l'età, oltre la distanza, oltre l'immancabile scorrere dei giorni che tutti siamo costretti a sopportare. Con Billy l'avevo: avevo quell'amicizia in cui non si litigava mai, in cui il tempo passava troppo in fretta, in cui le giornate erano una serie di meravigliose ore passate insieme»

Noto una lacrima scenderle velocemente lungo la guancia, e lei non fa niente per scacciarla via, non ha alcuna intenzione di fermarla. Ma, per non farmi accorgere della sua presenza, nasconde il viso tra le ginocchia, continuando a parlare con voce sempre più frammentata.

«E poi il tempo me lo ha portato via, come porta via un sacco di cose. Il tempo e uno stupido branco di cani rognosi. Tutti e due insieme... Si sono coalizzati per portarmi via l'unico che sapeva farmi tornare il sorriso, quando il mondo intero mi crollava addosso»

I suoi singhiozzi spezzano il discorso, lasciandomi senza parole, e questa situazione mi dà fastidio. Addirittura mi irrita. Mi irrita non sapere come irritarla. Probabilmente neanche voglio. Non me la cavo molto bene con le persone che mostrano i propri sentimenti. Nel senso, mi capita raramente con Molly, ma quelle poche volte è per causa mia: quindi basta farle capire che sono dispiaciuto del mio comportamento, e la situazione si risolve lì. Ma ora... Jane sta piangendo per un motivo che non sono io, o le mie deduzioni, o qualcosa che ho detto. E non so proprio come farla smettere.

«Avevi Amanda»

Lei fa di nuovo quella sua strana ristata sbuffata. «Amanda...» mormora, continuando a tenere la faccia nascosta, anche se la sua voce è ritornata ferma. «È una persona fantastica, lo sai quanto me, e senza lei non sarei a Londra, a vivere quello che sto vivendo... Solo che lei non è Billy...» Poi rialza lentamente la testa, si asciuga il viso con un veloce gesto della mano e torna a guardare il cielo. «Sai meglio di me quanto sia strano l'essere umano, Sherlock. Quanto possa essere bipolare, come possa cambiare idea da un secondo all'altro, come possa essere infedele. Perché anche le persone che credono di essere leali, alla fine, tradiscono. Ma Billy no. Forse perché i cani sono davvero gli esseri più fedeli del mondo»

Le rivolgo una sfuggevole occhiata, che distolgo subito. Ha ragione: le persone non sono fatte per rimanere per sempre, riescono sempre a trovare un pretesto per andarsene. È per questo che non mi piace tanto la gente: è sempre e continuamente...

I miei pensieri si bloccano all'improvviso, quando il mio cervello riesce, infine, ad assimilare il significato delle sue ultime parole.

«No, aspetta, stiamo parlando di un cane?!» esclamo, corrugando la fronte.

«Dio mio, non dirmi che non lo avevi capito perché non ci credo» fa lei, spazientita.

«Avevo qualche sospetto, ma non pensavo fosse davvero...»

«So quello che provi, sai» mi interrompe. «Quando Mycroft ti ricorda Barbarossa con una battuta tagliente. Conosco quell'orribile sensazione di oppressione che grava su di te, ogni volta che senti il suo nome. Lo conosco, perché lo provo anche io»

Spalanco leggermente gli occhi: Jane e Mycroft si conoscono?

«Come fai a sapere di Barbarossa?» le chiedo, freddo, per tentare di eludere la mia vera domanda.

«Mycroft sa essere una vera fonte di sapere, se si sa quale tasto premere»

Alzo un angolo della bocca: mio fratello non ha punti deboli. È improbabile che glielo abbia detto senza una vera motivazione. «E tu quale tasto hai premuto?»

«Credi che lo verrò a dire proprio a te?» mi dice, ironica, per poi tornare a nascondere il viso tra le ginocchia, mentre io rivolgo la testa verso il cielo, pensando alla storia che Jane ha appena terminato di raccontarmi, e inizio a credere che noi due ci assomigliamo molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. Entrambi odiamo le persone, entrambi siamo incompresi a modo nostro, entrambi abbiamo un amico normale, entrambi abbiamo avuto un amico che ci è stato portato via. Ed è pensando a questo che, per la prima volta, vedo Jane Aldernis sotto una luce diversa: non solo come una ragazzina acida e dalla battuta sempre pronta, ma anche come una persona che ha paura di commettere un errore che potrebbe costarle caro, che non fa altro che farsi problemi paranoici. Ma ha tutte le ragioni del mondo, per sentirsi così: ha già perso troppo.

Dei leggeri batuffoli bianchi iniziano a scendere dal cielo, dondolando dolcemente.

«Jane...» dico, con voce molto smorzata. «Jane, sta nevicando!»

Lei non mi risponde, ed io non insisto, continuando ad osservare incantato i fiocchi di neve che cadono.

«Come facevi a...?»

«Gliel'ho chiesto» mi interrompe, ancora, senza che mi dia fastidio. «Prima che se ne andasse. Gli ho chiesto se poteva far nevicare, ogni Natale, così da sapere che festeggia con me, per qualche secondo»

Ecco un'altra delle sue risposte illogiche. Ma, d'altro canto, è Natale, il giorno perfetto per le risposte illogiche.

«Sai che sono solo delle coincidenze, vero?» dico, non riuscendo a trattenermi.

«Certo che lo so» replica. «Solo... Mi piace pensare che mi sia vicino in questo modo»

Alcune persone si fermano sul marciapiede, ad osservare la neve che cade, con sguardo rapito.

«Buon Natale, Sherlock» mormora, alla fine.

Ed io vorrei tanto, tanto ripeterle che il Natale è diventata una festività senza significato, e che non c'è affatto bisogno che mi faccia gli auguri. Ma non credo serva: lei è come me, quindi lo sa già.

«Buon Natale, Jane»

Rimaniamo in silenzio per parecchi minuti, fino a quando John non arriva per costringerci a salire e fare una specie di brindisi di mezzanotte.

«Non si dovrebbe fare a Capodanno?» fa Jane, sorridendo, come se non fosse mai successo niente.

«Sì, ma tanto non è un reato farlo anche a Natale»

Alzo gli occhi al cielo: quella parola, reato, mi fa venire nostalgia. Non appena metto piede nel salotto, mi accorgo che c'è qualcosa che non va, un dettaglio che mi disturba, ma John mi distrae mettendomi in mano un calice pieno di uno strano liquido dorato ed effervescente. E mentre tutti brindano e alzano i bicchieri in aria, io continuo a guardarmi intorno, per tenare di capire cosa mi stia dando fastidio.

«Cos'è quello?» domando, infine, indicando un pacco regalo poggiato sotto l'albero.

«Oh, è arrivato per posta questo pomeriggio» spiega la signora Hudson.

«Chi lo ha mandato?»

«Non lo so. Credevo fosse qualche tuo vecchio amico dell'università» continua lei. «Ho provato a chiedertelo, ma tu non hai voluto rispondermi»

Probabilmente stavo facendo qualcosa di importante, tipo cercare di non impazzire senza lavoro.

Lascio il bicchiere in mano alla prima persona che mi capita a tiro e mi lancio a prendere il pacco: ha una carta verde e rossa, a motivi astratti. Nessuna filigrana, nessun marchio, nessun timbro, nessun biglietto. Niente di niente. Straccio velocemente la carta, scoprendo una scatola in legno chiaro, piuttosto grande e pesante ma che, scuotendola, genera solo un rumore flebile. La apro e rimango assai sorpreso dal suo contenuto.

«Una... Matrioska?» fa la voce di Jane, da sopra la mia spalla.

Continuo ad osservare la piccola bambola di legno incastonata nel polistirolo, con il silenzio più totale che regna nella stanza, e poi riesco a scorgere pezzetto di carta poggiato accanto ad essa. Lo prendo con una mano, mentre con l'altra poso a terra la scatola, lo apro e leggo velocemente le poche parole scritte a macchina, con inchiostro nero.

"Non scervellarti troppo per scoprire i miei piani: ho deciso di darti dei piccoli aiuti. Ma ricorda: solo il perché ti porterà al tuo fine. Comincia facendo un passo indietro. Buon Natale, Sherlock Holmes"



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