{18° Capitolo}
[Capitolo diciotto]
Jane
Ho sempre sostenuto che il silenzio sia meraviglioso: sa dire tutto senza dire niente. Eppure, adesso, lo odio.
Tamburello con le dita sul volante, in attesa non so neanche io di cosa. Forse aspetto solo che Holmes parli, perché io non ho alcuna intenzione di rompere lo strato di ghiaccio che ci divide.
«Tre anni?» ripete, alla fine.
«Tre anni» confermo. «Però non posso lamentarmi di essere stata piccola quando è successo. Almeno non ho nessun ricordo, bello o brutto che possa essere. Ma, purtroppo, ricordo tutto quello che ha causato andandosene, ed è per questo che lo odio»
E poi di nuovo silenzio.
«A questo punto dovrei dire qualcosa di gentile e compassionevole» mormora. «Però no, non ci riesco»
«Dovrei arrabbiarmi?» dico, con una risatina di sfida.
«Di solito lo fai»
«Non è vero»
«Vedi che ti stai arrabbiando?» fa lui, sorridendo soddisfatto.
«Non sono arrabbiata» ribatto.
«Forse hai ragione» dice, pensieroso. «Sei irritata, e questo è il primo stadio dell'arrabbiatura»
Distolgo gli occhi dalla strada per un secondo, guardo Holmes, e poi li riporto davanti a me. «Idiota» borbotto, scuotendo la testa.
Con la coda dell'occhio, noto che quel suo sorrisetto beffardo non vuole saperne di sparire dalla sua faccia. «Comunque, non hai risposto alla mia domanda»
«Quale domanda?» faccio io.
«Perché tuo padre ti ha abbandonata?»
«Hai detto che volevi scoprirlo da solo»
«Era una domanda indiretta» sbuffa lui.
«Visto che sei tanto bravo, deducilo, no?»
«Vorrei, ma non posso, dato che neanche tu lo sai» risponde, senza un minimo di irritazione. «Probabilmente tua madre ha sempre omesso questa parte di verità per la solita storia del "non voglio che soffra" eccetera» Si ferma, forse per pensare, forse per farmi gravare addosso il peso delle sue parole. «Prima che tu lo dica, io non sono un indovino che utilizza le carte per capire cosa pensa la gente» dice, disgustato. «Semplicemente, leggo le persone. E, dato che tu non sai il motivo per cui sei cresciuta senza un padre, di conseguenza non posso leggere dai tuoi comportamenti e i tuoi commenti indizi che possano portarmi ad una conclusione»
Penso. Penso a come rispondere, penso a come farlo senza prenderlo a parolacce. Penso al motivo per cui sono cresciuta senza una classica famiglia felice.
«Io credo che mia madre abbia fatto la cosa giusta, altrimenti avrei avuto un motivo in più o in meno per odiare quell'uomo che dovrei chiamare "padre"» dico.
«Oppure, semplicemente, non poteva dirtelo perché farlo avrebbe solo peggiorato la sua depressione»
Inchiodo all'improvviso, senza neanche rendermene conto. Gli occhi sbarrati, le mani sul volante che tremano e la testa nel buio più nero.
«Ma sei impazzita?!» urla Holmes, che ho fatto balzare in avanti. Fortuna che aveva la cintura...
Gli punto lo sguardo addosso, non curandomi dei clacson della gente in coda dietro di me. «Chi te l'ha detto?»
«Datti una mossa, che stanno suonando» risponde, accennando con il capo alle sue spalle e ignorando completamente la mia domanda.
«Dimmi chi cazzo te lo ha detto!» urlo.
«L'ho intuito!» grida a sua volta lui. «Questo non era difficile, si capiva facilmente»
Serro la mascella, spingo sull'acceleratore e continuo il tragitto, guidata dal GPS in maniera meccanica, senza parlare, ma solo con un nuovo peso che avevo sperato di dimenticare.
«Ho notato che ti senti sempre in colpa, anche quando non c'entri niente» spiega poi, con il suo solito tono freddo. «Tendi ad accontentare le persone, come se temessi di offenderle oppure che si allontanino da te» Si ferma di nuovo, ed io ringrazio mentalmente ogni Santo del Paradiso per averlo fatto smettere. Ma non ha finito qui. «Credi di essere forte, ma non lo sei, perché i ricordi ti ritornano in testa spessissimo, e tu non sai come mandarli via»
«Okay, adesso smettila» ringhio. «Questa roba non c'entra niente con la depressione di mia madre»
«Invece ha influito molto sul tuo carattere, e infatti eccoti qui, più acida e insicura persino della tua amica Amanda»
Inchiodo di nuovo. «Scendi» gli ordino.
«Come?»
«Scendi, sei arrivato»
Mi fissa, piegando la testa da un lato, con gli occhi stretti in due fessure. Poi fa come gli ho detto e si affaccia al finestrino che ha abbassato prima. «Tu non vieni?»
«Preferirei essere sepolta viva, piuttosto»
«Sei bipolare. Lo sai, vero?»
«Chissà» faccio. «Sarà uno degli effetti della depressione di mia madre»
Sgommo via, lasciando quella sottospecie di essere umano sul marciapiede. E allora sì che posso lasciarmi andare ai ricordi, allora sì che posso imprecare contro ogni maledetta persona che non capisce quanto sia stata schifosa la mia infanzia, allora sì che posso piangere senza che nessuno mi dica di non farlo. Forse, è per questo che me ne sono andata da Nottingham, appena ne ho avuto l'occasione: la mia cittadina mi faceva tornare in mente troppe cose, troppi cattivi ricordi. Ed è anche per questo che io non parlo mai di me stessa e del mio passato, che sono così strana, lunatica e acida con alcune persone. È per questo che detesto fare nuove conoscenze, anche se non lo do a vedere: non voglio affezionarmi troppo alle persone che, sicuramente, prima o poi se ne andranno. È per questo che credo poco nell'amore, perché vedere mia madre che soffriva così per la persona che diceva di amare, mi faceva credere che farlo fosse troppo doloroso. Ed io, di dolore, ne avevo abbastanza.
Senza accorgermene, dopo minuti di svolte quasi meccaniche delle mie mani sul volante, sono tornata in Baker Street. Fermo la macchina e mi appoggio allo schienale, porto lo sguardo verso l'alto e lascio che due lacrime mi scivolino sulle guance, ora che nessuno può vedere il mio lato debole, ora che nessuno può vedere come sono veramente. Non sono mai stata abituata a combattere, non ne sono capace. Credo di non esserlo mai stata in vita mia...
Mi asciugo gli occhi velocemente e sospiro: a che servirebbe rimanere qui, in questa macchina, a piangere? Tanto vale salire e continuare a studiare per il test d'ingresso dell'università, ad andare avanti con la mia vita e lasciar perdere il mio passato.
Lancio uno sguardo all'orario sul cruscotto: undici meno cinque. Amanda sarà qui a momenti.
Amanda...
«Oh, Dio!» esclamo, portandomi una mano in fronte.
Ho ricordato solo ora di dover avvertire John! E anche Alan! E io come affronto mio fratello, ora? Già è un miracolo che non si sia intromesso in quello che stavo facendo, adesso che non gli ho inviato neanche un messaggio, sarà preoccupato da morire... E incavolato nero.
Mi passo una mano sulla tasca dei jeans per prendere il cellulare: non c'è. Guardo nell'altra tasca, ma niente. Provo in quelle del giacchetto, ma anche lì, non lo trovo. Inizio a cercare nell'auto, sotto ai sedili, ma non c'è.
'Cavolo, ho perso il cellulare!' Prendo un altro respiro 'Calmati, Jane'
Di sicuro sarà all'ospedale, è l'unico posto dove sono andata. Imposto la destinazione sul GPS e metto in moto l'auto.
Eppure è strano... Ero sicura di averlo, quando sono uscita dal laboratorio... Forse mi sarà caduto mentre ero seduta accanto alla porta... Ammetto di essere abbastanza confusa...
Mi fermo ad un semaforo, sotto ad un castagno dalle foglie ingiallite. Accenno appena un sorriso, prima di ripartire: ricordo che, quando ero piccola, andavo sempre al parco con Amy a rotolarmi sulle foglie cadute dei castagni, a settembre. Credo sia uno dei pochi ricordi felici che ho, di quando avevo sei o sette anni. Il resto sono solo una serie di immagini sfocate: mia madre a letto, mio fratello che mi accompagnava a scuola, le giornate piovose, che rispecchiavano la tempesta che avevo dentro. E tutti quei bambini felici, che correvano tra le braccia del proprio padre dopo le lezioni. Con me, non si è mai vista una scena simile. Di solito, lo facevo con mio fratello: mi fiondavo ad abbracciare lui, era tra le sue braccia che mi sentivo davvero protetta. A lui portavo sempre i lavoretti per la festa del papà, a lui facevo i disegni. E, di sicuro, è stato migliore di qualsiasi altro padre.
Parcheggio davanti al marciapiede e scendo, chiudo l'auto e mi dirigo a testa bassa verso l'entrata. Dopo aver preso l'ascensore, pigio il tasto che porta al piano di sotto e aspetto. Le porte si aprono, facendomi spazio verso il corridoio dalle pareti di un bianco asettico. Inizio a percorrerlo, con sguardo attento al pavimento, facendo attenzione a quello che vedo.
«Oh, ciao Jane»
Alzo lo sguardo, incontrando il sorriso timido di Molly. «Oh, ciao»
«Cosa ci fai qui?»
«Ehm... Io... Stavo cercando il mio cellulare» balbetto. «Credevo di averlo perso qua, ma a quanto pare non c'è» continuo, con una risata imbarazzata.
«Ah» fa lei. «Beh, io non l'ho visto, ma se lo trovo posso darlo a Sherlock e lui potrà fartelo riavere»
'Sempre se prima non lo disseziona' penso.
«Grazie Molly» le dico. «Scusa se ti ho disturbato»
«Nient'affatto, è un piacere» risponde la ragazza, con un sorriso.
Rimaniamo a fissarci per un po', e mi accorgo solo adesso che tiene tra le braccia numerose cartelle dall'aria pesante.
«Oh, lascia: ti do una mano» faccio, prendendone alcune.
«Grazie» fa lei, rivolgendomi di nuovo un sorriso di gratitudine.
Entro nel laboratorio e poso tutto sul tavolo al centro della stanza. «A che ti serve questa roba?»
«Il campione che mi ha dato Sherlock contiene tracce di un'altra sostanza, che non è sangue» spiega. «Devo cercare di capire cos'è»
«E ti servono tutte?» chiedo, indicando le cartelle.
«Non è affatto facile avere la sua memoria, sai?» ride lei. «È l'unico in grado di sapere in quale parte di Londra sei stata solo vedendo il terriccio che hai sulle scarpe»
«Sembra davvero un tipo geniale...» borbotto.
«Lo è» risponde. «Non farti ingannare dal suo comportamento tanto... Infantile. Lo fa con tutti. Semplicemente, è fatto così: si diverte ad irritare la gente e vederla arrabbiarsi, in particolare se lo fanno per cose che a lui sembrano stupide»
Inarco le sopracciglia. «Sul serio?»
Annuisce. «Ma, credimi, con lui non ci si annoia mai»
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