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Capitolo 2: "Fatica e aiuto"

12 Marzo 1941
«In piedi! Su!» gridò una voce cavernosa.«Vi sveglierete ogni giorno alle tre del mattino e potrete andare a letto a riposarvi solo alle undici di sera!»
Leah si svegliò del tutto e saltò giù dal letto, per non far adirare il Rospo.
Le altre fecero lo stesso, guidate anche loro dalla sensazione che non avrebbero dovuto mai ritardare.

Camminando arrivarono in uno spiazzo, dove ragazzini, maschi e femmine, mescolavano e facevano l'impasto per i mattoni.
Non erano sotto un tetto, ma sotto il cielo stellato.
"Quando sorgerà il sole si morirà di caldo" constatò preoccupata la giovane ragazza. "Per fortuna ora è quasi freddo."

«Voi donne, con quegli arnesi darete la forma ai mattoni. Alle una di pomeriggio potrete mangiare, poi continuerete fino a sera.» i suoi pensieri furono interrotti dalla voce del soldato. Annuì come le altre.

Per ogni donna c'era una postazione, se così si poteva definirla. Ognuna si sedeva sulla sua; davanti aveva una specie di telaio di legno, che serviva a dare la forma classica del mattone; dopo bisognava portarlo nel forno lì vicino, dove cuoceva ed usciva pronto per l'uso.

* * *

Erano ore che Leah lavorava. Il sole era sorto da un pezzo, e tutte stavano sudando per la fatica. Come volevasi dimostrare, era un inferno di calore, soprattutto ora che doveva essere, ad occhio e croce, passato mezzogiorno.
L'ebrea era distrutta. Era per di più di corporatura magra, gracile, e poi aveva solo diciassette anni, insomma, non era abituata a lavori così estenuanti.
"Come farò a resistere fino a sera?" si domandò preoccupata, e si stava quasi per mettere a piangere dalla disperazione e dalla fatica.
"Non ce la faccio davvero più, ma sono certa che se smetto di lavorare un secondo questi mi fucilano" pensò ancora mentre il suo mattone nel forno grazie ad una grande pala di metallo.
Poi, finalmente, si sentì il Rospo gridare bruscamente «Stop! Potete andare a mangiare!»
Il volto sporco di Leah si aprì in un sorriso.

Seguendo il soldato, Leah ritrovò in fila davanti ad un tavolo, dove un tedesco non molto magro serviva il pasto.
La ragazza si sentiva smarrita: tutti gli ebrei si spingevano per essere tra gli ultimi a prendere il loro cibo. Non capiva il perché, e non osava parlare per paura di una punizione. Dato che non faceva come tutti gli altri, fu spinta avanti dagli stessi, e quindi andò per prima.
Sbirciò nel pentolone che era tra le mani del tedesco e capì. Capì anche di essere stata una stupida: il cibo era una sottospecie di minestra di rape e patate, che si accumulavano sul fondo, quindi i primi a mangiare prendevano in sostanza acqua.
"Fantastico. Posso anche non mangiare, per quanto possa sfamarmi questa roba. Sono una scema" si disse.
Un soldato lì vicino si accorse della sua espressione sgomenta, e ghignò divertito.
Leah prese il suo piatto e se andò via, nascondendo il viso con i lunghi capelli, dirigendosi dove poteva "mangiare".
Le era scesa qualche lacrima, ma non voleva mostrarlo, per questo era andata via quasi di corsa, e si era coperta il viso.
"Se dopo appena un giorno vorrei già essere morta non durerò molto di certo" sospirò asciugandosi le lacrime. Guardò con disgusto il cibo, poi iniziò a mandarlo giù.
Dopo pochi minuti un soldato che non aveva ancora visto, gridò di tornare al lavoro.
"Come se fossimo sordi. Ma devono sempre gridare per forza?" si chiese irritata.

* * *

Era sera inoltrata, e presto Leah avrebbe finito il suo primo giorno di lavoro a tutti gli effetti. Era davvero stanchissima, non aveva dubbi che quella notte sarebbe riuscita a dormire.
Le braccia bruciavano, del resto non si erano praticamente mai fermate per tutto il giorno, e anche le gambe erano messe male.
Ma quella che stava peggio era sicuramente la mente. Leah ogni volta che vedeva un tedesco aveva l'irrefrenabile desiderio di saltargli addosso per ammazzarlo e l'indomabile paura di scappare via.
Era confusa, spaventata, arrabbiata, aveva fame, mal di testa per aver sentito per tutto il giorno sempre le stesse parole dei soldati, gli stessi rumori. Insomma, non era mai stata peggio.
«Potete andare a riposarvi» la voce del militare le apparve come un miracolo che pensava non avrebbe mai sentito.

Camminando velocemente, come tutte, raggiunse il dormitorio. Si gettò subito sul letto, esausta.

POV Amos
Stavo mangiando un piatto di carne davvero deliziosa, ma non mi andava giù, avevo un blocco allo stomaco.
Allora di pranzo ero sempre nella mia stanza, e guardando nel cortile avevo visto che la Ragazza-dalle-lunghe-trecce era stata mandata per prima e non aveva mangiato nulla, se non un po' d'acqua appena saporita. Osservai poi il mio piatto, ricolmo di prelibatezze, e decisi.
Presi dal tavolo un tovagliolo di carta, e lo riempii di carne, poi, stando attento a non fare rumore, uscii dalla stanza. Essa era al secondo piano dell'edificio, così dovetti fare anche le scale.
Mi diressi, stando attento ad evitare le guardie, al dormitorio femminile.
Silenziosamente cercai al numero 35. La vidi lì, che dormiva, un'espressione corrucciata sul volto. Faceva tenerezza.
Le toccai una spalla, e lei si svegliò di colpo, sbarrando gli occhi e aprendo la bocca per urlare, ma io fui più svelto e gliela coprii con una mano.
«Shh! Non vorrai farti scoprire? Ora ti tolgo la mano dalla bocca, ma non devi urlare, d'accordo? Non voglio farti del male» sussurrai.
La ragazza annuì, gli occhi grandi di paura.
Piano sollevai la mano. Non gridò, ma disse piano «C-Cosa vuoi farmi? Cosa vuoi?»
«Prima dimmi il tuo nome.»
«L-Leah»
«Bene. Oggi ho visto che non conoscevi il trucco della zuppa, se così si può chiamare, comunque in pratica ho visto che non hai mangiato.» spiegaii tirando fuori dalla tasca il tovagliolo «Perciò ho pensato che ti avrebbe fatto piacere della carne »
Leah guardò famelica il cibo, ma poi mi guardò dura «Pensi che accetterò il tuo cibo? Pensi che mangerei quello che mi porge un bastardo come te?» sibilò.
Quelle parole mi ferirono, ma sapevo che aveva ragione.
«Io non sto con Hitler» mi difesi.
«Ah no? Ovvio, fai parte del suo esercito!»
«Sono stato costretto.»strinsi i denti, addolorato.
«Se davvero non fossi d'accordo con lui, avrei fatto di tutto per non aiutarlo» ribatté senza pietà.
«Basta!» non mi piaceva quando mi dicevano cose che sapevo già, e che cercavo di ignorare perché troppo brutte «Hai ragione, ma ... Ma... Beh, se avrai fame, io ogni sera verrò. Non mi piace vedere la gente soffrire.» detto questo mi girai e tornai verso l'entrata del dormitorio. Poi, senza voltarmi, aggiunsi «Il mio nome è Amos»
Tornai a camminare, sentendo il suo sguardo perforarmi le spalle.

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