L'equilibrio
Quando Elphias entrò nel grande studio, lo zio Alfred era seduto dietro la scrivania di noce scuro; tutto era scuro lì dentro: la moquette, le tende spesse, gli scaffali sulle pareti, le poltrone di cuoio, persino la pelle dello zio era scura, quasi quanto i suoi occhi.
Elphias aveva provato più volte a fissarli per distinguere una qualunque luce, ma non trovava altro che buio. Fece qualche passo verso il vecchio, che aveva il mento poggiato sulle mani raggrinzite dal tempo, posò la valigetta accanto a una delle sedie che lo accolse scricchiolando.
«Devi partire, Elphias.»
L'uomo sorrise: «Immaginavo mi avessi chiamato per questo motivo.»
«La bilancia è tarata?» Conosceva già la risposta, ma doveva comunque chiederglielo. L'altro infatti annuì. «Bene,» Alfred posò le mani sulla scrivania e il busto allo schienale, «c'è troppa sofferenza a questo mondo, dobbiamo ristabilire l'equilibrio.»
Elphias si alzò afferrando la valigetta e partì immediatamente, come l'urgenza della situazione richiedeva.
L'uomo stava viaggiando da qualche ora quando sul ciglio della strada sterrata vide un bambino con le ginocchia sbucciate e il volto sporco di polvere; si avvicinò e si accorse che stava piangendo, strofinandosi gli occhi e spalancando la bocca a mostrare le piccole perle bianche che erano i suoi dentini.
«Perché piangi, piccolo?»
Il bambino provò a rispondere tra i singhiozzi, senza nemmeno guardarlo, fissava davanti a sé e piangeva e parlava: «Il... mio... cane... Il mio... cane... è scappato!» E giù altre lacrime.
Elphias rimase colpito dall'intensità dei sentimenti del bambino; si chinò, poggiò la valigetta per terra e la aprì.
Il piccolino fu catturato da quell'armeggiare e si distrasse dal suo pianto, seguendo i movimenti del viandante: nella valigia c'era una bilancia a due piatti, fatta di un materiale opaco e pieno di graffi.
«È una bilancia?» chiese curioso.
L'uomo la estrasse e la posizionò davanti ai suoi piedi, annuendo.
«A che serve?»
Elphias distese le catenelle, lasciando che la gravità facesse il suo dovere: i piatti, vuoti, erano in perfetto equilibrio. «Guarda in questo piatto, per favore» gli disse indicandogli quello sulla destra.
Il bambino era incuriosito, così si avvicinò e guardò all'interno, senza però vedere nient'altro che il riflesso di se stesso.
Poi a un certo punto comparvero immagini del suo Ares, il suo fedele compagno di giochi: si rincorrevano nell'aia, ruzzolavano nei campi, Ares gli riportava indietro bastoni lanciati per divertimento.
Le lacrime ricominciarono a cadere, una dopo l'altra, dagli occhi del bambino dritti nel piatto della bilancia, che pian piano scendeva verso il basso, avvicinandosi lentamente al terreno.
«Su, calmati» gli disse Elphias accarezzandogli la schiena «Vedrai che ritroverai il tuo Ares.»
Il bambino sollevò lo sguardo speranzoso: «Davvero?»
«Sì, guarda in questo piatto.» L'uomo lo esortò a guardare dall'altra parte della bilancia, ma come era avvenuto poco prima, all'inizio non successe niente; dopo invece il bambino vide Ares correre incontro alla sua casa e grattare con le zampe anteriori sulla porta di ingresso; vide se stesso aprire quella porta e abbracciarlo forte.
Un grande sorriso gli si dipinse in volto e il suo riflesso andò a posarsi sul piatto sinistro della bilancia, andando a compensare quello delle lacrime, fino addirittura a superarlo di livello.
Il piccolino si consolò, ormai non vedeva l'ora di vivere quel momento che aveva forse sognato guardando in quella strana bilancia.
La luna era ormai alta nel cielo, il paese immerso nel silenzio del sonno; solo i passi di Elphias risuonavano sull'acciottolato, mentre si dirigeva dritto verso una capanna di fango e paglia.
Sollevò la tenda che divideva l'esterno dall'interno, chinò il capo per superare l'uscio e si ritrovò in una stanzetta angusta con un camino che non veniva acceso da chissà quanto tempo e un pagliericcio in un angolo che ospitava un vecchio dal respiro affannato.
Elphias posò la valigetta accanto al malato, che non sembrò sorprendersi di quella strana presenza.
«Mi aspettavi?» Gli chiese incuriosito.
Scosse il capo impercettibilmente «Non sapevo se ti avrei mai incontrato.»
«Hai sofferto molto nella tua lunga vita. Sono qui per alleviare il tuo dolore.»
Il vecchio sorrise e chiuse gli occhi in attesa che il viandante posizionasse la sua bilancia sul pavimento umido.
«Guarda nel piatto di destra, per favore.»
L'ammalato provò a sollevarsi con fatica, tanto che Elphias dovette aiutarlo per guidarlo nella giusta posizione.
Il riflesso di mille rughe venne accolto da altrettanti graffi sul metallo, fino a trasformarsi poi in decine e decine di immagini della vita del vecchio: la violenza del padre, la guerra, la morte della moglie prima e del figlio poi, il raccolto distrutto, ogni goccia di sudore versata per il duro lavoro nei campi, ogni sofferenza patita, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Ma il vecchio sorrideva, a ogni immagine sorrideva e il riflesso dei suoi sorrisi, benché malinconici, andava ad accumularsi nel piatto della sofferenza.
Elphias rimase sorpreso quando vide la catenella afflosciarsi, quasi fosse liquida.
«Qualcosa non va?» gli chiese il vecchio incuriosito.
«Avrei dovuto raccogliere la tua sofferenza e darti sollievo, ma tu sorridi» spiegò.
«Da mio padre ho capito ciò che non volevo diventare; grazie alla guerra ho imparato l'importanza della pace; ho avuto la fortuna di amare un figlio e una moglie e di essere amato da loro; i campi ci hanno sfamato quando potevano... Ciò che ho vissuto, benché doloroso, mi ha permesso di essere l'uomo che sono.»
«Cosa posso fare allora per te?»
«Ciò che sei venuto a fare: alleviare le mie sofferenze.» Con i gesti, il vecchio gli chiese aiuto per guardare nel piatto di sinistra: il volto malato si specchiò nel metallo prima e in una pozza di lacrime poco dopo.
Il piatto sulla sinistra scese inesorabilmente verso il terreno, facendo sollevare il braccio dall'altra parte della bilancia.
Pianse, il vecchio, pianse tutte le lacrime che non aveva mai versato in vita sua.
E poi morì.
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