Apōkalýpsis éschaton
Non c'è posto sulla Terra che si salvi, piove da mesi: il Diluvio Universale era un acquazzone primaverile in confronto a ciò che si sta verificando ovunque.
Il cielo è grigio da così tanto tempo, che gli uomini hanno dimenticato cosa siano i colori, hanno scordato il calore del sole e, insieme a questi ricordi, hanno perso anche la speranza che si possa tornare alla normalità.
A Roma il Colosseo sembra un'enorme piscina, ma in mezzo al mare; a New York la Statua della Libertà sembra ironicamente intenta a chiedere aiuto a un ipotetico bagnino; la cupola più grande del Taj Mahal assomiglia a una grande boa bianca.
Non c'è più niente se non acqua, ovunque, e la pioggia incessante che continua a far alzare il livello: delle maree, di mortalità, di disperazione.
Le piante sono scomparse, le foreste sommerse, i destini segnati.
Le comunicazioni sono interrotte da tempo, anche se a volte si captano segnali radio disturbati, che rimbalzano la paura da una parte all'altra del globo.
Sei riuscito a raggiungere una caletta; toccando, senti la ruvida pietra naturale sotto le dita mollicce: il canyon deve essere sotto di te e speri di aver calcolato bene il percorso.
Prendi i picchetti e il martello per fissare la barca alla roccia, anche se, col vento forte che tira, hai il presentimento che non la ritroverai al tuo ritorno.
Indossi l'imbracatura e stringi le cinghie, ti assicuri che tutto tenga e speri che la cima sia sufficiente.
Ti guardi intorno e non c'è nessuno a cui raccontare ciò che stai per fare, o almeno che stai per tentare. Così ti rivolgi al cielo, perché credi che non possa esistere un'entità nel profondo di quegli abissi che abbia pietà di ascoltare le tue preghiere. Ma dall'alto continua ad arrivarti solo la pioggia.
Ti alzi in piedi, oscillando per mantenere l'equilibrio sulle assi ormai fradice, prendi un respiro profondo, poi un altro e per ultimo uno più breve, perché i tuoi polmoni ora sono pieni.
Il tuffo è rapido e sprofondi velocemente, poi cominci a spingere con gli addominali, con le gambe, ruoti le braccia per scendere sempre di più.
È tutto così buio, così maledettamente buio, che ti dai dello stupido, perché hai pensato a tutto, ma non a una torcia.
I suoni sono scomparsi quasi del tutto, le orecchie sono otturate; continui a spingere e ti rendi conto di aver calcolato male i tempi: il petto comincia a bruciare e piccole bolle d'aria sfuggono dalle labbra.
Ti maledici ancora una volta, ma l'istinto di sopravvivenza ha la meglio e ti ritrovi, senza nemmeno accorgertene, a risalire verso la superficie.
Spalanchi la bocca per prendere aria, ma l'acqua ti investe da tutte le direzioni, le onde sono caotiche e imprevedibili, le gocce di pioggia grandi come noccioli di ciliegie... Chiudi gli occhi un momento e l'acqua delle tue lacrime si aggiunge a tutto il resto, nel momento in cui ricordi il sapore di quel frutto delizioso.
È la spinta che ti serve, la molla che ti ha condotto fino a lì: vuoi che tutto torni come prima, vuoi assaporare ancora una ciliegia, vuoi poterti stendere su un prato, vuoi un pezzo di terra emerso.
Non sarà facile, non sarà veloce, ma credi ancora che sarà possibile.
Stai mantenendo gli sforzi per restare a galla, ma respiri una volta, due, tre, e con l'aria inspiri anche voglia di vita.
Ti torci su te stesso e in un attimo sei di nuovo sott'acqua, spingi, remi con le braccia, batti i piedi, sentendo la resistenza del fluido contro cui stai lottando.
È buio, sì, ma sai che dovrai seguire solo una direzione: il basso.
Scendi più veloce che puoi, dosi ogni più piccolo respiro, finché finalmente le tue dita sbattono contro il terreno melmoso.
Il tuo sorriso illumina l'abisso.
Continui a tastare freneticamente in ogni direzione, non c'è più tempo da perdere, per te e per l'umanità.
Poi a un tratto lo senti, qualcosa di liscio e freddo, ne segui i contorni e non ti pare vero: invece è lì, proprio nel punto che avevi calcolato.
Con mani tremanti per il freddo, la fretta, la paura, te la avvolgi attorno al busto e cominci finalmente la tua risalita, verso la superficie, verso l'aria, verso un mondo nuovo.
Nuoti più in fretta che puoi, anche se il peso del ferro ti rallenta i movimenti, tu nuoti, finché uno strattone improvviso quasi ti mozza il fiato.
Una bolla d'aria, grande quanto il tuo pugno, continua la sua ascesa, lasciandoti indietro.
Digrigni i denti senza rassegnarti. No, non ora! Non adesso che cominci a intravedere la superficie increspata dalle onde e dalla pioggia.
Tiri, con tutte le tue forze. Tiri. Nuoti con le gambe, afferri la catena attorcigliandola anche agli avambracci e tiri, tiri ancora. E ti accorgi che le tue orecchie hanno sentito il tuo urlo rimbombare nelle profondità.
Poi tutto accade quasi a rallentatore: la senti prima come una lieve corrente, ti accorgi di alcuni detriti che fluttuano in un'unica direzione; poi la forza che ti attrae di nuovo verso il fondo è più possente, più imperativa, ma tu a questo, per fortuna, avevi pensato. Così lasci finalmente andare quel macigno e ti volti ad aggrappare la cima.
La corrente ora è forte e vieni sfiorato da chissà cosa. Il pericolo lo riconosci con l'istinto: la probabilità che la corda possa essere tranciata di netto da un oggetto di passaggio è alta.
Devi fare in fretta, ancora una volta.
Non è solo l'aria che ti manca, è anche il tempo.
Nuoti e ti trascini allo stesso tempo, combattendo contro la resistenza dell'acqua, ma finalmente sei di nuovo fuori e, anche se la pioggia ti accoglie di nuovo, ad attenderti c'è l'aria e, con essa, i rumori.
Annaspi fino alla roccia alla quale ti sei fissato e, respirando freneticamente, osservi lo scenario attorno a te: tutto viene trascinato via, ruotando inesorabilmente verso il centro del vortice che hai creato nel momento in cui hai tolto il tappo.
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