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Lilla

Capitolo 41

Giorno e notte ho pregato che qualcuno arrivasse a zittire quella voce nella testa che mi porta tuttora verso la gola dell'oblio:
Per quanto urlassi nessuno si è mai presentato
Kappa

«Caleb», soffiai il suo nome pur non avendo un briciolo di ossigeno nei polmoni. Pur non volendo credere a nulla di ciò che si susseguiva nella mia testa.

«Dobbiamo andare! Subito!» mi ghermì per il braccio Dean correndo lungo il sentiero del parco verso la macchina come un pazzo. La sua presa era ferrea, ero sicura che il giorno dopo mi sarebbero nati dei lividi, ma non mi soffermai sul dolore alle ossa.

Mi pizzicavano gli occhi, il corpo era rigido, sembrava non appartenere a me, le mie gambe si muovevano come se avessero una volontà propria correndo lungo il sentiero del parco per raggiungere la macchina.

Tutto ciò che riuscivo a pensare era Caleb. Caleb stava bene. Caleb non... Caleb era...
No, no, no!
«No!», Esclamai in trance correndo con Dean lungo il sentiero. Le lacrime scesero copiose impedendomi di vedere ma strinsi i denti tanto da avere dolore alla mandibola. Avevo i groppi in gola, uno più grosso dell'altro che mi impediva di poter trarre un respiro profondo, mentre sentivo Dean imprecare, urlare, abbaiare davanti a me.

Arrivammo alla macchina, e montammo su, senza nemmeno indossare le cinture di sicurezza Dean partii sgommando, in un secondo momento notai tutte le persone uscire fuori dal ristorante confusi osservando verso la collina. Subito dopo, diverse macchine dei pompieri e la polizia sfrecciarono a gran velocità verso la casa di Caleb.

«Merda! Merda! Merda Caleb! Dove sei! Maledetto!» urlò agitato Dean prendendo a pugni il volante e con l'altra mano continuava a telefonare al suo migliore amico. Ogni chiamata veniva messa giù come se non esistesse un numero. Gliel'ho presi continuando a telefonargli con le mani tremanti. "Rispondi. Ti supplico rispondi Caleb".

L'ambulanza ci oltrepassò con le sirene spiegate le luci blu illuminavano la strada, ogni macchina si fermò per farle passare erano due una dietro l'altra, il mio cuore si strinse bruciandomi ogni atomo nel corpo.

«Cosa ti ha detto al telefono?», gli chiesi con voce titubante. Dean non rispose, ma si prese una ciocca di capelli con la mano libera stringendola forte. «Cazzo Dean! Dimmi che cosa ti ha detto al telefono prima che io impazzisca! Dimmelo!», ruggii fuori di testa. Mi tremavano le mani, costringevo i miei polmoni di permettermi a prendere una boccata d'aria. La gamba mi tremava convulsamente, poggiai una mano per fermare il tremore. Ero fuori di testa. Un fascio di nervi, un urlo silenzioso mi attraversava il petto. Strinsi i denti.

«Ha detto che... qualcuno è entrato in casa sua e se ero lontano da lì. Quando stavamo... poi cadde la linea». Deglutii, non volevo pensare a cosa significavano quelle parole. Io...

Ci stavamo avvicinando, il sedile della sua auto mi sembrava fatta di lava che ad ogni secondo mi bruciava la pelle, volevo scendere, volevo andare a prendere a sberle Caleb che sicuramente era insieme alla polizia e ai pompieri per averci fatto prendere un colpo del genere.

«Era fuori?» chiesi con voce un pochino più ferma mente ogni parte di me, voleva lasciare libero accesso all'isteria. Sentivo che stavo per morire. Un dolore nuovo mi strinse il petto bruciandomi come si brucia la polvere da sparo. Velocemente e istantaneamente.

Dean non mi stava rispondendo. Tirai un pugno al cruscotto agitandomi. Il dolore mi si riverbero lungo le nocche fino alla spalla. Nel cuore avevo una pietra enorme, mi doleva tutto, ero fuori di testa, ma non mi permisi di pensare al peggio. Non c'era tempo e spazio per pensare all'impensabile .

«Dimmi che era fuori! Dimmelo!» ma Dean non riusciva ad esprimersi, continuava a deglutire, come se non avesse la facoltà di emettere suono.

Il suo cellulare iniziò a suonare all'improvviso mille messaggi gli arrivarono allo stesso tempo, ma ormai avevamo raggiunto le file di macchine di polizia e i pompieri.

Il fuoco era in eruzione, le fiamme si levavano altissime, tanto che i pompieri erano in grande difficoltà a spegnerli. La casa del mio nemico era un orrore, fiamme altissime si elevavano nel cielo senza stelle, il fumo nero si disperdeva all'aria, era la scena di un incendio terribile.

La reggia bianca e fiera che c'era stata un tempo sembrava un rustico orribile inghiottito dalle lingue di fuoco, il terzo piano era completamente esploso portando detriti dappertutto. Sia nel primo che nel secondo piano regnavano sovrane le fiamme che fuoriuscivano dal soffitto senza tetto e dalle finestre esplose.

La porta al primo piano non c'era più, la piscina alla destra era distrutta, l'acqua si era depositata tutto attorno al giardino immerso nelle braccia della notte, pezzi di cemento si erano sparsi tutto attorno al prato, il cancello era sfracellato come se qualcuno l'avesse abbattuto con un carro armato. Sgranai gli occhi che mi si seccarono e bruciarono dallo sforzo di essere rimasta imbambolata.

Ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla scena terribile che avevo di fronte. Dean mi sprono per la spalla e iniziammo a camminare, sentivo le ginocchia tremare, ma strinsi forte le mani a pugni avanzando fino ai poliziotti poco più distanti che si voltarono a guardarci.
«Non potete oltrepassare la linea della demarcazione. Andatevene a casa, questa è la scena di un crimine» disse quello spilungone avanzando verso di noi.

«Questa è la casa del mio migliore amico. Prova a impedircelo» rispose Dean. Dalla voce traspariva un tale senso di sicurezza.
I due poliziotti si avvicinarono, gli sguardi torvi. Uno di loro mise la mano sul petto di Dean quando prese ad avanzare impedendogli di procedere oltre, l'altro lo trattenne per il braccio, ma Dean sembrava implacabile come un vero giocatore di basket schivo i primi due poi si imbatté con i quattro poliziotti un po' più avanti che avevano sentito le imprecazioni dei loro compagni.

«Fermo! Dove credi di andare?» gli disse uno, era più grosso dei due precedenti, aveva un corpo ampio, spalle larghe, si parò di fronte a Dean. Il mio amico tentò di oltrepassare ma poi un'altra dozzina le andò addosso placandolo a terra mentre strillava fuori di sé. Vedevo tutto in slowmotion ero un ammasso di carne senza la facoltà di accettare la realtà dei fatti. Urlava come un matto.

Io non riuscivo a pensare ad altro se non: «Dov'è Caleb?» chiesi sconvolta gli occhi sgranati a nessuno in particolare, il respiro corto. «Dov'è?» urlai isterica stingendomi i capelli. Ero impazzita, iniziai a respingere il poliziotto con tutte le forze che avevo. «Dimmi dov'è Caleb! Dov'è! Dov'è!» la pelle d'oca mi increspò pure la nuca, le gambe mi tremavano, notai di sfuggita anche Eliot e Lenny, arrivare col fiatone, gli occhi vitrei, erano increduli diversamente da me che stavo dando di matto contro il poliziotto che continuava a dire parole insensate tipo di stare calma e che non sapevano ancora se c'era stato qualcuno dentro.

Mi piegai su me stessa, mentre Lenny mi si avvicinò prendendomi per le spalle, mi opposi e gli diedi uno schiaffo. Ero impazzita. Non poteva essere vero. Mi voltai verso di lui che aveva lo sguardo trasparente, era triste, una paura cieca deturpava il suo volto, il verde nelle iridi si era ridotto drasticamente.

«Calmati. Non sappiamo se lui stava in casa.» mi disse con voce tremante deglutendo. Iniziai a scuotere la testa prendendo a pugni il suolo, il dolore mi ripercosse le braccia, ma non riuscivo a fermarmi.

«Non risponde!» piansi disperatamente con grossi singhiozzi che mi laceravano l'anima. Guardai di fronte a me il fuoco, le fiamme i pompieri che si urlavano a vicenda, la polizia che cercava di tenere lontani la gente che si era accalcata.

«Non risponde a nessuno. Non risponde! Ti prego, fate che risponda. Vi prego! Io... io non gli ho detto che lo perdonavo. Non gliel'ho detto». Sussurrai distrutta. Le spalle mi si affossarono, il mondo girava al contrario, ogni terminazione nervosa mi si era ghiacciata.

«Lilla...» bisbigliò Dean avvicinandosi. Alzai lo sguardo nel suo. Aveva le pupille grigie dilatate, una preoccupazione nuova nel volto. La preoccupazione di chi non era più certo che avrebbe visto di nuovo il suo migliore amico. Suo fratello. Tutti e tre I lupi si avvicinarono, erano devastati Eliot si stringeva la mascella, gli occhi neri come la notte più buia guardarono le fiamme prima di afferrarmi per il braccio con una tale forza che dovetti fare una smorfia per il dolore.

Mi tirò su con un semplice movimento del braccio, indifferente al fatto che sembravo un peso morto. Piangevo e mi disperavo. Non poteva essere in assoluto vero. Dov'era finito Caleb?

«Se qualcuno può scampare a una disgrazia del genere è solo Caleb War» disse Eliot perforandomi coi suoi occhi di pece. Il suo fiato mi solleticava le ciglia, tanto era vicino a me. Mi strinse più forte il braccio, scossi la testa, gli occhi bruciavano.

«Raderemo al suolo questo mondo se è lì dentro...», puntò il dito verso le fiamme, a quel gesto volevo urlare. Negai convulsamente. «Te lo giuro che andremmo tutti e tre nell'altro mondo per ammazzarlo di botte». Concluse deciso. Eppure i suoi occhi erano talmente spaventati. Le pupille talmente dilatate, avevano i respiri fermi, proprio come me.

«No! Lui è vivo! È vivo! È vivo! Caleb non può», urlai liberandomi dalla morsa delle sue mani e cercai di avvicinarmi alla casa, ma prontamente Dean mi afferrò il braccio di nuovo facendomi sbattere contro il suo petto.

«Non puoi andare là. Uno i poliziotti ti porteranno via a forza e due, è troppo pericoloso, stanno cadendo dei pezzi di cemento cazzo!» mi strattonai il braccio isterica.

«Lasciami! Lasciami! Io devo saperlo. Devo sapere se Caleb è morto!» urlai infine la parola che non potevo in assoluto accettare, e poi scoppiai a piangere. Non c'è la feci più, le ginocchia cedettero e precipitai col sedere sul suolo duro, le mani in volto, mentre singhiozzavo disperata.

Lui non c'era da nessuna parte, la realtà dei fatti mi investii in pieno, come un treno investe un'auto e sentii ogni parte del mio cuore rompersi come pezzi di vetro. Il dolore fu insopportabile ma continuai a negare il dolore.

Continuai a cercarlo con gli occhi. Qualsiasi cosa, qualsiasi tipo di prova che lui non ci fosse lì dentro. Un paio di poliziotti si avvicinarono ad una macchina con le luci accese in blu e rosso mentre confabulavano, i ragazzi li raggiunsero velocemente chiedendo se si sapeva qualcosa. Ma nessuno di loro rispose. Nessuno di loro disse nulla.

Poi un'altra macchina sfrecciò velocemente frenando con forza. Era il pick-up di Rob che scese disperato urlando: «Lui dov'è? Caleb dov'è? Che cosa è successo?» non riusciva a fermarsi, boccheggiava disperato facendo dei respiri profondi.

Io avevo smesso di respirare. Tutto ciò che sentivo era un dolore acuto in mezzo al petto. Le tempie mi pulsavano al ritmo incessante delle mie lacrime salate. Vidi distrattamente mia zia avvicinarsi a me con i suoi occhi preoccupati e strabuzzati.

«Lilla? Sta bene? Amore mio», mi strinse in un abbraccio inginocchiandosi di fronte a me, ma non riuscivo a reagire sul momento, poi quando il suo calore perforò il mio corpo, urlai piangendo sulle sue braccia.

«Non gli ho detto che lo perdonavo!» urlai tra le lacrime, il corpo scosso da tremori forti. «Non gliel'ho detto zia. Non gli ho detto che i suoi fiori li adoravo, e il gatto che mi ha regalato è stato una delle cose più belle del mondo. Non gli ho detto niente. Non gli ho detto niente. Lui non può essere morto. No può! Non può!!!» urlai picchiando i pugni per terra, volevo farmi male.

Volevo morire, sparire perché non lo avrei mai accettato fino a questo momento che lo volevo così com'era. Lo avevo sempre voluto. Perché mi piaceva il suo sadismo, i suoi giochi perversi, mi era piaciuto quando mi aveva fatto ogni cosa e ora non potevo accettare assolutamente che non ci sarebbe stato più. Una crepa si espanse nel mio petto, mi sanguinava il cuore, eppure nelle vene mi defluiva il veleno. Aspro, corroso, nero. Come la notte più buia, come l'abisso eterno. Oblio, tutto in me divenne oblio, e non sapevo da che parte girarmi, perché vedevo solo buio e fiamme e dolore.

«Potrebbe essere vivo amore mio. Lui è vivo», disse mia zia stingendomi a sé, la sua voce si incrinò appena. Poi Rob urlò disperato prendendo a pugni qualsiasi auto ci fosse lì. Entrambe ci voltammo verso di lui. Era disperato oltre ogni limite, si strappò i capelli biondi negli occhi le lacrime.

«C'è un corpo! C'è un corpo in casa! I poliziotti hanno appena detto che c'è un corpo in casa!» esclamò.

Chiusi gli occhi. Non poteva essere vero, non era assolutamente vero. Non era lui. Non era Caleb. Mi aveva baciata, lui mi aveva baciata, solo quella mattina, mi aveva tenuto in braccio, mi aveva detto che io ero il suo ossigeno, mi aveva chiesto scusa, lui stava bene. Non era Caleb. Era tutto uno scherzo, non poteva essere. Caleb era più di così, lui se le mangiava a colazione gli incubi, i dolori, ogni ostacolo.

Lui era più di così. Era forte. Era un lupo, era il mio lupo.

Piansi silenziosamente, le forze mi abbandonarono, le mie lacrime sanguinavano, strinsi fortissimo fino a strappare i capelli singhiozzando, mi graffiai le braccia, non volevo più nulla se non la certezza che lui stesse bene. Che lui era vivo.

Rob si accasciò a terra piangendo, i ragazzi, continuavano a negare, nessuno ci voleva credere. Lenny si rivolse verso il cielo e urlò, un urlo di dolore acuto, Eliot trovò un tronco e iniziò a sbatterlo a terra con una rabbia cieca nel corpo. Dean era l'unico all'apparenza calmo che si sedette accanto a me e restò in silenzio. Un silenzio assordante, inespressivo. Continuò a guardare il fuoco, le persone, la casa distrutta.

«Ieri ha dato i suoi animali ad Amelia. Le disse di tenerle per un po' perché se ne sarebbe andato a cercare suo padre.» gli si incrinò la voce. «Forse aveva già programmato tutto», aggiunse.

Mi voltai con una rabbia cieca verso di lui. «Non è morto!» esclamai alzandomi in piedi. Iniziai a camminare in tondo. «Non può esserlo. Questo è tipico di Caleb. Lui vive per queste cose. C'è un motivo se ha agito così. Se n'è andato. Lui se n'è andato, ma non è morto». Gli dissi.

Volevo trovare una soluzione. Cercavo un appiglio per non cadere nel baratro della follia. Tutti se ne stavano in silenzio, tranne Eliot che si accese una sigaretta la brace bruciò illuminando i suoi occhi neri.

«Ha senso», disse facendo un tiro. Deglutii, e mi ripulii le lacrime. «Certo che ha senso! Avrà in mente qualcosa.» dissi sicura di me, ma poi mia zia si avvicinò a dei poliziotti. Conobbe subito Lizzy, le due si guardarono, e ogni paio di occhi erano rivolte verso loro.

«Allora, c'è qualcuno dentro?» chiese a bassa voce. Lei lo osservò negli occhi prima di rispondere: «Lo sai che non posso dirtelo Shannon». Mia zia si avvicinò maggiormente. «Lizzy, siamo tutti qua, in attesa che voi ci diate qualunque notizia, quindi dimmelo se c'è davvero qualcuno lì dentro.»

Lizzy, sospirò e indecisa, si tolse il capello. «Mi dispiace. C'è qualcuno dentro, bruciato. Gli indizi portano tutti a lui. Shannon, è lui. È morto. Dobbiamo ancora stabilire la causa dell'incendio. Il coroner non può entrare finché le fiamme non sono trattenute, il corpo carbonizzato è incastrato tra due travi una sopra l'altra e i pompieri non riescono a tirarlo fuori. Era già carbonizzato quando siamo arrivati.» concluse.

«No! No! Non è lui. Non può essere lui!» esclamai alzandomi in piedi, vedevo neri, sentivo il sangue defluire verso il basso, capii di avere un calo di pressione, ma non cedetti terreno. Non potevo accettare queste parole orribili. Non volevo.

Rob pianse disperato tenendo il palmo della mano sul petto mentre si rannicchiava a terra distrutto. Mi voltai verso i ragazzi che avevano gli occhi lucidi. «Non può essere vero. Vero?» chiesi pregandoli. Qualcuno doveva sapere qualcosa. Qualcuno doveva chiudere quella cazzo di bocca a Lizzy. Qualcuno...

Il dolore riprese a intensificarsi ad ogni parte del mio corpo. «Non è vero giusto Dean?», lo osservai, deglutii, ma i suoi occhi lampeggiarono, le lacrime stavano avendo alla meglio su tutti. «Vero Lenny? Eliot? È vero, lui è v-vivo», mi mancò il fiato, quando abbassarono i capi. Mi voltai verso mia zia, che mi guardò con un'espressione che non tolleravo. Mi stava compatendo.
Mossi il capo. «No! Non è vero. È una bugiarda! Non è vero!» urlai pregando il cielo scuro, addirittura le fiamme. Ma ogni preghiera era vana. Lui non c'era.
«Tesoro...» bisbigliò stringendo le mani sul petto dispiaciuta. "No! No! No!"

«Lilla, amore...», disse avvicinandosi velocemente stringendomi in un abbraccio, ma io non volevo che lei mi abbracciarsi, volevo che mi dicesse che lui stava bene. «Mi dispiace così tanto bambina. Mi dispiace tantissimo».

Mi consolò, mi staccai. Non riuscivo a concepire nulla. Volevo morire, il dolore, l'orrore, l'oblio erano troppo da sopportare. Mi stavano spezzando dentro ad ogni secondo un po' di più. La testa pesava quanto il mondo intero sulle mie spalle. Volevo... volevo scomparire.

«È arrivato il coroner», disse un poliziotto. L'ambulanza arrivò per tempo, con le luci accese e la sirena scoppiettante. Il medico scese e si precipitò insieme ai paramedici verso la casa.

Aspettammo. Aspettammo per troppo tempo, forse un ora, forse una vita intera. Finché non uscirono tutti, uno ad uno, passi veloci, decisi, con i volti imperturbabili e dietro di loro, due uomini vestiti con una tuta bianca e con un corpo senza vita coperto da un sacco nero da capo a piedi in una barella.

Urlai, non riconobbi la mia voce in quel momento, era antica, viscerale, terribile. Era la disperazione fatta forma, la paura, la negazione. Era l'oblio che aveva trovato voce, e mi portava giù, sempre più giù nella sua gola. Urlai singhiozzando.

Non potevo accettarlo. Non volevo. Non era Caleb. Gli esami avrebbero confermato la mia certezza. Non era Caleb. Ma poi, il coroner uscii con in mano un sacchetto trasparente contenente dei documenti. Si fermò di fronte a Rob che sembrava come un albero oscillante gli occhi arrossati, il petto ampio scostante, le mani a pugno che gocciolavano sangue.

«Mi dispiace moltissimo Robin. La vittima dell'incidente si chiama Caleb War. Faremmo degli accertamenti, ma i documenti bruciacchiati che siamo riusciti a trovare portano tutti al ragazzo.» disse il medico vestito con una tuta bianca, la maschera antica gas nella mano dove teneva quel sacchetto.

Rob fu scosso da singhiozzi i ragazzi divennero isterici, io vomitai. Vomitai l'anima, mi tremava il corpo. Dopo aver rimesso pure le budella mi ripulii la bocca con il dorso della mano e mi avvicinai.

«Non è vero!» urlai avvicinandomi al corpo carbonizzato. Stavo perdendo il lume della ragione. I paramedici si fiondarono su di me impedendomi di andare da lui e prenderlo a sberle perché non poteva essere vero.

«Signorina. Signorina, stia calma, non può toccare la salma» disse uno dei due, e a quella parola, divenni furiosa. Iniziai a scalciare, e a ribellarmi, iniziai a urlare, mentre un dolore sperimentale mi deturpava, ogni parte del corpo. Avevo dolore alle braccia, le corde vocali bruciavano per le urla di disperazione. Il sangue mi bolliva nelle vene.

«Lasciatemi. Voglio vederlo. Voglio toccarlo! Svegliati!» esclamai tremando, non riuscivo a sentire più nessuno. Nemmeno mia zia che tentava di farmi tranquillizzare.
«Svegliati stronzo! Svegliati! Abbiamo un accordo noi due. Svegliati!!!» ogni briciolo di forza, mi abbandonò quando caddi con le ginocchia per terra, le mani sul volto, disperata, addolorata. Brividi amari mi morsicavano il corpo. Era tutto un incubo. Un incubo e io mi sarei svegliata. Eppure...

«Caleb ti prego svegliati...», bisbiglia fra i singhiozzi tenendo il petto con la mano perché sentivo di star sgretolarmi come la cenere. «Svegliati, e accetterò la tua richiesta seduta stante. Ma tu svegliati». Lo pregai disperata, ogni persona era muta, come se la voragine della disperazione avesse colpito l'intera città. Le luci intermittenti dell'ambulanza mi bruciavano gli occhi, ricordandomi che qualcuno aveva chiuso le porte e stava per partire.

«Lilla, alzati, ti prego.» mia zia, era inginocchiata al mio fianco, lacrime sincere le illuminavano il volto.

«Io credo di amarlo». Bisbigliai volgendo lo sguardo su mia zia. Lei chiuse gli occhi, non c'era nessuna traccia di rabbia nel suo volto. Le spalle le cedettero come se avesse perso ogni briciolo di autocontrollo. Poi li riaprì e con lacrime salate, mi abbracciò fortissimo.

«Oh, bambina. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace così tanto». Iniziò a cantilenare come se fosse un mantra.

Avevo perso ogni briciolo di energia, le lacrime erano l'ultima cosa che mi fosse rimasto, avevo perso lui. Lo avevo perso per sempre, e nemmeno sapevo quanto lo volevo. Lo volevo disperatamente. Avrei dato ogni cosa pur di vederlo di nuovo. Sarei stata disposta a vendere l'anima al diavolo pur di avere le sue labbra sulle mie ancora e ancora fino a consumarmi.

Perché l'odio e l'amore erano due facce della stessa medaglia. Non si raggiungevano mai, ma si potevano confondere l'una con l'altra. Erano due bestie che si azzannavano a vicenda finché uno non avesse ceduto il posto all'altra. 

All'improvviso, sentii diversi corpi avvicinarsi a me, in un silenzio tombale, i tre lupi rimasti, mi abbracciarono mostrando una disperazione unica che costringeva il mondo a cambiare colori.

Singhiozzai in silenzio, insieme a Lenny che le scossero le spalle mentre mi stringeva il più forte possibile in vita. Eliot era chiuso nel suo silenzio, ma tirava su col naso. Dean, ci guardò tutti. Guardò me, mi diede un bacio sul capo, poi guardò Lenny e in fine Eliot. Mi stringevo le ginocchia al petto perché temevo di cadere e rompermi in mille pezzi. Mi faceva male il cuore.

Avevo l'anima scottata, e fu allora che compresi di non potermi mai riprendere. «Prometto che sarò sempre al suo fianco fino alla fine dei miei giorni». Disse Lenny tra i singhiozzi. Non capii, ma non importava. Non m'importa più di niente. «Io giuro che inizierò a trattarla meglio e a proteggerla sempre». Deglutii, e la consapevolezza che stessero facendo una promessa a Caleb mi fece sciogliere gli ultimi nodi in gola, collassai e liberai il pianto viscerale. «Ti prometto...», iniziò Dean. «....quando ti vedrò ti farò morire a suon di calci e pugni per una seconda volta». Concluse.

Era arrabbiato, nel suo silenzio regnava una tale rabbia ingabbiata, ma anch'io ero arrabbiata con Caleb. Sarei stata arrabbiata con lui per tutta la vita. E nella morte, avrei finalmente raggiunto la mia vendetta.

Perché lui me l'avrebbe fatta pagare, per avermi spezzato il cuore. Per non avermi dato una possibilità. Per non aver corso contro il tempo. Per avermi condannata a un crucio eterno. Per avermi lasciata sola.

Caleb era morto. No, non lo era. Non finché il coroner non avesse fatto i dovuti esami e avesse detto a tutti che era una bugia. Lui era vivo. Vivo. Altrimenti lo avrei ucciso io se non fosse così. No non potevo accettarlo, non riuscivo. Perché l'avevo amato. E nemmeno lo avevo saputo.

Lui non poteva essere morto, altrimenti una parte di me, sarebbe morta con lui. Forse quella più sadica, ma che in fin dei conti avevo iniziato ad apprezzare quella parte. Era la mia essenza. Come lui.
Lui... l'uomo che amavo.

❤️‍🩹Spazio Autrice❤️‍🩹

Queste sono le mie scelte. Potete non voler sopportare una fine tragica, lo capisco. Ma spero comunque che potete apprezzare la mia storia. Queste decisioni non sono mai facili da prendere. Ma dovete capire, che Caleb War è sempre stato il CATTIVO della storia.

Ci vediamo presto

Kappa💔

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