16.2. 𝗦𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗹𝗼 𝘀𝗮𝗽𝗿𝗮̀, 𝗻𝗼𝗻 𝗻𝗲 𝘀𝗼𝗳𝗳𝗿𝗶𝗿𝗮̀
È da pazzi... quel che sto per fare.
Ma in fondo... tutti noi carrieristi
"ipocriti" siamo un po' matti.
( Tina Goldstein )
@virgy_Scamander
Tina's POV
Passeggiava per le strade di New York, le percorreva con una lentezza snervante che avrebbe dato fastidio a chiunque.
«Hey, tesoro!» le gridò un vecchio ubriacone a pochi metri da lei.
Tina lo ignorò e continuò ad avanzare con la stessa andatura di prima.
Aveva imparato a non avere paura di quelle strade, per quanto buie e oscure che fossero. Aveva affrontato mostri ben peggiori, alcuni che faticava a definire umani.
Da ragazzina evitava di uscire la sera perché era terrorizzata dai pericoli di New York; non che le permettessero di uscire. Non aveva avuto molte occasioni per farlo. Da bambina le era stato insegnato che il mondo era un posto orribile, malvagio, senza pietà e compassione per un'orfana come lei, una figlia di nessuno. E di nuovo quelle parole urlatele contro durante la sua giovinezza prendevano forma nella sua mente.
Lei non era destinata ad amare o a essere amata, perché non sapeva che cosa fosse l'amore. Del vero amore Tina aveva solo un vago ricordo, che lei chiamava mamma e papà.
Erano così piccole quando avevano avuto la sfortuna di perdere l'amore e la protezione dei loro genitori.
E aveva paura che il tempo potesse spazzare via tutto.
Aveva il terrore di dimenticare ogni dettaglio di quei splendidi visi, che ancora la accompagnavano nella memoria e nei sogni.
Si asciugò una lacrima. Non voleva mostrarsi debole, neanche a se stessa.
Una guerriera senza corazza.
Eppure sua madre le diceva che le lacrime non erano un segnale di debolezza, che ci voleva coraggio anche per piangere.
Vi erano degli istanti in cui era più forte di lei, durante i quali proprio non riusciva a smettere di piangere, e le lacrime fluivano senza sosta e senza controllo. E questo sarebbe stato uno di quelli.
Pensava a Newt, a cosa avrebbe potuto pensare di lei.
Quel ragazzo dal cuore di panna.
Sapeva ascoltarla. Era sempre attento a come si sentisse e, stranamente, era una di quelle poche persone che la facesse sentire a proprio agio.
Forse, una di quelle poche persone che veramente la apprezzasse, che non la disprezzasse e non evidenziasse le sue mancanze.
L'unica alla quale confidava i suoi problemi. Non aveva paura di essere giudicata da lui, criticata, derisa per le sue scelte, le sue battute, i suoi pensieri.
Un vago sentore che qualcosa non sarebbe stata più come prima.
Non era semplice affetto ciò che sentiva di provare per quel mago impacciato, un sentimento in parte diverso dall'amore.
Forse non era ancora pazzamente, follemente, innamorata di lui, ma sapeva di non riuscire a fare a meno della sua vicinanza.
Brancolava nel buio.
Ogni volta che qualcuno del suo dipartimento pronunciava il nome Newt Scamander, sentiva il cuore accelerare e le guance infiammarsi; ma non era mai arrivata al punto di perdere la testa.
Queenie le aveva spiegato che l'amore è complicato, che è alquanto impossibile dare una spiegazione logica.
Una definizione a parole.
Di tanto in tanto la prendeva in giro, dicendole che non riusciva proprio a vedere oltre la punta del proprio naso, di essere un'ingenua.
Le ripeteva di buttarsi, di fare il primo passo, che doveva seguire il proprio cuore.
Non poteva illudersi di poter controllare l'amore.
Ma lei, continuava a ripeterselo, non era destinata ad amare.
Lei era fredda, rigida e distaccata.
Se mai si fosse innamorata di Newt Scamander, sapeva che prima o poi lui si sarebbe stancata di lei.
Come molti altri prima di lui.
Tina era stanca di amare: ogni volta che provava qualche sentimento più intenso della semplice amicizia, rimaneva delusa, di se stessa.
Succedeva sempre, con chiunque le stesse accanto.
Finivano sempre per confonderla, illuderla.
Ma, quella volta, era lei l'artefice di quel dolore che aveva più volte sperimentato.
Questa volta era lei che stava per illudere lui.
Per quanto il tutto sarebbe stata una falsa, una messa in scena, sentiva di tradirlo.
Perché, si chiedeva.
Loro due non erano niente. Non erano fidanzati, non erano amanti. Newt era semplicemente il suo unico amico vero che aveva.
«Perdonami, Newt. Almeno tu, perdonami.» Singhiozzò, continuando a passeggiare a testa bassa per strada.
«Hey tesoro, ti va un goccetto?»
Tina lo ignorò di nuovo.
Lei non era nessuno, non aveva nulla da offrirgli.
Non era capace di amare veramente. Ma se Newt l'avesse veramente voluta bene, se veramente la considerasse amica, le sarebbe rimasta accanto, avrebbe continuato a sostenerla, a valorizzarla. E alla fine gli avrebbe spiegato tutto, e lui avrebbe capito. Avrebbe accettato le sue scuse.
Sì, era la decisione giusta, rifletté. L'unica, in effetti.
Non era troppo difficile.
Eppure... perché faceva così male?
Per tutti quegli anni aveva imparato a distaccarsi emotivamente dagli altri nel momento opportuno, a non affezionarsi troppo alla gente, per paura che la lasciassero.
Perché le faceva così male? Perché? Perché?
Perché si sentiva morire?
Lei voleva trovare la persona giusta, non un ragazzo che le facesse soltanto battere il cuore.
Un ragazzo, come Newt, che fosse disposto ad aspettarla, che amasse anche i suoi difetti peggiori, un ragazzo che la rispettasse come donna, come auror.
Una persona che le dicesse: «Hey, amore. Ti va di condividere un hot-dog con me?»
E lei lo avrebbe volutamente spezzato a metà per condividerlo con lui.
Nonostante fossero passati anni, ancora nella sua mente si figurava l'ipotetica immagine di un principe azzurro pronta a salvarla con la sua bacchetta.
Ma ogni volta che provava a immaginare il suo volto, automaticamente vedeva Newt, e oltre lui non riusciva a vedere nessun altro.
A giudicare dalle chiazze rosate che decoravano il cielo, dovrevano essere appena le cinque del mattino, illuminando parzialmente il griogiore del vicolo.
Salì lentamente le scale dell'appartamento, cercando di non fare troppo rumore.
Un rumore di passi ovattati nel piano inferiore le fece desiderare di morire un po' di più, consapevole sapeva di chi si trattasse: come al solito quella sentinella della signora Esposito.
Sarebbe sempre stata pronta, lo sapeva ormai con fin troppo rammarico, a dire la sua.
Fece un respiro profondo per calmare i nervi, sperando che lei non dicesse nulla.
«Sei tu, Tina?»
Come non detto, imprecò.
«Sì, signora Esposito.» sospirò lei.
La padrona di casa salì le scale, qualche altro gradino, e si piazzò imperterrita al centro della scalinata, barrandole il passaggio. Nonostante avesse scelto i gradini più alti, non riusciva a raggiungere neanche le sue spalle.
Incrociò i suoi occhi porcini, disegnando un sorriso ebete che potesse scalfirla.
«Tina... Tina... Tina... ti sembra questa l'ora ideale per tornare a casa? Ti ricordo che sei una signora...» borbottò lei infastidita, analizzando attentamente il suo abbigliamento, facendo schioccare la lingua sul palato per il disappunto.
Fortunatamente quel giorno aveva deciso di non indossare la gonna, ma... gonna o no, avrebbe sicuramente trovato qualcosa su cui fare storie o scalpore.
«Sono le cinque del mattino, signora Esposito.» sospirò la bruna, cercando disperatamente di non perdere la calma.
Rincuorata del fatto che la scala fosse nella totale penombra.
Almeno non avrebbe visto la sua faccia da rospo.
«Già... e non credi che la mezza notte sia già scoccata da un pezzo?»
Tina sospirò, finse di grattarsi l'orecchio, e di essere troppo educata per urlarle contro.
«Io lavoro, signora Esposito. Come crede che le paghi tutti i mesi l'affitto?» La guardò torva, «e come tale, il mio lavoro mi obbliga a tornare tardi tutte le sere. E, ormai, le è abbastanza chiaro, visto che siamo coinquiline da quindici anni!»
La signora Esposito si ammutolì per qualche istante, ma subito dopo scosse la testa contrariata.
«Beh, non va affatto bene questo tuo comportamento, Tina! Sei una strega ed è già tanto che ho accettato te e tua sorella nel mio appartamento! Ho sempre odiato quella robaccia, la magia! E sono decisamente più che lieta di non aver avuto il "privilegio" di farne parte.»
Ed ecco di nuovo quella storia della magia tirata in ballo, mai vista una maganò così intollerante!
«Uhm Uhm.» mormorò stancamente lei, non dandole volutamente retta.
«È piuttosto disdicevole per una donna vagare in giro di notte! E poi guardati! Neanche una gonna, un po' di femminilità!» sussultò lei schifata, sventolandosi con una mano grassoccia come se le mancasse l'aria.
«Non sarai una di quelle attiviste, spero!»
A quel punto Tina iniziò decisamente a perdere la pazienza, adesso le avrebbe detto senza pudore tutto ciò che le passava per la mente.
«Certamente! Non crede che noi donne stiamo sopportando abbastanza? Non vedo il motivo per cui dovrei fare da zerbino ad un uomo!»
«Se continui così nessun uomo ti si avvicinerà, te lo garantisco, mia cara!» sbottò burbera, tirando su il naso «La tua virtù...»
«Beh... sono arrivati tardi per quella!»
La signora Esposito a quelle parole sgranò gli occhi, che presero a vagare senza controllo, mormorò a fior di labbra una preghiera silenziosa, - più di una, probabilmente - come se sperasse di non aver udito chiaramente.
«Tu non puoi parlare sul serio!»
«E non una volta!»
«Oh, santo cielo! Che cosa devo sentire! Una libertina sotto al mio tetto!»
«Con permesso...» trattenne a stenti una risatina, mentre girava rapidamente le chiavi nella serratura.
«Ma non abbiamo parlato di...»
E senza preavviso si tirò il portone alle spalle, lasciando la Signora Esposito avvilita, spaesata, frustrata.
Poco male, non se la sarebbe ritrovata il giorno dopo dietro la porta.
Forse. Al massimo... avrebbe tentato fu correggerla. Se solo avesse saputo di aver portato Newt e suo cognato Jacob in casa!
«Incredibile,» borbottava la maganò, «Mai vista una ragazza così!» sbottava mentre faceva ritorno al suo appartamento.
E quando fu certa che lei fosse abbastanza lontana, scoppiò in una sonora risata che le riempì l'anima. Aveva aspettato tutta la giornata per rilassarsi, e mai avrebbe immaginato che guardare la reazione della padrona di casa dinanzi alla sua amoralità la facesse tanto impazzire.
«Ma da dove ti è venuto, Tina?» Continuò a ridacchiare lei, continuando a elogiarsi.
Si tolse le scarpe e indossò rapidamente il pigiama.
Queenie sarebbe stata fiera di lei, se lo avesse saputo. Doveva solo aggiungere un altro aggettivo alla lunga catena di attributi con la quale la signora Esposito la giudicava. Lei era per prima cosa una spilungona, una zitella incauta che amava lavorare di notte chissà con quali altre signore della notte, e per giunta impura e senza dote.
Poco male.
Che mentalità chiusa, se avessero continuato a vivere con quei pregiudizi il mondo sarebbe crollato.
Non sempre la prima persona era quella giusta, e l'amore a prima vista veritiero. Lei non credeva all'amore a prima vista, per quanto Newt l'avesse particolarmente interessata, fin dal primo sguardo.
«Sono un genio.» Questo era vero, «Sono un ossimoro!» Sospirò.
Si sedette al tavolo da pranzo. Se voleva che l'incubo cominciasse... doveva fare soltanto un'ultima cosa: scrivere una breve ma intensa lettera di risposta ad Achilles.
Si strofinò gli occhi e, facendo attenzione a non ungersi le dita di inchiostro, buttò giù qualche riga.
Ciao, Achilles
Uhm, forse troppo banale, pensò lei.
Caro Achilles.
Decisamente troppo forzato.
Non fare la stupida, Teenie!
Caro Achilles,
ho pensato molto al nostro bacio di ieri pomeriggio. Ammetto che mi hai spaventata un po' e colta di sorpresa. Mi hai chiesto di darti la conferma. E va bene... mi piacerebbe venire a cena con te. Ho davvero bisogno di staccare la spina.
Che ne pensi tra qualche settimana?
Ho davvero tanti impegni al MACUSA, lo sai, e una cena non credo che sarebbe opportuna. In caso ti faccio sapere, se dovessi posticipare la nostra cena di qualche giorno. Magari possiamo parlarne quando siamo insieme al ministero, sai che sono molto aperta al dialogo.
E fu a quel punto che Tina ricominciò a piangere, proprio quando vide il gufo di Lally sparire oltre l'orizzonte. E, nuovamente, la sua mente vagava a Newt, a quello che avrebbe potuto pensare di lei. Forse non lo saprà mai, pensò.
«Spero davvero che riuscirai a capirmi.»
Diede una rapida occhiata alla sagoma che dormiva nel suo letto, raccolse le coperte da terra e le adagiò sulla custode, che doveva dormire da ore.
Era piuttosto mattiniera, e si sarebbe svegliata tra meno di un'ora.
Come al solito Lily dormiva accanto a lei.
Era stata una giornata snervante, in tutti i sensi.
Era almeno contenta di essere riuscita a fare abbassare la cresta alla sua padrona di casa, di aver conosciuto Filemina, la sorella di Lysander.
Lui non faceva che parlarle di lei ogni qual volta apriva la bocca.
Quei due... erano praticamente identici in tutto e per tutto! Entrambi timidi e impacciati, dolci ed empatici.
Non ce la faceva più, nemmeno a riflettere sulle esperienze vissute in quella lunga giornata. Sentì appena le gambe che la trascinavano autonomamente sul divano, il morbido cuscino sotto la testa, la coperta leggera, il respiro sommesso di Lally e il miagolio del suo gatto. Si dimenticò perfino di spegnere la luce.
Se non lo saprà, non ne soffrirà.
Filemina and Lysander POV
Era rimasta da sola, per una volta. Quell'adorabile lupacchiotto di suo fratello le aveva detto che poteva passeggiare per qualche oretta a central park, con l'obbligo perentorio che portasse con sé la bacchetta e che indossasse il mantello dell'invisibilità - che avevano acquistato qualche mese prima- se avesse sentito rumore.
Non era il massimo delle coperture, con il tempo tendeva a sbiadire, ma era davvero utile a volte, specialmente quando Lysander si ritrovava a lavorare e la costringeva ad aspettarlo da qualche parte. Diceva che il parco era un luogo sicuro, anche per lei, nonostante avesse quindici anni. E per la terza sera di seguito si ritrovava a guardare l'imponente fontana che si ergeva in mezzo alla piazza.
«Almeno ci fossero stati i pesciolini.» sospirò stancamente sedendosi sul gradino della vasca. Chiuse gli occhi e poggiò il mento sulla lastra di pietra fredda.
Come faceva suo fratello a lavorare così tanto? Erano le cinque del mattino passate e ancora non si ostinava a tornare, ed il cielo iniziava gradualmente a tingersi di rosa. Le sarebbe tanto piaciuto per una volta riuscire a vedere il sole sorgere. A Londra ci sarebbero sicuramente stati, i pesciolini. Almeno era così quando erano bambini. Solo sei anni di differenza, non erano troppi. Eppure poteva contare su un fratello che ne dimostrava il doppio.
Fissò il proprio riflesso nell'acqua. Era orribile. Bianca e candida come la neve. Capelli nuovamente incolore, bianchi, e pelle pallida e morbida come la seta.
Sarebbe potuta essere scambiata per un pupazzo di neve se non avessero visto i suoi occhi ambrati e la marea di cipria che utilizzava. Ma nonostante tutto, il bianco restava uno dei suoi colori preferiti. Ciò che davvero non riusciva a sopportare era di non riuscire a vedere troppo lontano dal proprio naso, essere confusa per una bambina, essere così com'era.
«Che bella bambina!»
Alta appena un metro e quaranta, gracile, piccola di statura e di aspetto.
Non ne poteva più, ogni qualvolta si sentiva acclamare. E quando accadeva, raramente teneva la bocca chiusa. Non riusciva a tenersi le cose dentro e, per quanto timida e raffinata, era anche fin troppo sincera e incapace di lasciar stare. Lysander era sempre costretto a cucirle la bocca e a trascinarla via, e sopportare le sue proteste. Cercava di rimproverarla, ma quando si soffermava a guardarla, le parole gli morivano in gola.
«Sono stupidi! Quale bambina di cinque anni é alta un metro e quaranta?!»
Era incredibile come alcuni maghi non fossero dotati di alcuna intelligenza, neanche quella minima necessaria, e come la lingua agisse autonomamente. Suo fratello Lys concordava con il suo pensiero, una strega senza cervello.
E finiva sempre per ripeterle: «Non devi pensarci, tu sei perfetta così come sei.» e si soffermava a guardarla intenerito negli occhi, incapace di smettere di guardarla, «Sei identica a lei, lo sai? Stesso sorriso, stessi occhi. La mamma sarebbe stata tanto orgogliosa di te.» le sfiorava una guancia.
Inizialmente lei annuiva, ma poi abbassava il capo un po' affranta.
Tremendamente simili, tremendamente diverse, tremendamente opposte.
Non riusciva a vedere tutta questa grande somiglianza. Solo il sorriso, quelle macchioline color ruggine sul viso, il carattere ironico e pungente, l'altezza decisamente non eccessiva.
Continuò a specchiarsi nell'acqua, forse sarebbe stato il momento adatto per farlo, adesso che era sola, inosservata.
Erano mesi che non ci riprovava. Fece un respiro profondo, quasi dimenticò di buttare giù l'aria. Permise al suo corpo di cambiare. Sulle guance comparve un morbido pelo bianco, dei baffetti argenti sporgere un po' in ogni dove, delle iridi gialle iniettate di ambra, e due pieghe feline al posto delle labbra. Ridacchiò appena, incapace di emettere suoni che fossero diversi dal miagolare. E come aveva sospettato bianca, pallida, non un tocco di colore.
Per lei era davvero difficile, quasi impossibile cambiare colore. Per quanto si sforzasse, per quanto avesse fatto ricerche, esperimenti a riguardo, non riusciva mai a cambiare il suo aspetto.
E con il tempo si era rassegnata ed aveva smesso di riprovarci.
«Uhm...vedo che hai cambiato look!» esclamò una voce alle sue spalle, che File riconobbe come quella di suo fratello.
Rimase immobile, non si voltò a guardarlo, gli accennò un sorriso e riprese a guardare l'acqua limpida della fontana.
«Una gattina...»
La ragazzina non riuscì a non ridacchiare, «Uhm Uhm. Avevo quasi dimenticato come si facesse.» ammise sussurrando, «E ovviamente... la storia si ripete, uffa!! Non riesco a controllare questi stupiti capelli!» si avvolse una ciocca bianchissima tra le dita.
«A me piacciono. Insomma... sono eleganti, sono fini... sono»
«Bianchi.» sbottò lei, voltandosi repentinamente a guardarlo.
Si sforzò di colorare almeno le punte, ma tutto ciò che riuscì a fare su procurarsi una fastidiosa emicrania.
«Non ci posso credere!» si lasciò cadere esasperata sullo scalino in pietra della fontana, non badando alla gonna del vestito che indossava, che le metteva in bella mostra le gambe.
Lysander istintivamente la coprì e si sedette accanto a lei, per farle sentire la sua vicinanza.
«Lo sai, noi maghi siamo fatti così. Siamo strambi, atipici. Ogni volta che ti tagli i capelli, ricrescono molto velocemente, e questo è un vantaggio... se guardi il tutto da un'altra prospettiva...»
«Immagino di sì...» sospirò.
Lysander le accennò un sorriso e le sollevò appena il viso per incrociare i suoi occhi ambrati.
«Hey, guarda che sei bellissima! Stupenda! Non c'è nessun altro al mondo come te!» le accarezzò la guancia.
Lei non rispose. Lui non avrebbe capito, come avrebbe potuto? Non era un adolescente, un ragazzo come gli altri.
«Hey, fiocco di neve!» le fischiavano fra un ghigno e l'altro i ragazzini della sua età. Un ragazzo le aveva perfino versato addosso un secchiello di vernice, ridacchiando, «Almeno prendi un po' di colore, bambola.». E lei non aveva potuto dire nulla a Margaret, che li avrebbe minacciati di farli diventare dello stesso colore dei suoi capelli.
Molti preferivano stare in silenzio, guardavano e non facevano assolutamente nulla a riguardo. Quegli idioti non avevano fatto altro che tormentarla, fino a quando lei li aveva denunciati di dirlo al fratello. Eppure non aveva il coraggio di confidarglielo, e sicuramente non valeva la pena disturbarlo. Sembrava timida ed impacciata, ma quando perdeva la pazienza diventava inarrestabile. Certe volte si ritrovavano in infermeria, senza sapere come ci fossero arrivati, e chi li avesse mandati. Era brava con gli incantesimi di memoria, doveva ammetterlo. Preferiva di gran lunga la diplomazia. Eppure...ogni tanto, era necessario che fosse lei a ricordarglielo.
«Anche la mamma aveva questo problema.» mormorò a denti stretti.
Lysander scosse la testa, «No. Alla mamma piaceva cambiare. Era un po' come te, sai? Stilosa!»
«Ma io non sono stilosa!» sospirò Filemina leggermente infastidita dalle sue affermazioni, «ma forse... ti piaccio di più con la faccia da suino?»
La ragazzina si tinse di rosa, non completando però del tutto la trasformazione, al posto del naso un bottone rosa con due enormi fori. Il fratello ridacchiò appena e scosse la testa divertito, le diede una leggera spinta che per poco non la fece cascare in acqua. Si era dimenticato quanto fosse gracilina, che anche una leggera spinta potesse spostarla qualche metro più in là.
«Ops!» Ridacchiò, «Un'adorabile porcellina! La fidanzata di uno dei tre porcellini!» grugnì.
«Ah ah... molto divertente!» inarcò un sopracciglio lei, «Non sono una bambina, Lys. E poi ho sempre odiato le fiabe babbane! E tu che le leggevi tutte le sere!» sospirò lei, figurandosi i bei vecchi tempi, quando ancora era una bambina e lei e Lys erano veramente felici, quando la mamma le rimboccava le coperte. Quasi non li ricordava più i vecchi tempi, ricordava solo di essere stata una bambina particolarmente capricciosa, odiosa, presuntuosa.
«Già... ma da piccola eri più carina, più... tranquilla.» E fu a quel punto che Lysander le lanciò un'occhiataccia.
Iniziò a guardarla torvo, e per un primo momento la ragazzina proprio non riuscì a capire a cosa alludesse. Solo quando la scrutò dalla testa ai piedi parve essere colta in flagrante. Fu certa di essere diventata rossa, proprio quando per una volta non desiderava di cambiare colore. Inarcò un sopracciglio e finse di non aver capito, di non sapere a che cosa alludesse.
«Non so di che cosa stai parlando...» girò la testa di lato.
«Hai dimenticato che sono un lupo mannaro? Che ho le orecchie anche dove non dovrebbero stare?» anche Lysander cambiò colore, e Filemina si vide costretta ad abbassare lo sguardo impaurita dalla sua reazione.
«Non posso crederci, dici pure bugie!» tuonò irritato.
Filemina capì che si stava arrabbiando nello stesso istante in cui le sue iridi si iniettarono di sangue.
«Ma» balbettò lei intimorita, facendo un passo indietro. Aveva paura del fratello, specialmente quando si arrabbiava in quel modo con lei. Aveva paura di tradire la sua fiducia, lui che meritava tutto l'amore del mondo.
Come aveva fatto quel clima così malinconico a riempirsi di ira? Che cosa aveva fatto scattare la scintilla?
«File?!»
A quel punto la ragazzina scoppiò in lacrime, non riuscendo più a trattenere i singhiozzi.
«E che cosa avrei dovuto fare, Uhm? Dirti ogni singolo dettaglio della mia vita?» Rise nervosamente lei.
«In effetti sì... è quello che avresti dovuto fare! Come ti è venuto in mente? Evidentemente non ti fidi abbastanza di me, di tuo fratello!»
Filemina si morse il labbro e scosse la testa, «Avresti detto di no...»
Sentiva di averlo particolarmente deluso, ma non si ne pentiva di questo.
«Certo, ma cosa pensi che avrei potuto fare dall'America? Scavare una fossa?» sbottò lui arrabbiatissimo, fulminandola con lo sguardo.
«Non saprei... dimmelo tu...» gli rispose acida, rispondendo con lo stesso tono.
Lysander esasperato scosse la testa e mormorò fra se e se qualche velata imprecazione, prima di rivolgersi nuovamente alla sorella. Sentiva le vene pulsare, il battito rimbombargli in gola, le lacrime minacciare di uscire dai margini dei suoi occhi. Ma che cosa aveva per la testa?
«Non ti avrei mai impedito di avere un ragazzo, non ci sarei riuscito. Che cosa ti passa per la testa?»
La ragazzina abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello del fratello.
«Io... non mi passa niente per la testa!»
«E allora perché non mi hai detto niente?» Non riusciva a smettere di tremare.
«Perché sei ossessivo! Tu la gente la fai svenire! Hanno paura di te!» Si asciugò le guance zuppe con il dorso della mano.
Lysander si tenne le mani per la rabbia, inspirò profondamente prima di ricominciare a parlare.
«È perché sono un auror... lo sai, tutti hanno paura degli auror!» Abbassò gradualmente la voce, «Tu non puoi comportarti così! Ho promesso alla mamma di proteggerti! Sto facendo di tutto per te! St lavorando dall'altro capo del mondo per te! E tu...non riesci a essere sincera! È così difficile... non hai idea che cosa significhi trasformarsi tutti i mesi, non hai idea di che cosa significhi essere una recluta! Sempre all'ombra degli altri! »
La sua mente vagava al giorno in cui si era rovinato la reputazione e la vita. Ancora gli pareva di sentire il freddo a contatto con la sua folta pelliccia, il rumore eccitante dei passi, quell'urlo tremendo. Lui chino su quella donna con il petto segnato dai suoi artigli affilati, la camicia zuppa del suo sangue, gli occhi opachi e privi di vita. Aveva smesso di mangiare. Ma per quanto tentasse di dimenticare, quel ricordo non faceva altro che tormentarlo, in ogni momento della giornata. Bastava un dettaglio per farlo riemergere.
«Io sono un assassino!» Tuonò.
Filemina scosse la testa, rattristata. Conosceva suo fratello, e proprio non riusciva a sopportare che continuasse a crogiolarsi, ad addossarsi la colpa per quanto fosse successo.
«Non è colpa tua! Anche Silente dice che»
«Silente può dire quel che vuole!» Le lui rispose burbero, «Ero sempre io, ma sotto un'altra forma! L'ho uccisa io!»
Un fiotto di lacrime calde.
Si sentiva in colpa, tremendamente in colpa. Ogni volta che ci pensava, sentiva il pavimento crollare ai suoi piedi, la vista annebbiarsi e le mani sudare. Non riusciva a confortarlo, e allo stesso tempo non voleva provarci a farlo. Era la sua pena, la sua rovina. E il modo per redimersi da una tale atrocità.
Filemina gli diede un'ultima occhiata e scosse la testa.
«Non sei l'unico infelice qui! Certo, è terribile! Ma te lo hanno detto tante volte! Non c'è pozione attendibile che tenga! Non è del tutto colpa tua!»
Lysander annuì appena, e abbassò lo sguardo, imbarazzato. Non sapeva che cosa dirle, come il dialogo avesse cambiato direzione. Si limitò a sospirare.
«Io sto imparando... ad accettarlo!»
«No, non é vero! Te la prendi con me! Non sono stata io a trasformarti!»
«Perché non mi dai altra scelta! Finirai permetterti nei guai!»
Filemina inarcò un sopracciglio, attonita. Lo guardò, confusa.
«Come? Ora sei tu che non ti fidi di me! Che cosa pensi che faccia, uhm?»
«Qualcosa di cui potresti pentirti...» rispose lui, a denti stretti, continuando a fissarla.
Ma Filemina continuava a non capire, scosse nuovamente la testa in attesa di eventuali spiegazioni.
«La smetti di parlare per metafore?» Lo implorò, ma gradualmente intese a cosa alludesse.
Sgranò gli occhi e scosse la testa, estremamente imbarazzata.
«Merlino... NO! Ma come ti viene in mente?! Ho Quindici anni! Ed è ancora davvero troppo presto!»
Lysander la guardò appena, di traverso.
«Oh.» Mormorò abbassando lo sguardo, estremamente paonazzo.
«Voi non avete...?» Balbettò, sperando di aver capito bene.
Iniziò a tormentarsi le mani graffiate, e questa volta fu lui a non riuscire a mantenere lo sguardo.
La biondina sgranò nuovamente gli occhi e scosse energicamente la testa, scioccata.
Mai si sarebbe aspettata un'insinuazione del genere da suo fratello, lui che l'aveva educata al rispetto.
«Io...»
«Non potevi semplicemente chiedermelo?» bofonchiò, inarcando un sopracciglio e facendo un passo avanti.
Lui non rispose. E Filemina non riuscì a trattenere un tenero sorrisetto.
Era consapevole che forse non era esattamente la domanda ideale da chiedere a una ragazzina come lei.
«Sei davvero stupido!» gli diede una spallata, «uno stupido, timido, iperprotettivo, insicuro, ossessivo lupacchiotto!»
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