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𝑳𝒂 𝑺𝒄𝒐𝒏𝒇𝒊𝒕𝒕𝒂

Baby si lasciò cadere sulla panchina dello spogliatoio, pentendosene subito. Un dolore lancinante le attraversò la colonna vertebrale, proseguendo lungo le gambe e giungendo fino ai piedi. I colpi subiti durante l'ennesimo incontro—ovviamente perso—avevano lasciato il segno: gli impianti cibernetici incastonati nel suo corpo vibravano ancora, un segnale disperato di allarme che la implorava di farsi vedere da un cyrurgo*.

Baby non riusciva a credere di essere caduta così in basso. Non si ricordava neanche più l'ultima volta che aveva vinto. Era partita bene, all'inizio, aveva vinto addirittura un piccolo torneo, ma poi tutto era andato storto. Forse i prezzi degli impianti erano aumentati. Forse i cyrurghi stessi avevano iniziato a chiedere di più. O forse era lei a essere semplicemente peggiorata, un pezzo alla volta, come gli impianti che portava addosso. Fatto sta che ormai si trovava lì, come al solito, a fare il bilancio dei danni.

Baby sospirò, passandosi una mano tra i capelli sudati, di un rosa pastello, un colore ormai sbiadito dal tempo e dalla fatica. Si interruppe presto, però, perché alcuni capelli si impigliarono tra i cavi scoperti del suo braccio cibernetico. "Ah! Accidenti!" Baby imprecò sottovoce, tirando con delicatezza per liberarli, un'operazione che le prese diversi minuti.

Una volta risolto il piccolo disastro, Baby abbassò lo sguardo sul suo braccio. Lo osservò con attenzione, come se lo vedesse davvero per la prima volta. La mano, le dita, tutto era un ammasso di metallo ammaccato e logoro. Pezzi della superficie si erano staccati, lasciando scoperti cavi e fili che pendevano pericolosamente. Le sarebbe bastata un po' di pioggia per finire in corto circuito. Il braccio non era l'unico problema. Le dita e le nocche erano segnate da solchi profondi, martoriate a forza di combattere.

Un rumore improvviso la riscosse dai suoi pensieri. La porta dello spogliatoio si aprì con lentezza, cigolando sui cardini arrugginiti. Dalla fredda luce del neon emerse la sagoma del suo allenatore.

L'uomo era un mosaico di carne e metallo. Gli impianti cibernetici, lucidi e minacciosi, si intrecciavano lungo le braccia, le gambe e perfino il volto. Di umano, sul viso, restavano solo l'occhio destro, spento e stanco, e le labbra sottili, sempre tirate in una linea severa. Anche se poco espressivo a causa degli impianti, Baby capì subito quanto fosse deluso dalla sua ennesima sconfitta.

Sospirò. Abbassò il capo e distolse lo sguardo, incapace di reggere quegli occhi che sembravano perforarla. Rimase immobile, ascoltando il suono pesante dei passi dell'uomo avvicinarsi, scandito dal leggero ronzio degli impianti. Si fermò proprio davanti a lei, un'ombra massiccia contro la luce al neon.

"Mi avevi detto che avresti vinto," disse lui, con una voce dura, il tono pieno di disappunto. "Cos'è andato storto questa volta?"

Baby sbuffò, stringendo le labbra per trattenere le parole. Rimase in silenzio, lo sguardo fisso a terra. L'allenatore si chinò in avanti, cercando i suoi occhi.

"Hey," disse, il tono più tagliente del solito. "Solo perché ti fai chiamare Baby sul ring non significa che devi comportarti come una bambina anche fuori. Guardami quando ti parlo!"

Qualcosa si scatenò dentro di lei. Forse era rabbia, forse l'amara delusione che le bruciava in petto. Alzò le braccia in aria con un gesto esasperato. "Cosa vuoi che ti dica? Quel tipo aveva gli impianti della NS5! Hai presente la NS5? La migliore azienda di impianti cibernetici per il combattimento?! E non hai visto quanto era grosso?! Era il doppio di me, in altezza e in larghezza. Ero solo una mosca per lui!"
L'allenatore incrociò le braccia, stringendo la mascella. "Sempre colpa degli altri, eh? Non ti sei mai chiesta se il problema sei tu?"

Baby alzò lo sguardo, i suoi occhi duri come acciaio. Lentamente si alzò in piedi, fronteggiandolo. "Forse hai ragione. Forse avere degli impianti che cadono a pezzi è un problema." Fece un gesto teatrale, sollevando di nuovo le braccia. "Sorpresa! Non ho i soldi per cambiarli! Riesco a malapena a pagare l'affitto!"

L'allenatore scosse la testa, il volto una maschera di disappunto. "I tuoi impianti sono un problema, sì, ma non è solo quello. Ti lasci sempre scoperta. I tuoi avversari lo vedono, e ne approfittano."

Baby fece un passo avanti, puntandogli un dito contro. "Se qualcuno si decidesse ad allenarmi seriamente invece di limitarsi a darmi un sacco da picchiare, forse potrei davvero migliorare!"

L'allenatore incrociò le braccia, un'espressione dura scolpita sul viso metallico. "Te l'ho detto più volte: se non hai i soldi per pagarmi, non posso farti da allenatore. Sei già stata fortunata che ti abbia lasciato usare la palestra con appena venti crybz*. Ti ho dato un angolo tutto tuo, cosa che non faccio per nessuno."

Baby fece una smorfia, colma di sarcasmo. "Ma che buon samaritano! Grazie!" esclamò, la voce carica di veleno. Si voltò verso il suo sacco da allenamento e cominciò a prepararsi per andarsene. Sfilò una felpa sgualcita, la indossò in fretta senza curarsi degli altri vestiti. Non aveva intenzione di restare un minuto di più.

"Me ne vado," disse, con un tono forzatamente fermo, anche se dentro sentiva la voce incrinarsi. "Mi sembra di capire che qui ho chiuso."


L'allenatore la fissò a lungo, il suo unico occhio umano pieno di qualcosa che Baby non riuscì a decifrare. Alla fine, annuì lentamente. "Sì."


Baby abbassò lo sguardo, non riuscendo a guardarlo in faccia. Si era stanca, delusa, arrabbiata. Gli occhi cominciavano a pizzicarle, ma non avrebbe ceduto. Non avrebbe pianto. Non era una Baby fino a quel punto.

Si portò la sacca in spalla, tirandosi il cappuccio della felpa sul viso. Un gesto rapido, quasi rabbioso, per nascondersi. "Allora, a mai più rivederci," salutò sarcastica, con un tono che graffiava l'aria dello spogliatoio.

L'allenatore non rispose. Non ce n'era bisogno. Baby sentiva il peso del suo sguardo mentre attraversava la stanza, una presenza silenziosa che l'accompagnava fino alla porta. Non si voltò, non avrebbe potuto sopportare di vederlo ancora.

Il passo le si fece incerto, quasi volesse correre, ma si trattenne. Non avrebbe aggiunto la fuga alla lunga lista di umiliazioni di quella serata. Si aggrappò all'ultimo brandello di dignità che le era rimasto, respirò a fondo, e si costrinse a uscire con calma.

Una volta fuori, tenne lo sguardo basso. Si mosse rapida, quasi sfrecciando verso l'uscita secondaria della palestra. Non voleva incrociare nessuno, né affrontare le battute di un altro pugile che si sentiva in diritto di giudicarla. Non era proprio dell'umore.

Uscita dalla palestra, puntò lo sguardo verso il pavimento bagnato. La pioggia era cessata da poco, lasciando pozzanghere che riflettevano le luci al neon delle insegne e dei lampioni. La città la accolse con il suo solito mix di caos e malinconia: clacson, ruote sull'asfalto umido, e la vibrazione costante dei cavi elettrici. Ma nella testa di Baby, tutto era ovattato, un ronzio lontano, soffocato dai pensieri che si rincorrevano senza sosta.

Rivide il combattimento in una sequenza rapida e dolorosa. Pugno dopo pugno. Il suo corpo accasciato sul tappeto del ring. Il suono assordante della sconfitta. E, sopra ogni cosa, lo sguardo del suo allenatore, nascosto tra la folla. Non si era nemmeno avvicinato all'angolo. Non lo faceva mai. Era sempre sola. Anche fuori dal ring.

La città era viva, pulsante di un'energia che sembrava volerla schiacciare. I neon brillavano come fari, proiettando ombre distorte sui marciapiedi pieni di crepe. Gli ologrammi pubblicitari fluttuavano nell'aria, promettendo vite migliori, corpi perfetti, sogni a portata di mano — tutto dietro un prezzo nascosto che Baby non avrebbe mai potuto permettersi.

Attorno a lei, il caos era una costante. Uomini e donne con impianti luccicanti sfrecciavano in veicoli che fluttuavano sopra le strade illuminate da segnali stradali, mentre figure più oscure si muovevano furtive tra i vicoli, le facce nascoste da maschere elettroniche. Una rissa scoppiò a pochi metri di distanza: un uomo colpì un altro con una forza che nessun corpo umano avrebbe potuto generare. Baby si fermò un attimo a osservare, ma nessuno sembrava prestare attenzione. La città non aveva tempo per gli sconfitti, per i deboli.

Si tirò su il cappuccio della felpa, sperando di sparire in mezzo a tutto quel frastuono. L'aria fredda le congelava la faccia, ma il suo odore era ancora peggiore: un misto di metallo arrugginito, carburante e immondizia che si mescolava alle spezie delle bancarelle di strada. Camminava a passo svelto, stringendo il poco che aveva nella sua borsa, senza mai alzare lo sguardo.

Non ci mise molto a tornare a casa. Il suo condominio, un ammasso di cemento malandato, la aspettava come sempre, cupo e silenzioso. Le scale, come al solito, erano l'unica opzione: l'ascensore era fuori servizio da anni, e nessuno sembrava avere intenzione di ripararlo. Baby salì i gradini, i piedi pesanti, e raggiunse il piano del suo appartamento.

Fu lì che la vide.

La porta del suo loculo era sigillata. Un blocco metallico grosso come il pugno di un gigante era stato fissato sopra la serratura, il suo schermo digitale lampeggiava con una richiesta: Inserire password. Solo il capo condominio poteva sbloccarla.
Baby spalancò gli occhi, il cuore che le batteva in gola. Sentì il panico salire, un'ondata fredda che le gelava lo stomaco. Non aveva molto dentro quell'appartamento. Tutto ciò che contava davvero era nella sua sacca da allenamento. Ma l'idea di non avere più un tetto sopra la testa, un letto su cui riposare, la paralizzava.

Non aveva più soldi, però. Quello scontro era la sua ultima possibilità di pagare l'affitto. Era già indietro di due mesi, e il proprietario l'aveva avvertita più volte. Baby aveva sperato, si era aggrappata all'illusione che avrebbe vinto, che avrebbe potuto saldare tutto. Ma poi, pochi secondi prima del combattimento, il suo avversario era stato rivelato.

Aveva capito immediatamente che era finita.

Eppure era salita sul ring lo stesso.

Baby rimase immobile, il respiro bloccato. Il suo sguardo rimase fisso sul blocco metallico della porta, mentre i pensieri si accavallavano, inutili e confusi. Che cosa avrebbe dovuto fare? L'istinto le diceva di restare lì, di provare a risolvere la situazione, ma ogni possibile soluzione si dissolveva prima ancora di formarsi.

Iniziò a camminare avanti e indietro, il suono dei suoi passi deboli rimbombava nel corridoio vuoto. Poi, un rumore la fece sussultare. Una porta, poco distante, cigolò leggermente, come se qualcuno si stesse preparando a uscire.

No. Non poteva farsi vedere. Non così, non in quello stato. Sarebbe stato troppo umiliante.

Senza pensarci due volte, si voltò e corse giù per le scale. I gradini sembravano interminabili, il peso della sacca che le rimbalzava contro la schiena. Una volta fuori, il fresco della notte la colpì, ma non si fermò. Continuò a correre, spingendosi avanti come se stesse scappando da qualcosa di più grande della sua stessa disperazione.

Corse finché i polmoni non iniziarono a bruciare, finché le gambe non cedettero e gli occhi cominciarono a pizzicarle, minacciando di tradirla. E poi le lacrime arrivarono, rapide, irrefrenabili. Le scivolarono sulle guance, calde e amare, mentre gemiti soffocati le uscivano dalla gola. Gemiti di dolore, rabbia, impotenza.

Rallentò, i piedi che si trascinavano sull'asfalto bagnato, fino a fermarsi in una via praticamente deserta. Era stretta, buia, illuminata solo da qualche insegna al neon troppo lontana per offrirle conforto.

Lì, Baby crollò.

Si lasciò cadere sul marciapiede, la sacca scivolò accanto a lei con un rumore sordo. Si portò le mani al viso, ma poi le abbassò, lasciando che il viso si poggiasse direttamente sul freddo dell'asfalto. Pianse. Non le importava più di niente, né di chi potesse vederla, né di quanto fosse sporca quella strada.

Pianse finché il dolore non si trasformò in un lontano ronzio.



*cyrurgo: gergo per cyberchirurgo.
*crybz: gergo per cybercredito.

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