𝐼𝑠𝑡𝑖𝑛𝑐𝑡𝑠
"Se vuoi ti sostituisco io per un po', in sala" disse dolcemente Kevin. Era inginocchiato davanti a Jed da ormai una quindicina di minuti e non aveva idea di come farlo smettere di piangere. Il minore scosse la testa, si asciugò le lacrime per l'ennesima volta ed evitò accuratamente lo sguardo dell'albino. "È il mio lavoro, n-non il tuo, Kevin" mormorò Jed cercando di controllare i sussulti di cui era preda il suo corpo. "Lo so, Jed, però... Voglio dire, non mi sembra che tu stia bene." "No, no, sto benissimo. Sì, io... Vado un attimo in bagno, hm?" Jed si alzò di scatto e si allontanò velocemente. Kevin si lasciò cadere sul pavimento con un sospiro, attendendo che il minore tornasse. Dopo alcuni istanti colse l'inconfondibile suono dei suoi singhiozzi, allora si alzò e, senza dire una parola, lasciò lo spogliatoio. Si diresse a passo spedito verso il pianoforte, ma una voce lo fermò a pochi passi dalla sua meta. "Tu... lavori con Jed?" Si voltò verso il ragazzo che gli aveva posto la domanda guardandolo con diffidenza. "Secondo te?" ribatté Kevin. Aveva il presentimento di sapere chi quel ragazzo fosse e cosa volesse. "Sì, hai ragione, era una domanda stupida" rispose Jonathan visibilmente a disagio. Rimase qualche istante in silenzio, alla ricerca delle parole giuste, poi chiese: "Jed sta bene?" "Aspetta, aspetta, è in quello stato a causa tua?" Jonathan abbassò lo sguardo. Per un attimo ebbe l'impulso di andarsene, senza aggiungere altro, ma alla fine non ci riuscì. "E mi chiedi anche se sta bene? Dio, non so cosa tu gli abbia detto o fatto, ma se fossi in te mi vergognerei a morte. E di sicuro non avrei il coraggio di rimanere qui un minuto di più." Kevin continuò a guardarlo, aspettandosi un qualsiasi tipo di reazione da parte del suo interlocutore, ma lui pareva impassibile. Aveva ormai deciso di ignorarlo quando lui invece si riprese. "Senti, Jed non vuole ascoltarmi, quindi diglielo tu per me: mi dispiace. Mi dispiace tanto, perché non meritava niente di tutto quello che gli ho fatto." Kevin sospirò sentendo la rabbia salire. "Le persone come te mi fanno proprio incazzare" disse tra i denti avvicinandosi a Jonathan. "Fa comodo fare il cazzone e poi venire a farsi perdonare, eh? Credi che delle semplici scuse bastino per farlo stare meglio? Credi che grazie alle tue parole lui smetterà di piangere, di soffrire?" "No" rispose Jona, suo malgrado. "Allora perché cazzo parli a fare?" "Hai ragione, ma so perfettamente quali sono i miei errori. So che sono imperdonabili e convivo ogni giorno con la sensazione di essere un pezzo di merda. Per questo motivo non ho bisogno di qualcuno che me lo rinfacci." Jonathan concedette a Kevin un ultimo sguardo. "Beh, grazie per la chiacchierata." Incurvò leggermente gli angoli della bocca e uscì senza voltarsi. Per un attimo l'albino valutò l'idea di seguirlo e riempirlo di pugni, ma poi si disse che non ne sarebbe valsa la pena. Ancora non del tutto convinto tornò nello spogliatoio, bussando poi alla porta del bagno. "Ehi?" Non se la sentiva di fare domande idiote come: "Va tutto bene?" perché era ovvio che non ci fosse assolutamente nulla che andasse per il verso giusto, in quel momento. La porta si aprì e ne emerse un Jed con gli occhi gonfi, ma almeno un pochino più stabile, o così sembrava. "Come va?" chiese Kevin cercando di incrociare lo sguardo del minore, che però trovava più attraente la parete giallognola dietro il ragazzo. "Non lo so. Credo un po' meglio: probabilmente avevo solo bisogno di. sfogarmi. È meglio che torni a lavoro, ora. Ho perso fin troppo tempo." Rispose Jed tirando su col naso. Kevin sapeva che avrebbe dovuto impegnarsi per trovare qualcosa da dire, qualsiasi cosa, poche parole per tentare, quantomeno, di rassicurarlo, ma più cercava e più le idee diminuivano. Alla fine si arrese alla propria mancanza di empatia e annuì, scostandosi leggermente per lasciar passare il minore, che tornò in sala senza fiatare. "Aeshj." mormorò l'albino quando fu di nuovo solo nello spogliatoio. Si sedette sulla panca di legno chiaro e si prese la testa tra le mani. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era un piccoletto di diciassette anni cui badare, eppure sentiva di dover fare qualcosa per quel ragazzo. Forse era perché somigliava per alcuni tratti alla versione diciassettenne di Kevin, oppure semplicemente l'albino voleva illudersi di conservare in sé dei residui di altruismo. "Non fare niente sarebbe da insensibili" disse rivolto ai suoi cari spartiti, sparpagliati alla sua sinistra. "Ma immischiarsi sarebbe da stupidi" continuò, come se quelle note potessero rispondergli, dargli un consiglio utile che potesse applicare. Le fissò a lungo, ma l'unica cosa che ci guadagnò fu del tempo sprecato. Alla fine rinunciò a trovare una soluzione al suo dilemma e tornò a sondare quei fogli alla ricerca dell'errore che impediva alla melodia di risultare come avrebbe dovuto. Erano degli spartiti che aveva scritto sua madre anni prima, e se lei fosse ancora stata in grado di ragionare come quando componeva musica, allora sarebbe stato semplice chiederle aiuto e Kevin avrebbe già trovato l'errore in quelle pagine. Però la madre di Kevin era ricoverata in un ospedale psichiatrico e non riconosceva più nemmeno il proprio figlio. Appena vedeva i suoi capelli bianchi ei suoi occhi chiari iniziava a gridare, a chiamare aiuto, ad urlare che un mostro era appena entrato nella sua stanza. Kevin aveva provato più di una volta a spiegarle che, no, non era un mostro, ma suo figlio, il bambino che per anni aveva coccolato e amato, ma alla fine si era arreso. La cruda realtà era che perfino per sua madre lui non che un orrendo abominio, e allora aveva pensato che se nemmeno la donna che avrebbe dovuto amarlo più di chiunque altro al mondo lo considerava degno del proprio affetto, allora nessuno l'avrebbe voluto al proprio fianco. E di fatto nessuno l'aveva mai voluto. Era stata dura convivere con la consapevolezza di essere l'ultima ruota del carro di un'intera società, ma alla fine Kevin aveva trovato il rimedio alla sua immensa malinconia: la musica. E se da un lato aveva il terrore di finire come la madre, dall'altro lo consolava l'idea che, nel caso fosse successo, almeno avrebbe smesso di soffrire.
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