𝐈𝐈𝐈. 𝐈𝐧𝐝𝐚𝐠𝐚𝐧𝐝𝐨
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Iniziava ad avere conferme sulla sua instabilità mentale. Qualsiasi uomo normale sarebbe corso alla polizia dopo quel messaggio, soprattutto dopo essere sopravvissuto al proprio tentato omicidio.
Invece, Aleksander restò lì a fissare il messaggio per tutto il giorno. Lo rileggeva con attenzione, quasi disillusione. Non sentiva offensive le parole per la sua defunta moglie e sembrava sul punto di urlare al suo aggressore che lo stava aspettando. Aveva trascorso il resto della serata col telefono posato sul tavolo. Aveva mangiato come se nulla fosse. Poi aveva guardato un po' di televisione e si era addormentato.
Aveva lasciato perdere tutto quello, si sentiva un po' come una preda che si nasconde al cacciatore, ma si affidava completamente alle parole del poliziotto che gli aveva detto che il ritorno del suo assassino non sarebbe stato così imminente. Erano solo minacce velate per provare ad intimidirlo.
Il mattino seguente si mise in piedi, fece colazione con del caffè bollente, guardando fuori dalla finestra: l'atmosfera grigia lo rilassava. Si guardò intorno, consapevole che l'ennesima giornata fredda era incominciata. Alzò lo sguardo verso l'orologio a parete in cucina e si rese conto che doveva muoversi per andare all'appuntamento con la dottoressa. Corse verso il bagno e si immerse sotto l'acqua gelida, lasciandosi avvolgere da quella particolare sensazione rigenerante e socchiuse gli occhi.
Dopodiché uscì, vestendosi frettolosamente e indossando un maglione a collo alto e dei jeans comodi. Si sistemò meglio i capelli guardandosi allo specchio e si passò una mano nella barba, storcendo il naso. Prima o poi se ne sarebbe liberato, era troppo incolta.
Ogni giorno si sentiva particolarmente stanco, nonostante avesse "riposato" per circa un mese. Quell'essenza vitale, voglia straordinaria di riprendere a vivere, non esisteva in lui. Trascorreva quasi tutti i giorni allo stesso modo da una settimana.
Liberò il bagno e afferrò il telefono posato sul tavolino il giorno prima. Osservò nuovamente quello strano messaggio. Forse avrebbe dovuto provare a chiamare, ma non ne aveva molta voglia, probabilmente era stato mandato da un telefono usa e getta e la scheda già distrutta.
Infilò il telefono nella tasca del cappotto, prese le chiavi di casa, il portafoglio e tentennò osservando quella chiave misteriosa. Decise di prenderla comunque, tanto dopo la seduta con la dottoressa sarebbe andato agli uffici della metropolitana di Oslo per cercare di comprendere quale fosse il suo ruolo lì e il suo lavoro.
Uscì così da casa e il vento gelido sferzò tra i suoi capelli, facendolo rabbrividire.
Si voltò alle proprie spalle e roteò gli occhi al cielo per aver dimenticato ancora una volta l'ombrello. Decise di indossare un cappello per poter coprirsi il capo nel caso, tanto lo teneva in una tasca del giaccone.
Si incamminò così per le strade di Oslo, seguendo il solito percorso, attraverso il Parco Reale, guardandosi intorno e nascondendo le mani nelle tasche del giaccone. Fece tintinnare le chiavi al suo interno, sorridendo appena per il rumore mentre quegli oggetti si scontravano con la fede che portava al dito. Ancora non riusciva a spiegarsi come mai la portasse sempre con sé. Si fermò sul posto pensando che non fosse andato quel mattino da Deli de Luca, ma decise che ci sarebbe passato in serata, di ritorno dalla metropolitana. Fece un leggero sbuffo e sorrise spensierato guardando l'aria muoversi congelata, quasi come fosse fumo di un drago. A volte certi atteggiamenti in lui gli sembravano quelli di un bambino, ma per lo meno c'era ancora qualcosa che lo facesse sorridere.
Osservò i diversi turisti accalcarsi verso il Palazzo Reale per assistere al cambio della guardia, così come i cittadini che correvano per lo jogging in tuta, approfittando dell'aria fresca. La sua stazza e corporatura gli avevano spesso lasciato presagire che anche lui fosse un uomo molto attento al proprio stato di salute e anche piuttosto allenato.
Sbuffò piano, passandosi una mano in volto.
Svoltò verso l'uscita del parco, tenendosi ben riscaldato nel giaccone, e si mosse verso il centro di Oslo e il palazzo della dottoressa.
Una volta arrivato salì le scale del palazzo dopo aver citofonato. L'interno era spazioso, e una lunga scalinata conduceva al terzo piano dove c'era l'appartamento della psicologa. Aveva deciso di evitare l'ascensore, in quegli ultimi periodi l'idea di un luogo chiuso e stretto lo spaventava quasi, il fiato corto, alla ricerca d'aria. E si sentiva di nuovo come sott'acqua spinto da una forza violenta che cercava di affogarlo.
Entrò così nell'appartamento, felice di non essere in anticipo e non dover trascorrere del tempo in silenzio nella sala d'attesa. La segretaria gli lanciava spesso occhiate fugaci, sbattendo le palpebre e le ciglia, cercando di riscaldarlo con qualche sorrisetto smagliante. Probabilmente non conosceva la sua storia, altrimenti avrebbe evitato di atteggiarsi in quel modo. O semplicemente conosceva bene tutto e la sindrome da crocerossina aveva fatto capolino nella sua mente.
La dottoressa era sull'uscio della porta, con le braccia incrociate e gli sorrise gentile. Era una donna non molto anziana, e a volte parlarle lo tranquillizzava. Aveva un fare quasi materno e sentiva dolcezza nelle sue parole, non pietà. E di questo non avrebbe mai smesso di ringraziarla. «Allora, sei pronto, ci sei?»
Annuì con un cenno del capo e la seguì in ufficio, accomodandosi sul solito divano che addobbava la stanza insieme a qualche pianta ornamentale e un quadro riproduzione di qualche artista famoso, ma non ne aveva memoria. Aggrottò la fronte per qualche istante osservandolo. «Come ti senti oggi?»
Scrollò le spalle. «Cerco...sto cercando di tenermi impegnato. Dopo vorrei passare negli uffici della metropolitana e vedere se il posto di lavoro mi porta alla mente qualcosa. Per ora è ancora tutto una tabula rasa.» ammise, grattandosi dietro alla nuca un po' in imbarazzo. «E-...» si bloccò poi mordendosi un labbro. Forse non avrebbe dovuto parlarne con lei, ma con qualcuno di competente.
«E...? Cosa c'è?» accavallò le gambe sistemandosi meglio gli occhiali sul naso arcuato.
«Ho ricevuto un messaggio minatorio ieri sera...» sfilò il telefono dalla tasca del pantalone e glielo porse. La donna si incupì. «So che avrei dovuto avvisare le autorità, ma mi sembra inutile. Mi hanno detto che lui non può avvicinarsi subito dato lo scandalo e gli omicidi di cui non si fa altro che parlare. E poi, potrebbe essere qualche idiota che si sta divertendo... Ce ne sono tanti in giro, di idioti.»
La donna sembrò riprendersi per qualche istante dalla sorpresa del messaggio. Alzò lo sguardo verso di lui, avvicinandogli nuovamente il telefono. «Quando l'hai ricevuto? Eri in casa, sotto protezione?»
Aleksander annuì con un cenno del capo e sistemò il telefono in tasca. «Stavo semplicemente cenando dopo-» tentennò un momento. Non voleva raccontarle di essere andato al cimitero nonostante gliel'avessero sconsigliato. «-dopo una passeggiata.» era una mezza verità, in fondo.
«Stai bene? So che non vuoi farlo, ma forse la polizia potrebbe indagare o migliorare la sicurezza nei dintorni, ma è pur sempre una tua scelta.»
«Passerà, sta solo cercando di divertirsi.» Non sapeva bene perché era certo di quelle parole, ma c'era una voce in lui che gli suggeriva quell'ipotesi.
«E che effetto ti ha fatto ricevere quel messaggio?»
«Forse sarà da psicopatico, non lo so. Ma non ho sentito nulla.» Sbuffò. «Ho scrollato le spalle e bevuto altra birra. Poi mi sono addormentato, ero stanco. Non ho provato nulla e la cosa mi spaventa. Sa, a volte mi sento come se fossi il pezzo di un puzzle, ma in più. Quel puzzle è già completo e non c'è spazio per il mio, di pezzo. Non riesco a trovare il mio posto attualmente, e né mi sento Aleksander Jørgensen. È stupido, lo so, ma sento che questo vestito che mi stanno cucendo addosso mi vada stretto.»
«Hai scelto una metafora particolare...Alek, posso chiamarti così? Possiamo scegliere anche un altro nome se vuoi.»
«No, va bene Alek. Non voglio fare ulteriore confusione.» ridacchiò nervosamente, tamburellando con le dita sul tavolino di fronte.
La donna gli sorrise gentile. «Dicevo, hai scelto una bella metafora, perché un puzzle, c'è un motivo in particolare che ti fa pensare a tutto ciò?»
Aleksander aggrottò la fronte e si sentì risucchiato da un limbo di emozioni. Si passò una mano in volto e socchiuse gli occhi per qualche secondo, cercando di captare quella voce dentro di sé, quella sensazione. «Forse c'è qualcosa. Ho in mente un'immagine calda, mi sento a casa e sto facendo un puzzle con qualcuno. Ma non capisco.» scosse il capo, mettendosi in piedi e avvicinandosi alla finestra, come ogni volta che era in difficoltà. Guardare il mondo dall'esterno era un modo per prendere di nuovo aria, staccando temporaneamente da tutta quella confusione. La dottoressa teneva gli occhi puntati su di lui, ascoltandolo in silenzio. Sospirò sconfitto. «Non capisco fino a che punto questi ricordi siano reali o una proiezione di ciò che vorrei essere. Mi sembra di star cercando di entrare con forza in una parte che non mi appartiene. Cerco di indossare quella maschera che tutti mi attribuiscono, ma poi ogni tanto mi chiedo dove sia la verità.» si voltò a guardarla. Il suo sguardo grigio come il cielo in tempesta era annebbiato dalle lacrime. Si passò una mano in volto. Si sentiva come un cucciolo abbandonato per strada. Senza meta, senza nessuno, ma soprattutto senza identità. «Ma io chi sono, dottoressa?» chiese ancora con la voce tremante.
***
L'incontro era stato importante, lo aiutava comunque a dar alito al proprio dolore, ai propri pensieri che finalmente non restavano relegati in un angolino rinchiuso nella sua mente. Ci avrebbe pensato a lungo a quei discorsi, era stato strano dire il tutto ad alta voce. Aveva reso i suoi dubbi reali. Quando era stato a casa aveva visto la divisa che portava a lavoro e i suoi successivi turni. Quel giorno avrebbe dovuto lavorare sulla linea tre della metropolitana. Sapeva che di solito fosse quasi sempre affollata di turisti perché poco distante dal parco di Vigeland, una delle più interessanti attrazioni turistiche. Dato che non ne aveva nessun ricordo aveva pensato di approfittarne per fare una passeggiata successivamente, magari sarebbe tornata utile. Sbuffò piano, imboccando l'ingresso per la metropolitana due e, successivamente, avrebbe preso la tre fino alla fermata utile. Attese il treno qualche istante, mentre diversi gruppi di ragazzi si accalcavano ridendo tra loro e scherzando. Tutti erano in attesa dell'arrivo del treno e si soffermò a guardare e ammirare la loro spensieratezza. Aveva notato quanto amasse osservare gli altri, potendo immaginare tutte le piccole sfumature e spigolature dei loro caratteri.
Una ragazza se ne stava in disparte, cercando di escludersi dagli scherzi degli amici, non riuscendo a nascondere però un sorriso spontaneo quando uno di loro le rivolgeva la parola.
Doveva essere bello essere innamorati, soprattutto da adolescenti.
Il fischio del treni attirò la sua attenzione e si riversò una delle carrozze perdendo di vista quei giovani ragazzi. Si accomodò e restò in un tombale silenzio per tutto il tragitto.
Si aspettava che, ripercorrendo il tunnel buio -seppur un po' illuminato- della metropolitana dove spesso aveva lavorato, qualche ricordo lontano tornasse improvvisamente a galla. Invece aveva lo sguardo confuso e disorientato, come un turista qualsiasi. Arrivò in superficie, avvicinandosi al gabbiotto delle guardie e non appena bussò contro il vetro, un uomo alzò lo sguardo aggrottato. Si rilassò non appena lo riconobbe e sorrise felice. Uscì rapidamente andandogli incontro. Era abbastanza alto, forse un po' grassoccio, ma gli enormi baffi scuri gli conferivano un'aria familiare e simpatica. Lo abbracciò forte, d'istinto e Aleksander fece quasi per arretrare a quel contatto così animato.
«Alek! Mi avevano detto fossi uscito dal coma! Ho provato a chiamarti amico mio, ma il numero era morto! Come stai bello mio?» ridacchiò con la sua voce rauca sorridendogli sinceramente.
«Oh, beh il telefono era distrutto e ho dovuto cambiare numero...mh, Richard, giusto?» chiese indicando il cartellino e aggrottando la fronte, rabbuiandosi. Avrebbe voluto sinceramente ricambiare tutto quell'affetto, ma gli risultava difficile.
«Oh...avevo sentito dire della memoria, scusami non volevo essere invadente.»
Aleksander sorrise. «No, anzi. Grazie. Mi ci voleva un bell'abbraccio.»
Richard sembrò felice di sentire quelle parole e lo invitò a uno dei distributori automatici per prendere qualcosa da bere insieme. «Amavi correggere la schifezza di questo caffè con del whisky. Avevi sempre una fiaschetta con te.» ammiccò nella sua direzione.
Aleksander si portò istintivamente le mani nella tasca interna del giaccone. Un movimento recondito, gestito solo dal suo subconscio. Schiuse le labbra ma nessuna parola riuscì ad uscirgli. «Oh...» tossicchiò schiarendosi la gola. «Sto cercando di rimettere i pezzi insieme, Richard. Volevo capire anche se avessi ancora un lavoro.»
L'uomo sorrise gentile porgendogli il caffè. «Certo che sì! Ti hanno messo in temporanea malattia, e ti pagheranno comunque non è colpa tua ciò che ti è successo. Anzi l'azienda ti ha mandato anche le proprie condoglianze per posta. Mi dispiace, sul serio. Per quel che ne vale.» Richard gli posò una mano sulla spalla.
«Grazie.» Avvicinò il caffè alle labbra. Bevve piano e storse il naso. Quel cazzo di caffè era veleno. Cristo, era ovvio che lo correggesse per quanto faceva schifo. Deglutendo nauseato, si guardò intorno. «Hai numero e mail per contattarli? Magari potrei riprendere nei prossimi giorni, mi terrei distratto e mi aiuterebbe a trovare la mia normalità.»
Richard sorrise felice. «Certo.» si incamminò verso il gabbiotto cominciando a scribacchiare su un foglio frettolosamente. «Anche se ti auguro di trovarla davvero quella pace, Alek. Non mi sembra tu l'abbia mai avuta...te lo meriti. Philip per lo meno ti sarà vicino, no?»
Aleksander scosse il capo, confuso. Arricciò il naso. «Chi?»
«Philip è il tuo migliore amico. Venivate sempre a lavoro assieme, ti accompagnava lui spesso. Dopo il lavoro andavamo a volte a bere la birra locale in un pub, o a mangiare tanto salmone fino a stare male.» Richard si sistemò la divisa, poi aggrottò la fronte. «In effetti neanche io lo sento da un po', sai?»
«I-io non l'ho incontrato.»
«Strano che non sapesse nulla. Non mi stupirebbe se avesse pensato solo al lavoro però negli ultimi tempi. Guarda ti scrivo il suo numero e il suo indirizzo, potresti provare a parlargli. Immagino tu stia cercando risposte, altrimenti non saresti qui. Sei sempre stato un osservatore, Alek. Riconosco il tuo sguardo.»
Gli sorrise grato, prendendo il foglio dalle sue mani e accartocciandolo nella tasca del giaccone, tenendo lo sguardo fisso su di lui. «Sembra tu mi conosca molto bene.»
«Sono anziano, Alek. Sono prossimo alla pensione e sei stato come un figlio per me in quest'anno. Mi dispiace non essere venuto da te, ma quest'anca mi dà tanti problemi!» disse poggiando la mano sul fianco, sorridendogli, nonostante tutto. Trascorse ancora un'ora in compagnia di quel vecchio sorvegliante, trovava piacevole la sua presenza e riuscì a tenerlo distratto con la sua allegra chiacchiera. Dopodiché lo salutò e, incamminandosi verso il Parco Vigeland, si rigirò tra le mani il biglietto col numero di Philip, il suo cosiddetto migliore amico.
Se fosse stato tale avrebbe dovuto correre in suo soccorso dopo la morte della moglie e il suo coma?
Dove cazzo era al suo risveglio?
Continuava a leggere il suo numero, corrugando la fronte e mordicchiandosi nervosamente il labbro, indeciso sul da farsi.
Il Parco Vigeland lo sorprese, mozzandogli il fiato. Numerose statue si susseguivano una dietro l'altra raffigurando tutti gli stadi possibili dell'uomo. Dalla sua nascita, col pianto, alla morte più atroce. Attraversava tutte le fasi, dall'amicizia all'amore, alla perdita. Numerosi turisti si divertivano a posare indossando le stesse espressioni o bronci delle statue e si soffermò a guardarli con un sorriso divertito all'angolo della bocca. Guardò intensamente la fontana centrale, zampillante, simbolo della vita e della rinascita.
Osservò la statua di due bambini che correvano tenendo le mani in alto, sorridenti e si soffermò a pensare che forse una volta era anche lui così spensierato. Adesso, però, la sua mente era così vuota che necessariamente si aggrappava all'illusione, all'utopia di un pensiero, di un ricordo. Sentiva così tanto l'esigenza di avere qualcosa su cui arrovellarsi, che forse iniziava a inventare ricordi pur di averne.
Forse quel parco gli stava suggerendo velatamente che anche dalle proprie ceneri c'era la possibilità di risorgere, in qualche modo. Chiunque fosse stato Aleksander Jørgensen in precedenza, adesso aveva una seconda possibilità. Non avrebbe dovuto sprecarla, poteva finalmente riscattarsi, essere di sicuro un uomo migliore di ciò che era stato. Rigirò con curiosità il biglietto tra le mani, riprendendo a leggere quel numero di telefono.
Per poter risorgere come una fenice, però, doveva conoscere bene anche le proprie ceneri, e forse Philip poteva rappresentare l'inizio delle risposte alle sue domande.
Stranamente la giornata era cambiata, da uggiosa a soleggiata in uno dei suoi tanti cambi d'umore.
Quando fece ritorno a casa, ormai era sera tardi. Aprì il frigorifero, ripromettendosi che il mattino seguente ne avrebbe approfittato per fare una spesa. Decise di fare una lista delle cose da fare, per ritornare a vivere. E quella lista includeva sicuramente chiamare Philip e avere il coraggio di esplorare il suo appartamento. Ormai non faceva altro che vivere in salotto, addormentandosi sul divano pur di non affrontare la camera da letto e possibili spiacevoli verità. Doveva avere coraggio e conoscere se stesso, per poter costruire un uomo nuovo. Accese ancora una volta distrattamente la televisione, e lanciò uno sguardo alla finestra. Un'auto della polizia stava facendo la solita ronda e si chiese per quanto tempo sarebbe durato quella sottospecie di incubo.
Iniziò a mangiare un'insalata, dopo aver cotto dei petti di pollo e sgranocchiò tutto in silenzio mentre osservava ancora il numero del suo presunto migliore amico.
La scrittura di Richard era molto disordinata, confusionaria e probabilmente le sue mani avevano iniziato a tremare sotto gli effetti della vecchiaia. Sorrise amareggiato, il tempo era così crudele con l'uomo. A lui ne era stato sottratto un mese. Si passò una mano tra i capelli, e si alzò sistemando il tutto. Prese il telefono per chiamare Philip, quando notò una lettera imbucata da sotto la porta e si avvicinò, piano.
Era indirizzata a lui, ma proveniva da tutt'altra parte. L'indirizzo era Americano e inarcò un sopracciglio.
Evidentemente Aleksander aveva tanti segreti da raccontargli.
Angolino
Un po' di ansia e curiosità per il prossimo capitolo.
Chi sarà mai nella lettera? Avete idee?
E secondo voi Philip perché sembra scomparso? Effettivamente un migliore amico dovrebbe preoccuparsi dello stato di salute dell'altro, no?
Aleksander è tormentato, e ha ancora difficoltà a chiamarsi così. Che ne pensate di lui?
Fatemi sapere, è importante il vostro parere.
Alla prossima ❤️
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