[ni-jū ni] jiwon
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nei media: ninelie by aimer
I can let this
silence resound
仮ゲま握音永
JIWON
[the weight of the past]
La prima volta che vidi Taehyung nuotare fu a una competizione. Ironico come le nostre vite si intrecciassero persino nelle cose più banali. Io mi ero nutrito di competizioni per tutta la vita, erano state il mio orgoglio più grande per tanto tempo, fintantoché ne uscivo vincitore. Gare di calcolo numerico, gare di vocaboli, gare di velocità. Avevo sempre ottenuto il primo posto, ero sempre stato lo studente eccelso, acclamato dalle giurie e odiato dal resto dei partecipanti. E non mi era mai neppure importato che mi odiassero, perché ero cresciuto con la convinzione che chiunque non primeggi in qualcosa venga automaticamente etichettato come fallito, e dunque non alla mia altezza. Vincere era l'unico traguardo contemplabile per me. Il podio era l'unico posto che mi rendeva orgoglioso di me stesso, ciò per cui ero stato plasmato sin da quando ero in fasce.
Questo fino a quando non ero diventato io stesso un fallito, uno di quelli che papà guardava con sdegno e sfrontata soddisfazione, mentre mi assegnavano l'ennesima medaglia. Quella placca dorata tanto spessa e pesante quanto vuota e inconsistente, che si era aggrovigliata intorno al mio collo fino a strangolarmi, quasi mortalmente.
Vincitore da sempre, e infelice da una vita.
Dunque, per me era naturale cercare in Taehyung un segnale di tensione, un po' della competitività malsana che caratterizzava me quando partecipavo a qualche gara. Quello stato di nervosismo profondo che ti carica di adrenalina e ti svuota di umanità, mentre cerchi di intimidire gli avversari e di motivare te stesso. Affondare il prossimo per risalire in superficie, sempre più in alto, sempre insoddisfatto, come un alpinista che raggiunge una vetta e sta già pensando alla prossima, più difficile da scalare, più impossibile da conquistare.
Ma Taehyung non era così. Non c'era niente in lui che palesasse la sua tensione, niente nel suo sguardo che potesse essere definito competitività, smania di vincere, adrenalina. Gli occhi di Taehyung erano vitrei, spenti, tristi come sempre, mentre entravamo nel centro sportivo dove si sarebbe tenuta la gara. Indossava una tuta grigia con il cappuccio alzato sulla testa, e grigia come i suoi abiti era l'aura che emanava mentre camminava in silenzio, fissando il pavimento. Le sue ciocche azzurre iniziavano a sbiadire, non erano più di quel colore vivido e innaturale che avevano quando l'avevo visto per la prima volta fuori dalla porta della mia stanza. Lo guardavo con la coda nell'occhio, camminando al suo fianco, ma più di tutto osservavo le sue mani, sepolte nelle tasche dei pantaloni. Avrei voluto tanto stringergliele, chiedergli cosa lo turbasse così tanto, perché non fosse felice quanto me dopo ciò che era accaduto in camera sua, dopo quel bacio che avrebbe dovuto cambiare tutto tra noi, e che invece non aveva cambiato proprio niente. Strinsi le mani a pugno, affondando le unghie nei palmi, nel tentativo di fermare quell'istinto. Ero agitato, e non ne capivo il motivo.
Dicono che alcune persone siano dotate di un sesto senso, come una sorta di campanello d'allarme che risuona nel cervello quando qualcosa di brutto sta per accadere. Mi sono sempre chiesto se fossi una di quelle persone, e me lo sono sempre chiesto proprio per ciò che accadde quel giorno, e per alcuni degli eventi che seguirono. Probabilmente è solo una stupida credenza di qualcuno che legge fin troppi romanzi e che non sa distinguere una coincidenza da una fatalità, ma io sono sempre stato un fatalista, anche a quel tempo. Soprattutto allora. Per me o era stato il destino a farci incontrare, o una sorta di magia senza nome, come quelle che avevo visto nei film sentimentali che guardava mia madre, quando due anime gemelle si incontrano per la prima volta e intorno a loro sembra esplodere una luce sfolgorante, come una supernova. Sono romantico? Forse. Irrealistico? Sicuramente. Soprattutto considerando che le supernove non sono altro che morti travestite da meraviglie dell'universo, e quando una stella muore può andare incontro soltanto a due destini, a due fatalità: generare una stella degenere o diventare un buco nero. Capite che per quelli come me, per gli empatici che sentono sulle proprie spalle il dolore di tutti, il mondo irreale è decisamente più confortante di quello reale. È un po' come scegliere di credere alla reincarnazione delle stelle e non ai buchi neri. È come una fede. Niente a che fare con la religione, è più un qualcosa di spirituale. Il problema della fede sta nella parola stessa: affidarsi a qualcosa che non c'è o non si vede. E non c'è modo di vedere il proprio destino, o meglio di prevederlo, così come non c'è modo di comprenderlo o accettarlo quando questo non rispecchia le nostre aspettative. Non c'è modo di sapere se esista per davvero o se sia tutto frutto della nostra fede in esso, del nostro voler dare un significato più profondo a qualcosa che il resto del mondo definirebbe una semplice coincidenza. Ma non per me, perché io nutrivo quel tipo di fede, perché qualunque cosa ci fosse tra me e a Taehyung per me si poteva definire in un solo modo: destino.
Già, a quel tempo credevo in tante cose.
Anche quando alla fine Taehyung tolse le mani dalle tasche e le lasciò ciondolare lungo i fianchi, avevo creduto in qualcosa di superiore, in un invito ad afferrarle e a non lasciarle andare. E così lo feci, allungai la mia mano tremante e strinsi la sua.
Taehyung mi guardò e accennò un sorriso, l'angolo della bocca si sollevò appena, ma i suoi occhi scintillarono quando incontrarono i miei. Ricambiai il sorriso, arrossendo un po'.
«Come ti senti?» chiesi.
Taehyung fece spallucce, distogliendo lo sguardo. «Come sempre. Ci sono abituato ormai. Partecipo alle gare almeno tre volte l'anno.» Esitò un momento prima di continuare, la sua mano fremette nella mia. «E tu? Come ti senti? È un po' affollato qui dentro. Forse ho sbagliato a portarti qui. Ho sbagliato di nuovo.» Come quando ti ho portato da Yerin per la prima volta. Questo non lo disse, ma riuscii a sentirlo comunque. Celate fra le parole che mi diceva, si annidavano le cose che non mi avrebbe detto mai. Gran parte di quelle cose riguardavano Yerin.
E celata nei miei occhi invece c'era la paura, perché quel posto era davvero affollato, e tutti gli occhi erano puntati su di noi nel momento in cui attraversammo l'ingresso principale ed entrammo nella sala che ospitava la vasca olimpionica. Taehyung non sembrò farci troppo caso. Lanciava rapide occhiate intorno a sé, salutando con la mano e un mezzo sorriso i volti che riconosceva e ignorando tutti gli altri. Sembrava annoiato, ma anche nervoso. Non avevo mai visto quello sguardo nei suoi occhi. Era come neve, e fuoco allo stesso tempo. Calma gelida e bruciante tensione.
Quando tornò a guardarmi, quello sguardo svanì in un istante, come se non fosse mai esistito, sostituito da un'espressione tenera e un po' colpevole.
«Ti ho chiesto io di portarmi con te, quindi perché dici che hai sbagliato?» borbottai, giocando con l'orlo della sua manica.
Taehyung fece una risata nasale, allontanando la mano solo per arruffarmi i capelli. I suoi occhi erano fissi nei miei, due mandorle puntute splendenti come stelle nei cieli blu delle notti d'estate, più profondi dell'oceano e neri come l'abisso. Era ancora inverno, nel cuore e nell'aria, dentro e fuori di me. Era ancora inverno, faceva ancora freddo, ma Taehyung era l'estate. Taehyung era il calore che mi incendiava le guance.
«Perché sono diventato bravo a leggerti e vedo che qualcosa ti turba» disse alla fine, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi lasciando ricadere la mano lungo il suo fianco.
Sì, sei diventato davvero bravo a leggermi, ma vorrei dirti che le cose che mi turbavano un tempo ora sembrano piccole come briciole in confronto a ciò che non mi fa dormire la notte, a ciò che temo possa accadere adesso che non riesco più a immaginare la mia vita senza di te. Adesso che non c'è un singolo angolo dell'universo in cui non immagini me e te insieme, come due colori primari dentro una cornice. Adesso che ti seguirei anche in capo al mondo, perché hai trasformato tutto di me, persino le mie paure, e le hai fatte tue, le hai rese briciole e ne hai create di nuove, grandi come pianeti.
«Starò bene», mentii. «Tanto non sarà per molto. È che non ci sono più abituato. Non... non mi piace stare in mezzo alla gente. Mi fa sentire strano» risposi, lanciando rapide occhiate intorno a me.
«Strano?» chiese Taehyung, inclinando la testa.
«Mi fa sentire osservato, giudicato, continuamente» dissi a bassa voce, assicurandomi che solo lui potesse sentirmi.
Taehyung annuì, come se conoscesse già la risposta, come se la comprendesse per davvero, fino in fondo, fin dentro le ossa. «Per quanto mi piacerebbe vederti sugli spalti con gli altri amici e parenti, non ti lascio qui da solo.»
Dopo quelle parole, non mi diede neppure il tempo di rispondere che mi prese per mano, conducendomi a passi svelti lontano dalla folla. Attraversammo una porta scorrevole e un lungo corridoio deserto, costeggiato da numerose porte e armadietti. Passammo davanti agli spogliatoi, dove alcuni partecipanti in gara si stavano già preparando per la competizione. Ne intravidi qualcuno con la coda dell'occhio, di sfuggita, mentre Taehyung avanzava verso la porta in fondo senza voltarsi indietro. Notai anche le occhiate che gli lanciarono, alcune sorprese, altre pregne di invidia. In altre ancora, invece, riconobbi un sentimento che mi parve compassione mista una strana nostalgia.
Non so se i miei ricordi siano mutati nel tempo fino a prendere le forme della verità che scoprii di lì a poco, ma una parte di me è convinta ancora oggi che in quei volti a me sconosciuti avessi davvero intuito come un presagio che Taehyung in quel luogo non era un comune partecipante, un nuotatore come gli altri, ma un fantasma del passato che si aggirava ancora per quei corridoi.
«Dov'è Yerin?» chiesi con il fiato corto, cercando di tenere il passo.
Taehyung non rallentò. Salimmo insieme due rampe di scale, mano nella mano, correndo come bambini dentro un labirinto. Giunti al piano superiore, attraversammo un altro corridoio, più piccolo e asettico, anch'esso deserto. Taehyung aprì l'ultima porta sulla destra, mi trascinò all'interno, e la richiuse alle sue spalle.
«Yerin non viene mai qui», rispose alla fine.
Ci fermammo davanti all'ingresso di quella che intuii fosse la sala dei trofei, a giudicare dagli scaffali ricolmi di pesanti coppe d'oro e argento, medaglie di ogni tipo e dimensione, e attestati al merito che tappezzavano gran parte delle pareti.
«Perché?» chiesi istintivamente.
«Non le piace il nuoto», tagliò corto, come se fosse un dettaglio irrilevante, come se gli avessi posto la domanda più banale del mondo e lui mi avesse risposto nel modo più banale che conosceva.
Taehyung non mi guardò, si limitò ad ispezionare la sala vuota e alla fine mi indicò una schiera di sedie, posizionate davanti a un'enorme vetrata.
«Vieni. Da lì si vede benissimo, anche meglio degli spalti», disse con voce euforica.
Ed era vero. La vetrata affacciava direttamente sulla piscina olimpionica, la inquadrava per intero dall'alto, abbastanza da garantire un'ottima visuale di tutte le corsie, ma non troppo distante da non riuscire a distinguere i partecipanti.
«Wow...» mi lasciai sfuggire. Taehyung ridacchiò della mia espressione. Lo guardai e vidi quel suo accecante sorriso squadrato, rivolto a me, soltanto per me. Aveva gli occhi che brillavano, e la sua mano stringeva la mia.
Sorrisi anch'io, felice come mai prima di allora. Fu un sorriso vero, un sorriso così spontaneo che sentii le guance tirare e il cuore gonfiarsi nel petto.
Era davvero meglio degli spalti. Fin troppo. Quel pensiero mi fece voltare di scatto verso di lui. «Hyung! Ma io posso stare qui?»
Taehyung mi fece l'occhiolino, un sorrisetto furbo sollevò gli angoli della sua bocca. «No, in teoria no, ma mi conoscono tutti qui. Non avranno da ridire, sta' tranquillo.»
«E se viene qualcuno e mi trova qui?» chiesi un po' preoccupato, mordicchiandomi il labbro inferiore. «Cosa devo dire?»
Taehyung mise una mano dietro la mia schiena e mi attirò a sé con uno strattone, delicato come era sempre stato con me, ma deciso come io non riuscivo mai ad essere con lui. Le punte dei nostri nasi si sfiorarono e percepii il suo respiro caldo sulla bocca, quando mi disse: «Digli che sei il bellissimo e dolcissimo fidanzato di Kim Taehyung.»
Trattenni il fiato, avvampai fino alle punte dei capelli, con le gambe che tremavano. Tremavo da capo a piedi e sono certo che anche lui se ne accorse, perché rise contro la mia bocca e mi lasciò un bacio a fior di labbra. «Scherzo. Cioè, non proprio. Non scherzo sul fatto che tu sia bellissimo, dolcissimo e mio. Su quello sono molto serio.»
Mi baciò di nuovo, e poi mi baciò la punta del naso, accostando la fronte alla mia. Tenne la mano ferma sulla mia schiena, mentre con l'altra mi accarezzava la guancia.
«Tranquillo, Kookie. Non verrà nessuno qui. Se dovesse succedere, di' soltanto che ti ho portato io qui. Non ti faranno altre domande.»
Feci una risata nervosa, ancora imbambolato a guardare la sua bocca. Volevo che mi baciasse di nuovo, che mi baciasse fino a farmi mancare il respiro. Volevo davvero dire a tutti di essere il suo ragazzo, volevo urlarlo al mondo intero, ma non potevo farlo, e questo in fondo mi feriva, ma non bastò a cancellare l'euforia di quel momento, la gioia di essere finalmente fra le sue braccia, di essere suo, anche se in segreto.
Inspirai a pieni polmoni il suo profumo, che in quella vicinanza era perfettamente riconoscibile e mi mandava fuori di me, fuori dalla realtà, fuori da questa galassia. Mi sembrava di essere su un altro pianeta, un minuscolo pianeta tutto nostro, in cui l'atmosfera è un involucro gassoso di particelle del suo odore.
Stavo per dirglielo, stavo per dirgli quella parola che non avevo mai detto a nessuno, eccetto mia madre. Quella parola così preziosa che in Giappone si riserva solo alle persone speciali, quelle che creano infiniti universi dentro di te, e galassie in cui vivere insieme, e diventano casa.
Aishiteru.
Ti amo.
Ti amo ti amo ti amo.
E allora l'avrei baciato, avrei posato le mani sulle sue guance e la bocca sulla sua, lasciando in quel contatto più intimo fra noi il resto delle parole che non ero in grado di confessargli.
Stavo per farlo, ma qualcuno ci interruppe, spalancando la porta d'ingresso. Mi staccai immediatamente da lui, rosso in viso, abbassando lo sguardo sul pavimento.
«Taehyung!» L'anziano uomo sulla porta sfoggiò un sorriso un po' sdentato, ma raggiante. «Che bello vederti qui.»
«Salve, signor Lee», rispose Taehyung con voce cordiale e la sua solita gentilezza. Lo sentii irrigidirsi un po' al mio fianco, sembrava teso. Com'era già accaduto in precedenza, un vecchio ricordo l'aveva strappato via da quel momento di spensieratezza che avevamo appena condiviso, allontanandolo di nuovo da me.
«Jungkook, ti presento il signor Lee, il custode di questo posto.»
«Piacere di conoscerla», risposi timidamente, inchinandomi in segno di rispetto.
«Piacere, Jungkook», ridacchiò l'uomo. Aveva una risata davvero gioviale e allegra. Fece sorridere anche me, malgrado l'imbarazzo. Guardai Taehyung, ma lui non stava più sorridendo. Lanciava occhiate intorno a sé come se stesse cercando qualcosa. Forse, una via di fuga.
«Signor Lee, mi dispiace, ma devo proprio andare. A breve inizierà la gara e devo ancora prepararmi», disse frettoloso. Il custode annuì, serrando le labbra in una linea dura. Il suo sguardo s'intristì, ma gli diede comunque una pacca amichevole sulla spalla, prima di lasciarci soli e iniziare a rassettare le mensole.
Quando Taehyung si voltò di nuovo verso di me, la sua espressione si addolcì. «Ci vediamo dopo, okay?» Si sporse per lasciarmi un veloce bacio sulla guancia, ma prima di allontanarsi mi sussurrò all'orecchio: «Sta' tranquillo, il signor Lee è molto gentile. Non verrà nessuno qui. Spero che la gara ti piaccia. Fai il tifo per me.»
Si scostò e mi sorrise sornione. «Augurami buona fortuna!» esclamò, dirigendosi verso la porta.
«Buona fortuna!» balbettai, e un attimo prima che uscisse dalla stanza, vidi di nuovo il suo sorriso, più splendente che mai.
Guardai la gara seduto su una delle sedie di legno chiaro poste davanti alla vetrata. Scelsi quella centrale, che mi garantiva la visuale migliore. Vidi Taehyung comparire dalla porta che probabilmente conduceva agli spogliatoi. Indossava un costume da nuoto agonistico nero e una cuffia del medesimo colore, e anche da quella distanza riuscii a riconoscere la sua figura snella e nervosa. Quel passo cadenzato e quelle spalle ampie le avrei riconosciute anche fra milioni di persone.
Lo vidi indossare gli occhialini, posizionarsi sul trampolino e, infine, nuotare. Osservarlo mentre nuotava, guardare il suo corpo che si immergeva e riemergeva dall'azzurro della piscina, fu un'esperienza strana per me, per qualcuno che aveva sempre vissuto da solo e che non aveva mai provato una sincera attrazione per un'altra persona, che non fosse ammirazione o rispetto. Per Taehyung provavo entrambe le cose, e qualcosa di più, qualcosa di bruciante, qualcosa che mi accendeva le viscere come fuoco e mi faceva tremare in modi in cui non avevo mai tremato per nessuno.
Guardarlo nuotare fu una rivelazione, perché anche se sapevo di essere inevitabilmente attratto da lui e malgrado fossi ormai consapevole dei sentimenti che ci legavano, vedere il suo corpo seminudo mi fece comprendere che lo volevo oltre ogni mia immaginazione. Che lo desideravo più di quanto fosse lecito desiderare qualcuno con cui avevo scambiato a malapena un bacio.
E lo ammirai come in trance per tutta la durata della gara, dalla quale purtroppo non uscì vincitore. Arrivò terzo, e mi sembro che il dispiacere che provavo io per quella sconfitta fosse molto più grande di quello che stava provando lui, a giudicare dal sorriso che rivolse al giudice che gli infilò la medaglia intorno al collo.
Lo seguii con lo sguardo fino a quando non rientrò negli spogliatoi. Poi uscì dalla mia visuale, e allora mi ritrovai solo per davvero in quella stanza deserta. Mi accorsi che finché riuscivo a vederlo, finché i miei occhi potevano accertarsi della sua presenza, Taehyung mi era sempre vicino. Come se ci fosse un filo invisibile a legarci, che connetteva le mie iridi alle sue. Se avessi chiuso gli occhi, se avessi smesso di guardarlo, quel filo si sarebbe spezzato, e allora qualunque posto al mondo avrebbe cessato di esistere.
E quando Taehyung si ritirò negli spogliatoi, mi sembrò di essere fuori posto lì dentro, in quel luogo che esisteva solo quando c'era lui ad abitarlo. Mi alzai in piedi e iniziai a camminare per la sala trofei, ma non sentivo il pavimento sotto i piedi. Fluttuavo, aspettando impaziente che Taehyung mi raggiungesse.
Osservai le file di scaffali piene zeppe di trofei, alcuni più datati, altri più recenti, e le coccarde di ogni misura e colore, cercando con lo sguardo il nome di Taehyung inciso sulle targhette d'oro. Mi avvicinai a una grossa libreria di noce, su cui vidi innumerevoli fotografie nelle cornici d'argento. Alcune erano davvero molto vecchie, ingiallite dal tempo, altre risalivano a un paio di anni prima. Mentre continuavo la mia ricerca, i miei occhi si posarono su una foto in particolare, nella quale ritrovai qualcuno che non mi sarei mai aspettato di vedere.
In quella foto c'era Yerin. Era più piccola, almeno di un paio d'anni, indossava l'uniforme scolastica e dei calzettoni bianchi che le arrivavano all'altezza del ginocchio, aveva i capelli legati in una treccia e sulle labbra un sorriso spensierato da bambina che non le avevo mai visto prima.
Accanto a lei c'era un ragazzo alto, che non riconobbi. Afferrai la cornice e lo guardai più da vicino. Il ragazzo aveva i capelli neri, lunghi e un po' arricciati sulla fronte, indossava una tuta sportiva bianca e portava una medaglia d'oro al collo. Teneva un braccio stretto intorno alla vita di Yerin, mentre con l'altra mano mostrava il segno della pace. Sulle labbra aveva un sorriso enorme, così ampio che aveva rimpicciolito i suoi occhi in due fessure. Un sorriso bambinesco e leggermente squadrato che mi ricordò subito quello di qualcun altro.
Alzai lo sguardo e trovai il custode al mio fianco, che mi osservava con un sorriso gentile. Sobbalzai un po' per la sorpresa.
«Scusami, Jungkook, non volevo spaventarti.» Prese la cornice dalle mie mani e la ripose di nuovo sulla mensola, toccandola con estrema delicatezza, come se fosse fatta di cristallo.
«M-mi scusi lei, non avrei dovuto», balbettai imbarazzato, inchinandomi più volte.
Il custode poggiò una mano sulla mia spalla, come per tranquillizzarmi. Alzai lo sguardo verso di lui, sicuro di avere le orecchie rosse per la vergogna, ma lui si limitò a sorridermi affettuoso. «Va tutto bene. Quella foto è preziosa per noi, sai.»
«Chi...», iniziai esitante, mordicchiandomi le labbra. «Chi è quel ragazzo?»
Lui sembrò meravigliarsi della mia domanda. Sollevò le sopracciglia in un'espressione di stupore. «Oh! Questo qui è Jiwon, il fratellino di Taehyung.» Fece una piccola pausa. «Ha praticato nuoto qui per tanti anni. Era uno dei migliori. Un talento innato. Si assomigliano, non è vero? Non ho mai visto due fratelli somigliarsi così tanto, e non erano neppure gemelli.»
Taehyung ha un fratello? Com'è possibile che io non l'abbia mai visto?
Mi accigliai, sbattendo le palpebre confuso. «Erano?» ripetei in un soffio.
Il sorriso del custode non lasciò mai le sue labbra, ma sembrò mutare in una smorfia di tristezza. «Jiwon non c'è più... è morto due anni fa.»
Jiwon.
Sentii il cuore rimbombarmi forte nelle orecchie e un fischio stridulo risuonare nel cervello. La stanza ruotava veloce intorno a me, così forte che dovetti piantare i piedi per terra per non crollare.
«E...», deglutii. Mandai giù le lacrime, la confusione, la voglia di gridare, e chiesi ancora: «E quella ragazza chi è?»
Il signor Lee spostò lo sguardo sulla fotografia, e lo vidi perdersi nei ricordi, annegare nel passato. «Si chiama Yerin. Lei e Jiwon stavano sempre insieme, credo fosse la sua ragazza. Erano inseparabili. Dove c'era lui, trovavi lei. Non la vedo da tanto, ormai.»
La sua ragazza.
Le parole del custode si ripetevano all'infinito nel mio cervello, mentre cercavo di darvi un senso, di restare lucido, ma niente in quel momento mi sembrava reale. Mi pareva tutto così assurdo, così incomprensibile. «Non le piace il nuoto...» dissi con voce atona, perché non ero riuscito a pensare a nulla che non fossero le parole che Taehyung stesso mi aveva detto poche ore prima.
Il signor Lee fece una risata amara. «Non credo proprio, faceva un tifo sfegatato per Jiwon. Era la sua fan numero uno.»
Lo sentii sospirare, come se il peso di quel racconto gli stesse crollando sulle spalle tutto in un istante. «Ah, Jiwon», disse soprappensiero. «Mi manca tanto, sai. Non meritava tutto quello che ha passato.»
«Cosa gli è successo?» dissi sottovoce, ormai senza fiato, senza un briciolo di lucidità, ma incapace di frenare la lingua, incapace di trattenere le mie domande invadenti, perché la necessità di sapere era più forte di qualunque altra cosa. Più forte del dolore.
Allora il custode iniziò a raccontare, e io lo ascoltai ammutolito, aggrappandomi all'orlo della mia felpa per cercare un conforto che non avrei mai ricevuto.
«Era un ragazzo molto solo e introverso, a scuola l'avevano preso di mira. Era il primo della sua classe. Intelligente, brillante, educato, sempre gentile con tutti. Mi chiedo perché i suoi compagni di scuola lo odiassero così tanto. Taehyung si dannava tutti i giorni per trovargli degli amici, ma lui non voleva. Se ne stava sempre tutto solo, anche quando veniva qui. Nuotava per tutto il tempo e parlava pochissimo con gli altri ragazzi. Credevo che fosse solo timidezza la sua... ma non era così. Jiwon si portava dietro talmente tanta tristezza che mi chiedo come abbiamo fatto tutti noi non vederla. Era così palese... forse se non fossimo stati così ciechi, oggi sarebbe ancora qui con noi.»
Gli occhi gentili del signor Lee divennero lucidi a quelle parole, mentre continuava a fissare la fotografia, sbattendo a malapena le palpebre. Allungò una mano e accarezzò il volto di Jiwon intrappolato al di là del vetro.
«Comunque, a un certo punto è comparsa quella ragazzina. Yerin. Lei e Jiwon passavano tutto il tempo insieme, erano davvero una bella coppia. Lo seguiva dappertutto, era la sua ombra. Faceva il tifo per lui, gli preparava da mangiare, lo difendeva a spada tratta in qualsiasi situazione, e per un po' le cose sembrarono andar meglio. Jiwon sorrideva di più, rideva di più, a volte mi è sembrato che fosse sinceramente felice con lei... Ma, alla fine, neppure Yerin è riuscita a guarirlo. Forse nessuno avrebbe potuto farlo.»
Deglutì prima di continuare. «Un giorno a scuola l'hanno trovato con i polsi tagliati nel bagno dei ragazzi. La notizia finì su tutti i notiziari locali. Il suo corpo era ricoperto di lividi... nessuno sa cosa sia successo con quei bulli, ma l'avevano pestato. In gruppo. Come degli animali.»
Strinsi la mascella, sentendo le prime lacrime solcarmi le guance. «Che è successo dopo?» chiesi con la voce rotta dal pianto.
«I bulli sono stati espulsi, e anche Taehyung. Ha picchiato a sangue uno di loro. Non so cosa gli sia successo, non è mai stato un tipo violento, anzi direi l'esatto opposto. So solo che uno dei bulli di suo fratello è finito in ospedale in condizioni gravissime e che Taehyung fu espulso dalla scuola. Poi nessuno l'ha più visto, è tornato qui da poco e ora sembra una persona completamente diversa.»
Quello per me fu il punto di non ritorno. Sbattei le palpebre una, due, tre volte, e poi corsi come un pazzo verso la porta d'ingresso senza voltarmi indietro.
Sentii la voce del custode gridare alle mie spalle, colma di preoccupazione: «Jungkook! Dove vai?!» Ma io non dissi niente, non mi scusai neppure con lui, prima di chiudere la porta alle mie spalle e sfrecciare lungo il corridoio stretto, precipitarmi giù per le scale e raggiungere il secondo corridoio che conduceva agli spogliatoi. Non dissi neppure una parola, perché il pianto che avevo trattenuto per tutta la durata del racconto del signor Lee adesso mi sconquassava il petto, impedendomi persino di respirare.
Mi precipitai negli spogliatoi, dove tutti i partecipanti si stavano cambiando dopo la gara, guardandomi intorno disperato, alla ricerca di ciocche blu e dei soli occhi in grado di calmare tutte le maree del cuore in cui stavo annegando.
«Ragazzo, non puoi stare qui!» sentii gridare alle mie spalle. Tutti si voltarono a guardami, e fu allora che lo vidi. I nostri occhi s'incontrarono per una frazione di secondo. Taehyung mi vide piangere, vide il mio petto alzarsi e abbassarsi senza sosta, e corse immediatamente nella mia direzione, mi afferrò per il polso e mi condusse fuori, trascinandomi dentro un'altra stanza vuota, un deposito di asciugamani e accappatoi, piccolo e angusto come uno sgabuzzino. Boccheggiai in cerca di ossigeno.
«Jungkook!» Posò le mani sulle mie guance. Tremavano. «Che ci fai qui? Che è successo? Perché piangi?»
«So tutto», mormorai, ma suonò più come un lamento di dolore.
Aggrottò le sopracciglia. «Cosa?»
«So... di tuo fratello. Di quello che gli è successo. Di quello che è successo a te. Me l'ha detto il custode.»
Vidi il suo sguardo annerirsi, svuotarsi di ogni luce. Le mani scivolarono via dalle mie guance, ricadendo esanimi lungo i suoi fianchi.
«Perché?», singhiozzai. «Perché non me ne hai parlato? Ti avrei ascoltato, avrei capito, avrei potuto-»
«Cosa, Jungkook? Avresti potuto, cosa?» disse con voce assente. Aveva gli occhi fissi nei miei, ma non mi stava guardando davvero.
Scossi la testa, asciugandomi le lacrime con le maniche della felpa. «Non... non lo so, fare qualcosa. Anche soltanto esserci, ascoltarti, come tu hai sempre fatto con me. E invece... io... Dio, mi faccio così schifo.» Mi coprii il viso con le mani. «Mi dispiace, mi dispiace tanto di averti addossato i miei stupidi problemi, quando tu stavi affrontando tutto questo dolore. Ti prego, perdonami, hyung. Mi sento così in colpa-»
Sentii la risata amara di Taehyung, un po' tremante, e quando tornai a guardarlo, lo vidi piangere in silenzio. «Perdonarti, Jungkook? Tu non hai capito. Non hai capito proprio niente.»
Si avvicinò a me, facendomi indietreggiare fino a quando la mia schiena non si scontrò con la porta di metallo alle mie spalle. Parlò a un centimetro dal mio viso, sussurrando le parole, mentre le sue lacrime grondavano sulla mia pelle, bagnandomi le labbra. Ne sentivo il sapore.
«Per due anni. Per due cazzo di anni non ho fatto che ripetermi che dovevo morire io al posto suo. Non mi davo pace. E così l'ho fatto. Ho ucciso Taehyung per lasciar vivere Jiwon. Ho smesso di vivere la mia vita e ho iniziato a vivere la sua. Il nuoto, il gruppo della terapia, Yerin... tutto, ho pensato a tutto. Mi sono annullato, azzerato, in ogni modo possibile, e in cambio ho riempito tutti i vuoti. Tutti eccetto il mio.»
«Non mi ci è voluto molto per capire che sarebbe stato impossibile, che non avrei potuto colmare il vuoto di nessuno, tantomeno quello di Yerin... Non si riempiono i vuoti con altre cose vuote, Jungkook. Io volevo solo proteggerla, renderla felice, volevo farlo per mio fratello. E invece l'ho ferita più di chiunque altro.»
«E poi... sei arrivato tu. Sei arrivato tu ed è cambiato tutto. E gli somigli così tanto... sei così simile a lui, Kookie. La prima volta che ti ho visto fuori dalla tua stanza, quella sera al konbini, avrei voluto solo stringerti tra le braccia e chiamarti con il suo nome. Jiwon... fratellino. Non ho mai creduto che tu potessi colmare il mio vuoto, ma ho creduto che potessi colmare quello di Yerin, che potessi guarirla in tutti i modi in cui io non avrei mai potuto farlo. Ho cercato di farvi avvicinare e ho fallito miseramente. E sai perché? Perché in fondo non lo volevo davvero. Perché ho iniziato a mandare tutto a puttane da quando siamo andati in quel locale. Perché senza accorgermene mi ero già innamorato di te. Perché hai fatto di tutto per farmi innamorare di te, e non doveva succedere, perché so che amando te ferisco qualcun altro, e non posso sopportarlo. Non più. Ma non posso sopportare neanche di perderti, di starti lontano, di rinunciare a te. E lo so che è da egoisti. Lo so, e sono io a doverti chiedere scusa per questo, Kookie.»
A quel punto singhiozzavamo entrambi, pronunciando parole sconnesse di scuse e d'affetto, accarezzandoci l'un l'altro come per infonderci conforto a vicenda.
«Tu mi hai salvato», sussurrai sulle sue labbra.
Taehyung scosse la testa, e le sue ciocche blu ancora umide mi solleticarono le dita. «No, ti sbagli. Sei tu che hai salvato me. Sei la cosa migliore che potesse capitarmi nei due anni più bui della mia vita. Mi hai ricordato che esisto davvero, che sono ancora capace di amare. Che posso ancora essere felice.»
Avrei voluto avere il coraggio, la forza, di rispondergli. Avrei voluto che il mio petto non fosse scosso dai singhiozzi. Avrei voluto avere ancora fiato nel polmoni e voce da donare a quelle poche parole che sentivo di dirgli, che sentivo sulla punta della lingua, in bilico sulle corde del cuore.
Ogni volta che la vita si fa buia, ci abbracceremo nell'oscurità, e insieme sogneremo cieli colmi di stelle.
don't be afraid
daybreak has come 媛ヨゑあ線域
a/n
non ci credo che lo sto facendo, e non so neanche se io abbia fatto davvero un buon lavoro stavolta, perché ho scritto questo capitolo quasi del tutto di getto. non sono stata bene in questi ultimi due giorni e come sempre ho trovato rifugio qui... perché non c'è niente che mi faccia sentire a casa come rib. mi sono praticamente immersa nella scrittura e spero di aver reso giustizia a uno dei capitoli più importanti della storia.
oggi più che mai vorrei leggere un vostro riscontro, anche in merito alla storia di Taehyung che finalmente è venuta a galla. non tutta, ma buona parte. mentirei se vi dicessi che è stata una storia facile da raccontare. ho pianto tanto, e ho ancora gli occhi lucidi.
scusatemi per la lunga assenza, spero che con questo capitolo lungo e corposo possa farmi perdonare 😔
vi abbraccio,
Maddie
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