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[jū ni] cuori di vetro

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nei media: you're somebody else - flora cash





That only blindly I could read you 
彙鬱イ壱 グ右 の










CUORI DI VETRO

Una notte di metà novembre mi addormentai e sognai Cosmic Child. L'universo parlava con me, cantava per me. Le stelle mi chiamavano «fratello». I tetti dei grattacieli baciavano il cielo della grande città blu. Tutto era immobile, come lo ero io. E ricordo che provai un gran senso di pace.
Ma quando mi svegliai, una profonda tristezza si fece largo dentro di me. Io in quel sogno stavo aspettando. Qualcuno, o forse qualcosa, non aveva importanza. Aspettavo ancora che il mondo facesse un passo verso di me. Camminavo in avanti soltanto se preso per mano, come una barca a vela sospinta dal vento.

E vento era quello che sentii solleticarmi i piedi. Una brezza fresca, pungente, che profumava ancora dell'aria della notte passata.
Rabbrividii, sbattendo le palpebre. La luce del mattino mi trafisse gli occhi, e mugolai infastidito. Sentii mia madre ridere. Quel suono cristallino, tanto raro quanto meraviglioso, mi rimase impresso nella mente. Stava rassettando la camera, lo faceva ogni domenica. Sentivo i suoi piedi nudi sfiorare il parquet mentre volava da un lato all'altro della stanza, leggera e svelta come una farfalla.

«Aa, samuidesu» mi lamentai, strofinando la faccia sul cuscino. Poi mi voltai a guardarla di nascosto, e la vidi sorridere. Sulle guance candide come petali di magnolia erano comparse due adorabili fossette, le stesse che avevo ereditato anch'io. Sembrava così giovane e felice mentre sistemava i miei vestiti puliti nell'armadio. L'odore fresco dei panni appena lavati riempiva la stanza. Gli abiti di mia madre avevano lo stesso profumo, lo sentivo ogni volta che la tenevo stretta a me.

«Hai, hai!» esclamò con enfasi. «Komeroshi».
Dovetti fare uno sforzo di memoria per ricordare cosa volesse dire quella parola, ma poi mi venne in mente che la nonna lo diceva sempre quando arrivava il primo freddo.
Komeroshi. Il vento gelido che preannuncia l'inverno.

Mi alzai e scesi dal letto, camminando in punta di piedi sul pavimento ghiacciato. Era ancora voltata di spalle quando l'abbracciai. La strinsi forte a me, e racchiusi in quel gesto le mie scuse e il mio affetto per lei.
Mia madre sussultò non appena le cinsi la vita con le braccia. Non se lo aspettava. Nell'ultimo anno era sempre stata lei ad avvicinarsi a me, e il lieve tremore della sua schiena mi fece pentire di aver atteso tanto a lungo. Mi chinai e appoggiai la fronte sulla sua spalla ossuta, inspirando il suo profumo. Quando ero bambino mi raggomitolavo tra le sue braccia, mi facevo piccolo piccolo contro il suo corpo. Lì mi sentivo protetto, al sicuro da qualunque pericolo. Adesso era lei ad accucciarsi contro il mio petto, minuscola tra le mie mani, come una perla in una conchiglia. Ero cresciuto, ero diventato grande, ma quando era successo?

Il tempo non aspetta. Il tempo ti lascia indietro. E tu rincorri una vita che non ricordi di aver vissuto.

«Ti voglio bene, Okaasama» sussurrai.
La strinsi un po' più forte, e lei mi accarezzò i capelli. Restammo così a lungo, in una dimensione senza tempo, dove le emozioni si congelano nell'eternità di un istante.










Quel pomeriggio ero più inquieto del solito. Taehyung non mi aveva più scritto dopo la sera del konbini, e non lo avevo fatto neanche io. «kafkasullaspiaggia è offline», questo era quello che leggevo sullo schermo del cellulare da quasi tre giorni. Mi chiesi subito se avessi detto qualcosa di brutto, cercando tra le poche parole che ci eravamo scambiati il motivo di quel silenzio insopportabile. Lo facevo sempre; se una persona si allontanava da me, allora la colpa doveva essere mia. Dal mio punto di vista, avevo sicuramente detto la cosa sbagliata, e mi colpevolizzavo. Così nei giorni precedenti avevo continuato a rimuginarci su, senza venire a capo di niente. Se c'era una cosa in cui ero davvero bravo, quella era pensare, crogiolarmi nella negatività dei miei pensieri senza agire mai.

Quella domenica però qualcosa cambiò. Il sogno che avevo fatto mi fece riflettere. E fu strano, perché non era uno di quei sogni premonitori. No, niente del genere. Non ci credevo, né mi apparve come tale. Era più una consapevolezza interiore, qualcosa che dentro di me sapevo da molto tempo, ma che aveva preso forma soltanto allora, durante le ore dell'inconscio.

Chi aspetta è in stasi. E chi sta fermo non avanza, mai.

Capii che se avessi continuato a tacere i miei reali pensieri, gli altri non avrebbero mai potuto interpretarli. Poteva capirmi mia madre, perché mi aveva dato alla luce e mi aveva cresciuto per diciotto anni, ma non Taehyung. Anche se per me il mondo aveva iniziato a ruotare intorno a lui, il suo mondo non ero io. Aveva tante altre persone nella sua vita, e probabilmente, se non fosse stato per il fatto che gli ricordavo una persona speciale, mi avrebbe allontanato. Ciò che mi spaventava era che con il passare del tempo la nostra amicizia si affievolisse, ma più di tutto avevo paura che in quei giorni di silenzio non mi avesse pensato neppure per un secondo. E io volevo soltanto che pensasse a me, anche se non ne avevo alcun diritto.

Così mi decisi a scrivergli per primo, ma stavolta senza chiedergli di raggiungermi nel cuore della notte. Non desideravo il suo aiuto, ma la sua compagnia. E volevo che lo sapesse anche lui. Soprattutto lui. O almeno quella era la mia intenzione, perché alla fine fu Taehyung a venire da me. Ancora una volta, avevo aspettato troppo.

Venne nel tardo pomeriggio, quando il sole si era appena coricato sul letto dell'oceano e la mezza luna non era che un acquerello sbiadito sulla tela del cielo. Quando arrivò il suo messaggio, mi alzai così velocemente dal letto che mi venne un capogiro.

kafkasullaspiaggia:
Non mi ero mai accorto che la tua camera affacciasse sulla strada.

Mi affrettai ad aprire la finestra, e lo vidi in piedi sul viale che conduceva al porticato. Mi salutò con la mano e un sorriso a fior di labbra. Indossava una felpa nera con il cappuccio che mi sembrò troppo leggera per quella stagione. Con un cenno del capo mi indicò il cellulare, e un attimo dopo mi scrisse ancora.

kafkasullaspiaggia:
Posso salire?

Una parte di me avrebbe risposto di no, se la persona lì fuori non fosse stata Taehyung. Ma poiché era lui non ci pensai neppure per un istante: alzai lo sguardo e annuii. Mi affrettai a raggiungere mia madre in cucina, per avvisarla che un mio amico stava venendo a trovarmi. Per poco non le cadde il bicchiere dalle mani, e quasi mi venne da ridere quando vidi la sua faccia sorpresa. Ero irriconoscibile persino ai suoi occhi, dopotutto. Sembravo un'altra persona quando c'era Taehyung con me. Mi sorrise e abbandonò tutto quello che stava facendo per aspettarlo insieme in salotto.

Ero agitato, il mio ginocchio continuava a tremare, eppure non era certo la prima volta che ci vedevamo. Forse a rendermi nervoso era il fatto che Taehyung fosse diverso ogni volta. E, diverso, lo ero anche io. Non c'era mai niente di scontato tra noi, niente di prevedibile. Era un continuo e inconsapevole scoprirsi a vicenda, osservandoci ogni volta con la stessa meraviglia negli occhi e scorgendo nell'altro frammenti dimenticati di noi stessi.

Quando bussò alla porta ero così teso che sobbalzai. Prima di aprire, mia madre mi lanciò un'occhiata preoccupata e mi accarezzò la spalla con fare rassicurante. Doveva essere persino più spaventata di me. Per tanto tempo mi ero convinto di voler restare solo, e invece mi ero appoggiato a tutti quelli che avevo intorno per non crollare a pezzi. Soprattutto a lei. Accennai un sorriso e le presi la mano, come per dirle: va tutto bene, starò bene. Mia mamma annuì, e si alzò per andare ad aprire.

Quando entrò, Taehyung le rivolse un lungo inchino. Il cappuccio della felpa si abbassò ancora di più sulla sua fronte. Senza alcuna timidezza nella voce e con evidente rispetto, si presentò e le porse la mano. Mia madre la strinse, ma sembrò sorpresa da quel gesto. Anche io ne fui sorpreso, perché immaginavo che si fossero già presentati quando Taehyung era venuto per la prima volta a casa mia. Ma poi lui disse qualcosa, e lo disse proprio perché sapeva che io stavo ascoltando. Non ci misi molto a capire.

«Così questa è la mano di una madre». Pronunciò quelle parole come se non avessero un senso particolare, come se avesse appena detto che l'indomani avrebbe piovuto. Mentre parlava, il sorriso non sfiorì mai dalle sue labbra. Mi lanciò una sola rapida occhiata, prima di togliersi le scarpe come richiedeva la tradizione. Poi disse qualcosa a mia madre con il suo solito tono scherzoso, e lei scoppiò a ridere. Ma io non avevo ascoltato neanche una parola, perché nella mia mente riecheggiava ancora quella frase.

Taehyung, la mamma, non ce l'aveva.

E lui me l'aveva detto nell'unico modo che conosceva. Qualunque altro tentativo di parlarmene era stato inutile. Non era venuto a trovarmi, era venuto da me perché non stava bene. Qualcosa non andava, glielo leggevo in faccia.

«Okaasama, devo prestare a Taehyung un libro» dissi senza smettere di guardarlo. «Ti dispiace se andiamo in camera mia adesso? Ti prometto che osserverò le buone maniere più tardi. Scusami» conclusi, rivolgendole un profondo inchino. Nella mia famiglia si seguivano delle regole ferree ogni volta che un ospite veniva a trovarci, soprattutto quando in casa c'era mio padre. E se in quel momento ci fosse stato lui, mi avrebbe schiaffeggiato davanti a tutti per il mio comportamento maleducato.

Taehyung invece sembrò sorpreso, come se si fosse reso conto soltanto in quel momento del tipo di famiglia in cui ero cresciuto. Patriarcale, così l'avevano definita le poche persone con cui ero entrato in contatto nel corso della mia vita. Ma non mi era mai dispiaciuto davvero che ne parlassero male, perché io per primo la odiavo, anche se non potevo dirlo a nessuno.

Come mi aspettavo, mia mamma non disse niente. Si limitò a sorriderci con comprensione, e ci lasciò da soli. Così feci segno a Taehyung di seguirmi in camera mia. Non parlammo per un po', neppure quando chiusi la porta alle mie spalle. Restò in piedi, con le spalle contro il muro e lo sguardo rivolto al pavimento. Sapevo che mi stava lasciando il tempo di elaborare quello che mi aveva detto, ma tentai lo stesso di dirgli qualcosa.

«Non ti siedi?» chiesi, sedendomi sul materasso. Taehyung annuì e una ciocca azzurra gli ricadde sulla fronte. All'inizio non capii perché si sedette per terra, davanti alla porta della mia stanza. Si portò le ginocchia al petto e ci appoggiò i gomiti. Poi mi fissò dritto negli occhi, e mi disse: «È qui che ti siedi quando parli con le persone?».

Dischiusi le labbra e inspirai a vuoto. Era vero, era esattamente in quel punto. Era lì che avevo letto i suoi bigliettini, lì che avevo parlato con il dottore, lì - a una porta di distanza - che la mia vita e la mia morte si sfioravano.
Annuii e abbassai lo sguardo sulle mie mani.

«Ti siedi qui anche tu?» mi disse all'improvviso.
«Perché?» chiesi istintivamente, alzando di scatto la testa. Sentivo già quella sensazione alla bocca dello stomaco che mi torturava ogni volta che stavamo vicini.
Si strinse nelle spalle e mi fece spazio accanto a lui, così a testa bassa andai a sedermi al suo fianco. Taehyung sembrava rilassato, anche se infinitamente triste. Io invece ero teso come una corda di violino. Sentivo le guance bruciare per l'imbarazzo.

Gli lanciai occhiate per un po', cercando di osservare la sua espressione. Stavolta non potevo aspettare che fosse lui a parlare, dovevo dire qualcosa. Quel silenzio era fitto come nebbia e mi ottundeva i pensieri. Così alla fine mi costrinsi a chiederglielo, anche se mi tremava la voce. «Taehyung, che succede?».
Lui non rispose, continuò a fissare dritto davanti a sé.

Con il cuore che mi martellava contro il petto, mi misi in ginocchio davanti a lui per incontrare il suo sguardo. E quando finalmente mi vide, sembrò frantumarsi come vetro. Si spezzò davanti ai miei occhi in un milione di schegge. Taehyung si scostò dalla porta e si avvicinò a me carponi.
«Scusami» sussurrò con voce atona. Poi nascose il viso contro il mio petto, e le farfalle nel mio stomaco si moltiplicarono. Il cuore mi batteva forte, tanto forte da farmi male. Le nostre ginocchia si sfioravano e sentivo il suo respiro caldo sul collo. Era una posizione strana, i nostri corpi erano distanti, eppure non mi ero mai sentito tanto vicino a lui come in quel momento.

«Scusami» ripeté. «Possiamo restare così soltanto per un po'? Soltanto per... soltanto...». La sua voce si affievolì, vacillando sull'ultima parola, e Taehyung iniziò a tremare. Singhiozzava, con la contrazione dei muscoli e con il respiro, ma non emetteva alcun suono. Era un pianto muto, eppure era il pianto più straziante che avessi mai sentito.

Tremavo anch'io quando allungai le braccia per cingergli la schiena. Lui mi fermò, bloccandomi i polsi lungo i fianchi. Non fu brusco, mi toccò piano, le sue dita mi sfioravano appena la pelle. Per un attimo pensai che mi avesse soltanto accarezzato, ma quando vidi che non mi lasciava andare, compresi che non voleva essere abbracciato. E mi chiesi come fosse possibile che una carezza facesse tanto male.

Restammo in quella posizione per un tempo che mi parve infinito. Taehyung non smise mai di piangere, e neanche io.







Now you're making 
me nervous 猿ト彙ァ何






a/n

ehiii~ sono tornata, stavolta prima del previsto. non pensavo che avrei finito questo capitolo oggi, ma così è stato. quindi, eccolo qui, a sorpresa!

allora, stiamo imparando a conoscere taehyung insieme a jungkook, e ci sono ancora molte cose che non lui non sa sul suo conto. questa è, ahimè, solo la punta dell'iceberg, perché il suo background è un pochino più vasto, ma andiamo per gradi.

nei prossimi capitoli ci sarà un nuovo personaggio! avete qualche idea? chi potrebbe essere? come sempre, se il capitolo vi è piaciuto, non dimenticate di lasciare qui un commentino per farmelo sapere!

buon weekend a tutti
🦋🦋🦋

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