[jū kyu] mamoritai
dark mode: ON/OFF
nei media: lights are on but nobody's home
❗️ANGST WARNING: questo capitolo di Rapsodia in Blu contiene scene forti che potrebbero urtare la sensibilità di persone che soffrono di depressione, attacchi di panico, ptsd o altri disturbi psicologici. Mi scuso in anticipo.
Falling down and
over again す宛ゆアヒ
MAMORI TAI
Di quella sera ricordo nitidamente poche cose. La prima sono le luci psichedeliche dai colori elettrici, violenti. Ci sfioravano i vestiti che nascondevano i nostri corpi adolescenti, ancora immaturi, stretti l'uno contro l'altro, appiccicati contro i tessuti scadenti delle nostre t-shirt e dei nostri skinny jeans tutti uguali. Ricordo la folla intorno a me, centinaia di ragazzi immersi nel blu, rosso, verde e viola, come gli elementi astratti e informi di un quadro post-moderno. Ricordo il retrogusto amaro del cocktail che avevo buttato giù e il bruciore insopportabile che sentivo alla bocca dello stomaco. Il profumo dolce di Yerin che ballava al mio fianco m'investiva ogni volta che agitava i capelli a ritmo di musica. Profumo di caramella, o forse di vaniglia, che mi faceva girare la testa.
Pensai che fosse molto diverso dal profumo di Taehyung, e mentre ballavamo continuai a chiedermi perché per me non fosse altrettanto attraente, perché non provassi anche con lei l'insormontabile necessità di immergere il naso tra i suoi capelli e inspirare a pieni polmoni.
Ero un'ape cieca. Orbitavo soltanto attorno al mio fiore prediletto.
Eppure Yerin era bella, tanto bella da far male. Un corpo a metà tra quello di una ragazza e quello di una donna, grandi occhi d'ossidiana che brillavano come lucciole nella notte, e una bocca di rosa, piccola e piena come un bocciolo, che quando rideva la faceva sembrare una bambina. Avevo notato molti occhi puntati su di lei, alcuni lascivi, invadenti, gelosi, altri incuriositi, soggiogati dalle sue movenze di sirena in quell'oceano umano che era il locale in cui ci eravamo rintanati, come animali in gabbia che reclamano la propria libertà.
Una libertà bugiarda, che solo di notte si concedeva a ragazzi come noi. Una libertà che ci avrebbe lasciati soli al mattino, come cani abbandonati sul ciglio della strada, con le nostre sbronze e un mal di testa che è niente in confronto al dolore di una tristezza immutata, rigonfia, zuppa di solitudine.
Una libertà che mai avevo assaporato in tutta la mia vita come quella sera, in un locale qualunque di Busan, stretto tra corpi a me sconosciuti.
E non ebbi paura. Per la prima volta quel mostro che mi abitava il petto non mi divorava il cuore. Non riuscivo a credere che fossi davvero io quel ragazzo che si dondolava nel buio, pur timidamente, in mezzo alla folla.
Yerin ballava con me. Ricordo la sua risata soffocata dalla musica assordante, le sue guance arrossate dall'alcol, il sudore che le imperlava la fronte e quello sguardo vispo che tante - oh, così tante - volte avevo visto posarsi su Taehyung, seduto sul divanetto, con lo sguardo perso nel bicchiere ancora mezzo pieno che teneva distrattamente tra le mani. In quel momento, con le spalle ricurve e i gomiti poggiati sulle ginocchia, mi parve più indifeso che mai.
Lottai contro ogni frammento del mio cuore per non raggiungerlo, sedermi al suo fianco e lasciargli poggiare ancora la testa sulla mia spalla, e dirgli che apparteneva soltanto a lui, alle sue guance, alle sue lacrime. Lottai contro me stesso tutte le volte che, con la coda dell'occhio, scorsi il suo sguardo posarsi su di me, tanto fugace che soltanto uno stupido ragazzino innamorato come me avrebbe potuto accorgersene, perché io l'avevo guardato sempre, continuamente. Ogni volta che Yerin mi dava le spalle i miei occhi lo cercavano, come l'onda cerca la riva.
E fu per questo motivo che mi accorsi subito della sua assenza. Aveva lasciato il bicchiere sul tavolo e la sua giacca di pelle sul divanetto. Il mio sguardo saettò da una parte all'altra del locale, in cerca della chioma azzurra che avrei riconosciuto ovunque, anche tra milioni di persone. Non riuscii a trovarlo con gli occhi, allora i miei piedi si mossero da soli. Mi feci strada tra la gente, ricevendo una spallata dopo l'altra, quando una mano piccola e ossuta mi bloccò il polso.
«Dove vai, Kookie?» mi chiese Yerin, ma - dal modo in cui guardò prima me e poi il divano vuoto su cui un attimo prima sedeva Taehyung - capii che era una domanda retorica. Non le serviva alcuna risposta.
«T-taehyung-ssi... era lì fino a un attimo fa, era seduto. Era lì e adesso non... adesso non c'è più» le dissi freneticamente all'orecchio.
«Questo lo vedo anch'io, Kookie. E allora?» disse Yerin con un sorrisetto a fior di labbra.
Spalancai gli occhi, senza riuscire a proferir parola. Yerin mi scrutava con insistenza, le sue iridi scure erano coltelli pronti a scavare dentro di me e a svelare il mio segreto più recondito. Abbassai il capo e ciocche di capelli umidi mi coprirono il viso. Avrei voluto accovacciarmi, spingermi con così tanta forza contro il pavimento da scomparire in quell'istante.
Già, e allora, Jungkook? Ti aspettavi che restasse lì a guardarti dondolare come un fottuto manichino per tutta la sera? Se n'è andato. Si è annoiato e si è allontanato.
«Allora è peggio di quanto pensassi» disse in un sospiro tremante. «Vieni con me».
Yerin mi trascinò fuori dal locale tenendomi per il polso, e mi sorpresi di quanta forza avesse quella ragazza così piccola, minuta come un giunco, con gli occhi grandi da cerbiatto e il viso di porcellana.
L'aria fredda della sera ci investì, facendoci battere i denti. Pioveva a dirotto. Il rumore sordo della musica che proveniva dall'interno si mescolò con quello dolce della pioggia, e tutto il mondo sembrò rallentare in quell'istante. Rallentò l'inesorabile caduta di ogni goccia di pioggia che grondava dal porticato sotto cui eravamo riparati, rallentarono le automobili che sfrecciavano su piscine d'acqua e asfalto, rallentarono i respiri e i battiti del cuore.
La città è un disco rotto che gira a rallentatore quando è baciata da piogge come quella, maree del cielo, che di tanto in tanto, geloso del mare, vuol sfiorare la terra.
E lenta fu anche la voce di Yerin quando, con gli occhi fissi nei miei, mi parlò.
«So tutto. Vedo come lo guardi, il modo in cui arrossisci quando ti parla. All'inizio pensavo fosse timidezza, ma la sera del mio compleanno l'hai reso così chiaro, Kookie. Anche uno sciocco l'avrebbe capito, e io purtroppo non sono una sciocca».
La sua mano si mosse verso di me, ma poi ricadde nel vuoto. «Tu mi piaci molto, te l'avevo già detto. Mi piace la tua purezza e i tuoi occhi sono gentili, ma ti stai creando delle illusioni che ti faranno solo del male. Lui è il mio Kafka e io sono la sua Milena, Kookie. Sono certa che tu mi abbia capita».
Nel silenzio che seguì le sue parole riuscii a sentire il cuore che mi batteva dappertutto, a un ritmo innaturalmente lento per l'agitazione che provavo. Il mio labbro inferiore tremava, come le dita che tenevo nascoste nelle maniche troppo lunghe della mia maglia. Le lacrime mi pizzicavano gli occhi come punte di spilli, ma le ricacciai indietro, per la seconda volta quella notte. Abbassai lo sguardo e fu allora che mi accorsi che anche Yerin tremava, e mi chiesi se avesse soltanto freddo o se mi temesse tanto quanto io temevo lei.
Le sue parole mi avevano ferito. Le sentivo bruciare sulla pelle, in gola, alla bocca dello stomaco. Pensai che fosse vero che al dolore ci si abitua. È un parassita che ci marcisce nel petto, s'attacca al cuore e lo divora, pezzo dopo pezzo.
Dal mio dolore nacquero le parole, e sulla lingua non avevo mai sentito un sapore tanto amaro.
«Ti sbagli. Lui mi ha detto che siete soltanto amici». Non riuscii a guardarla, ma la sentii sussultare, aprire la bocca e richiuderla.
Non disse più nulla. Quando alzai il capo, piangevamo entrambi. Nei suoi occhi non c'era neppure l'ombra dell'odio che mi aspettavo di vedere, ma solo un'infinita tristezza che mi attraversò come un brivido profondo che si estese dentro e fuori di me.
Fu allora che capii che ci saremmo fatti la guerra.
L'amore ci rese cattivi e vulnerabili, come bambini che giocano con le ferite, affondandosi l'un l'altro le unghie nella carne per vedere chi sanguina di più.
Yerin avvicinò la bocca al mio orecchio e le sue lacrime scivolarono come pioggia sul mio collo quando mi sussurrò: «Lui non ti vede in quel modo. Non gli piacciono neppure i ragazzi. Te lo ripeto, non intrometterti, o ti farai male».
Stupido. Stupido. Sei uno stupido.
Hai immaginato tutto, ogni cosa.
Era tutto frutto della tua patetica, maledetta immaginazione. La tua immaginazione ti ha condotto qui, ti ha rovinato, ti ha fatto vivere così distaccato dalla realtà da non potervi più appartenere, mai più.
Perché hai la mente irrequieta e devi sempre pensare, vedere, sentire più del dovuto, più delle altre persone. Perché quella che per tua mamma è sempre stata un dono, in realtà è stata la tua condanna. Ti ha tagliato fuori da questo mondo. Qui non c'è nessuno che possa capirti. E non ci sarà mai. E non ti libererai mai di questa solitudine, è l'appendice di te stesso che ti marcisce dentro, il filo spinato intorno alla caviglia che non ti farà mai arrivare lontano. Sarai sempre fermo in un punto, attorno al quale orbiterai, proprio come un'ape cieca, ma il tuo fiore prediletto non è azzurro come il mare, Jungoo, è nero come la notte, nero come la morte, la stessa che ti ha compatito. Neanche lei ti ha voluto con sé.
Baka.
Baka, baka, ripetevo a me stesso, come un esorcismo, tra i singhiozzi che mi esplodevano nel petto con la stessa violenza del temporale che mi inzuppava i vestiti, nel tremore che mi scuoteva come l'acqua delle pozzanghere che calpestavo, mentre correvo senza meta nella notte. Le luci della città erano macchie di colore informi attraverso le lacrime che mi inondavano gli occhi, le lacrime che sentivo bruciare sulle guance e che si mescolavano con la pioggia che grondava dai miei capelli.
Scappavo come se qualcuno mi stesse rincorrendo, ma mi ero voltato indietro, e Yerin non c'era. Taehyung non c'era. Eppure continuai a correre a perfidiato, anche se mi mancava il respiro e mi doleva tutto, anche se sentivo che sarei crollato da un momento all'altro, perché sapevo che qualcosa mi stava rincorrendo, qualcosa a cui stavolta non sarei riuscito a sfuggire.
Lo sapevo perché i miei pensieri erano di nuovo blu, blu, blu, ogni cosa davanti a me era blu e i palazzi intorno a me sembravano le pareti altissime della mia camera, perché il cielo non era che un soffitto di cemento armato, e la fine della strada c'era la porta che non riuscivo neppure a intravedere e che mi pareva allontanarsi un po' di più da me ad ogni passo. Corsi più forte, correvo come un disperato, verso quella porta, verso la vita.
Fatemi uscire da qui, vi prego. Vi prego, qualcuno mi tiri fuori da qui. Non ce la faccio più. Non di nuovo, non posso sopportarlo di nuovo. Sono stanco, tanto stanco. Ho bisogno di un abbraccio, di un bacio sulla guancia, di qualcuno che mi dica che andrà tutto bene, che dopotutto questa vita mi appartiene, che c'è ancora qualcosa da salvare in me, che non è tutto perduto.
Okaasama, ti prego, perdonami se ti faccio sempre tanto soffrire. Vorrei farti ridere, ridere così forte da cancellare tutte le lacrime che hai versato per papà, tutte le notti passate a piangere sul lato sbagliato del letto, tutti giorni che hai passato fuori dalla mia camera mentre ti urlavo di andar via.
Mamma, non andare via stavolta. Vienimi a prendere. Abbracciami forte, tanto forte da farmi male. Dimostrami che sono vivo, che non sto lentamente scivolando nel blu ancora una volta. Non voglio più vederlo. Coprimi gli occhi con le labbra e cancella tutto. Cancella papà, il dottor Kim, Taehyung, Yerin, i miei sentimenti. Cancella tutto ciò che non siamo noi due e portami via.
Ti prego, portami via da qui.
Mi accorsi di aver rallentato solo quando caddi in ginocchio sull'asfalto, mugolando di dolore.
Mi facevano male le gambe, tremavo di freddo, battevo i denti così forte da sentirli stridere l'uno contro l'altro. La caduta mi riportò alla realtà, e mi guardai intorno con il terrore negli occhi.
Dove sono?
Non c'era nessuno, ero completamente solo tra palazzi addormentati, negozi immersi nel buio e macchine parcheggiate. Tastai le tasche dei pantaloni con le mani, realizzando con orrore che non avevo con me niente che non fosse il braccialetto fluorescente del locale in cui eravamo stati.
Mi guardai la maglietta fradicia. Avevo lasciato la felpa nel locale, il cellulare, il portafoglio e l'inalatore che portavo sempre con me, benché non fossi asmatico, perché sapevo che prima o poi mi sarei trovato ancora di fronte allo stesso mostro. Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato prima o poi. Sapevo, in fondo, di non essere guarito. La stretta intorno al mio collo si era solo allentata, ma non mi aveva mai, neppure per un istante, lasciato andare.
E ora la sentivo stringere più forte che mai intorno al collo. Sentivo il respiro farsi pesante, gli ansimi farsi più rumorosi minuto dopo minuto, come un naufrago che annaspa per l'ossigeno nell'oceano in tempesta. Mi guardai intorno, in cerca di un'automobile, un taxi, una persona qualunque.
Aiuto. Pronunciai quella parola infinite volte nella mia mente, ma persino lo scrosciare della pioggia riusciva ad attutire quel misero e incomprensibile gemito che fuoriusciva dalle mie labbra.
Iniziai a tremare forte, tanto forte da non riuscire a mettermi in piedi. Piantai le mani per terra con tanta violenza da farmi sanguinare le dita, ma le sentii scivolare sull'acqua infinite volte, e all'ultimo tentativo mi ritrovai col viso premuto sull'asfalto ghiacciato. Vidi il mio respiro condensarsi in fretta, troppo in fretta, davanti al mio viso, mentre mi lasciavo andare al pianto.
Stavolta morirò per davvero, mi dissi.
Morirò come uno stupido, come un codardo che per tutta la vita è scappato dai suoi problemi, fino all'ultimo istante. Morirò così, in questo modo, perché il modo che avevo scelto era troppo dignitoso per uno come me.
I singhiozzi mi vibravano nel petto, incendiandomi la gola. Chiusi gli occhi e vidi mio padre che mi guardava dall'alto, mentre io, in ginocchio, mi aggrappavo a lui. Vidi la sua espressione di disgusto, priva d'affetto e d'amore per quell'unico figlio disgraziato che aveva avuto. La delusione di una vita intera trascorsa a cercare di plasmarmi come un omino di plastilina, un fantoccio tra le sue mani.
Mi accovacciai su me stesso, e piansi forte, mentre la crisi respiratoria mi faceva tossire con tanta violenza da scorticarmi la gola.
Strinsi il tessuto della maglia all'altezza del cuore e gli sferrai innumerevoli colpi, maledicendolo ad ognuno, perché batteva senza pietà come un martello contro le costole.
Mi sentii come una mina pronta a implodere, col cuore fatto d'esplosivi e la cassa toracica di carta pesta, e pensai che sarebbe stato bello non lasciar alcuna traccia di me stesso a questo mondo. Sparire come il personaggio di un videogioco quando la scritta game over illumina lo schermo.
Inconsistente, leggero come avevo sempre desiderato essere, come la cenere, un mucchio d'ossa e brandelli di carne spazzati via dal temporale.
Quando chiamò il mio nome per la prima volta era lontanissimo, ma lo gridò con tanta violenza da farmi tremare di paura, perché mi ricordò la voce ruvida di mio padre un attimo prima di sfilarsi la cintura e arrotolarla attorno alla mano, lasciando la cinghia in bella vista.
Quando lo chiamò per la seconda volta era un po' più vicino e percepii chiaramente la disperazione e la paura in quella voce che urlava a squarciagola.
Non tu. Ti prego, non tu.
Non guardarmi, non voglio che tu mi veda.
Spinsi con più forza il viso verso le ginocchia, coprendomi la testa con le braccia, come a proteggermi da un colpo che da un momento all'altro sarebbe arrivato. Un colpo che fa più male delle botte, più male della cinghia.
Sentivo i loro passi pesanti e mi morsi la lingua a sangue per impedirgli di sentire gli orrendi singhiozzi che mi uscivano dalla bocca.
Tappati quella bocca, Jungkook. Fai gli stessi rumori di un animale. Un animale con la gola squarciata e il sangue che zampilla a fiotti. E tu lo sai quanto sangue esce da una ferita come quella. Lo sai perché sei il cacciatore e la preda di te stesso.
Taehyung correva, e Yerin correva dietro di lui, urlando parole che all'inizio non riuscivo a comprendere, fino a quando si fecero più vicine.
«Non è mica un bambino, Tae! Che avrei dovuto fare? È scappato via come un pazzo! Io non pensavo che lui...». La sua voce s'incrinò. «Tae, io-».
Taehyung imprecò con una rabbia che non gli era mai appartenuta. Una rabbia che mi fece alzare il capo di scatto e che immobilizzò Yerin sul posto.
Quando i nostri occhi si incontrarono, in un attimo quella rabbia lasciò il posto alla paura. Lo vidi cadere in ginocchio accanto a me e capii che dovevo avere un aspetto ripugnante.
Allungò una mano verso di me ed io mi allontanai, trascinandomi sull'asfalto e nascondendomi da lui, con la mano premuta contro la faccia.
«Va-vatte-ne» singhiozzai nel pianto, nel tremore, con tutta la forza che mi restava.
Taehyung esitò per un istante e attraverso le mie dita lo vidi ritentare, avvicinarsi ancora, trascinando il proprio corpo nello stesso modo in cui l'avevo trascinato io. Quel gesto mi riportò alla mente la volta in cui si era seduto al posto mio, sul pavimento, davanti alla porta della mia camera.
Fai di tutto per farmi innamorare di te, hyung.
Tutto ciò che fai mi fa innamorare un po' di più.
Fa male, fa così tanto male.
Sentii la collera montare nel petto, il dolore per i miei stupidi sentimenti infranti, per l'amore che non mi poteva dare ma che io desideravo, con ogni fibra del mio corpo. E quella collera, nonostante tutto, era soltanto per me, per il mio egoismo nel volerlo tutto per me, quando mio non era stato mai.
Gridai contro di lui con tutto l'odio che provavo per me stesso, con la voce roca e la gola graffiata dal pianto e dalla tosse. «Vai via! Lasciami stare!».
Taehyung abbassò il capo. I suoi capelli erano zuppi di pioggia e blu come il mare di notte.
«Hai ragione ad essere arrabbiato con me» mormorò con la voce rotta e le labbra che tremavano. Lentamente, sfiorò il mio mignolo con il suo, ma lo fece con un'incertezza che non aveva mai avuto, come chi ha paura di uccidere con le carezze.
«Non mi toccare!» gridai ancora, ma la voce mi tradì. Sentii le guance avvampare e gli occhi riempirsi di lacrime nuove, roventi, innamorate.
In quel momento desiderai di scomparire, pur di non trovarmi lì, devastato com'ero, davanti all'unica persona che avessi mai desiderato, l'unica che mi avesse mai fatto credere in qualcosa che non fosse la paura, l'unica che mi avesse fatto desiderare la vita, e non la morte, per la prima volta.
Taehyung alzò il capo e incontrò il mio sguardo. I suoi occhi erano rossi.
«Non ti toccherò, ma non me ne vado, Kookie, anche se mi chiedi di farlo. Non mi muoverò da qui. Scusami, ma non posso fare come dici». La sua voce si ridusse a un sussurro tremante. «Ti aiuterò comunque, ti tenderò lo stesso la mano anche quando la spingi via, ti proteggerò lo stesso, perché non riesco a fare altrimenti. Non sono bravo nel farlo, lo so, ma lasciami tentare un'ultima volta».
Fece come aveva detto. Non mi toccò. Mi offrì la sua mano, aperta, col palmo rivolto verso l'alto a incontrare la pioggia e gli occhi rivolti ai miei a incontrare i miei mostri.
Quando la presi, se l'appoggiò sul petto, e non seppi mai dire se il rossore sulle sue guance fosse per quel contatto tra noi o per il freddo che ci faceva tremare come foglie sull'asfalto.
«Fidati ti me, ti farà sentire meglio. Te lo prometto» disse premendo il suo corpo caldo contro il mio palmo ghiacciato.
«Metti l'altra mano sul tuo petto e respira con me».
Poggiai la mano all'altezza del cuore e lo sentii battere a un ritmo folle. Anche quello di Taehyung era accelerato, probabilmente a causa della corsa.
Si accorse, dal mio braccio teso, che era troppo lontano da me, così si avvicinò, lentamente, con cautela. I nostri capelli si sfiorarono e la pioggia che li bagnava si mescolò sui nostri volti.
«Kookie», mi chiamò quasi sussurrando, con tenerezza, come si sussurra ai bambini quando hanno paura. «Puoi chiudere gli occhi se vuoi».
Feci tutto quello che mi disse, con una riluttanza tutta apparente, perché dentro di me sentivo già l'ansia scemare, scivolare via e ritirarsi come la marea.
«Inspira con me ed espira quando lo farò io, ok?».
Annuii. Quel movimento fece scivolare le ciocche umide dei suoi capelli sulla mia fronte.
Inspirai con lui, lentamente, fino in fondo. Trattenemmo il respiro per un istante, e poi, con altrettanta lentezza, mi disse di lasciarlo andare.
Il suo fiato si mescolò al mio, e sentii sotto le dita che il suo cuore perse un battito.
Lo facemmo ancora e ancora, e tutto il mondo intorno a noi sembrò dissolversi. La pioggia non faceva più rumore, non esisteva più Busan, non esisteva più niente. C'erano solo il mio cuore e il suo, i nostri battiti irregolari, sempre più vicini, un respiro dopo l'altro.
Aprii gli occhi e incontrai i suoi.
«Posso abbracciarti?» mi chiese in un sussurro. «Non dire di sì se la risposta è no. Posso abbracciarti ora, Kookie? Posso farlo davvero?».
Abbassai il capo per nascondere le mie guance rosse e poggiai la testa contro il suo petto.
Taehyung mi strinse a sé dolcemente, disperatamente. «Ti prego, non farlo mai più. Non scappare più così».
Sentii le lacrime scivolarmi lungo le guance, ma il singhiozzo che le seguì non era il mio.
Voltai il capo e vidi Yerin, in piedi sotto la pioggia a qualche metro da noi. Mi fissava con un'espressione indecifrabile che mi fece vibrare il petto di un sentimento tanto cattivo quanto infantile. Strinsi come un bambino le mani sulla maglia di Taehyung, mi aggrappai a lui.
A quel tempo non sapevo che quelle sulle guance di Yerin non erano gocce di pioggia, ma lacrime grandi quanto il dolore che nascondeva dentro di sé.
Nota a piè di pagina:
** mamoritai: dal giapponese, «voglio proteggerti».
There ain't love like
our love ミヤ援ハ化ヲ
a/n
situazione attuale:
capitolo speciale per le 15k letture di rapsodia in blu. la felicità che provo in questo momento è inspiegabile, non so come ringraziarvi in maniera più adeguata di questa. mamori tai è stato un capitolo doloroso per me, scritto in gran parte di getto, ma con tutto quello che avevo da offrire. mi sono svuotata tra queste righe, e ora la mia penna è scarica, quindi non so bene cosa dire in questo angolo autrice 😖
spero solo di aver fatto un buon lavoro, di aver reso al meglio questa scena così importante e significativa per la storia.
ci tengo particolarmente, per questo non vedo l'ora di leggervi! fatemi leggere i vostri pensieri, please, qualunque essi siano. mi piace vedere come reagite alle parole, le emozioni che suscitano in voi 💙
mi aiuta a fare sempre meglio, quindi un grazie speciale a chi commenta, aiutandomi così a migliorare e offrendomi nuovi punti di vista diversi dal mio. sembra strano, ma per chi scrive è davvero prezioso. giuro!
grazie a tutti,
siete la mia blue family,
il mio blu tenero e confortante,
soffice come la tonalità del cielo
alle sette di sera in primavera.
🦋
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro