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𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐗𝐈𝐈𝐈. 𝐄𝐬𝐩𝐢𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞


~ 𝟏𝟗𝟖𝟖 ~

Nell'abitacolo dell'auto la voce di Belinda Carlisle risuonava sulle note di Heaven is a place on earth. Mentre aspettava, Max tamburellava le dita sul volante, andando a tempo con la melodia che adorava. Fra i tanti successi di quegli ultimi tempi, quello era tra i suoi preferiti in assoluto; per qualche ragione gli strappava sempre un sorriso, a volte a dir poco trasognato. Lo metteva sempre di buon umore, gli faceva venire voglia di sfrecciare con la macchina a tutta velocità come facevano i protagonisti di alcune pellicole.

Quella sera, ad ogni modo, era particolarmente allegro perché avrebbe festeggiato il secondo anniversario di fidanzamento con Dario. Sembrava trascorso così poco, eppure due anni erano volati senza che lui se ne fosse reso conto. Il tempo passato con Rio pareva sempre troppo poco, mai sufficiente.

Si guardò allo specchio retrovisore e si sistemò i capelli, scompigliandoli un po'. Portava ancora gli occhiali, incoraggiato da Dario che una volta aveva ammesso di trovarlo irresistibile con quelli addosso.

Fece un respiro profondo, un po' nervoso. Quella serata sarebbe stata particolarmente speciale visto che intendeva parlare a Dario di una cosa importante. Sperava solo di ottenere la sua approvazione.

Vide finalmente il fidanzato uscire dalle porte di Ashfield Manor, correre per evitare di bagnarsi con la pioggia ed entrare nella Cadillac rossa. Max lo squadrò divertito. «Si può sapere che fine avevi fatto?» gli chiese, ridendo.

Rio gli lanciò un'occhiata inviperita, allacciando nel frattempo la cintura di sicurezza. «Non sapevo cosa mettere con questa stupida pioggia che non la pianta di scendere da almeno una settimana» borbottò imbronciato. «E se provi a ridere ti prendo a sberle.»

Maximilian lasciò perdere le sue minacce e lo attirò a sé, baciandolo. «Buon anniversario» sussurrò sulle sue labbra. «Stai benissimo, comunque. Come sempre, d'altronde!»
E lo pensava sul serio. Gli piaceva soprattutto quando raccoglieva i capelli come aveva fatto quella sera. Sembrava preferire molto sistemarli in una morbida treccia lasciata cadere su di una spalla.

Il moro sorrise di sbieco. «Ti piace un bel po' adularmi, vedo.»

Max fece spallucce. «Sto solo descrivendo ciò che vedo.»

«Ma smettila!» Rio lo spinse indietro e si accomodò meglio sul proprio posto, sperando che la cintura non gli avrebbe sgualcito il soprabito color cammello. Sotto di esso un dolcevita dalla tonalità panna infilato in jeans chiari e aderenti. Max invece portava un completo borgogna, una semplice camicia nera e un foulard color antracite legato a fiocco attorno al collo. Dario lo osservò per qualche istante cambiare marcia e partire con la macchina. «Beh, neanche tu sei messo male» commentò malizioso. «Sono quasi geloso di andare in giro con te.» Doveva ammettere che a volte lo pervadeva un insopportabile fastidio quando magari, mentre camminavano per strada, alcuni si concedevano di lanciare delle occhiate di puro apprezzamento al suo fidanzato. La cosa peggiore di tutte? Non poter voltarsi a sua volta e dire a tali individui di piazzare altrove gli occhi, ammesso e non concesso che volessero continuare ad averne un paio nelle cavità orbitali. Purtroppo, in pubblico, dovevano sempre mantenere un basso profilo ed evitare smancerie troppo audaci per evitare problemi con la gente bigotta che non sapeva farsi gli affari propri. Era snervante, ma in tale maniera vivevano tutti più tranquillamente.

Altra cosa che avevano dovuto imparare a tollerare? Le volte in cui, quando gli capitava di andare in giro ad Athanasia o a Obyria, beccavano dei paparazzi intenti a coglierli in flagrante per alimentare le già troppe chiacchiere sul conto di Rio e il suo attuale compagno che era stato definito ‟schivo, acqua e sapone, forse fin troppo innocente per una canaglia di loro conoscenza". Max ci aveva riso su, Dario invece non l'aveva presa così alla leggera.

Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma si chiedeva perché non volessero proprio saperne di lasciarlo in pace. Non era mica Lady D, accidenti!

Non molto tempo prima si era così innervosito, che alla fine aveva sorriso con una gran bella faccia da schiaffi e sollevato il dito medio in direzione del figlio di buona donna che stava cercando di immortalarli mano nelle mano passeggiare di sera per le strade di Obyria.

Max invano aveva tentato di scoraggiarlo e di fargli abbassare la mano impegnata in quel gesto osceno. Quando era troppo era troppo, e i giornalisti del Regno Parallelo dovevano trovarsi hobby migliori del dare la caccia a loro.

Il picco dell'assurdo era stato raggiunto quando li avevano sorpresi sul punto di fare l'amore proprio vicino a una portafinestra. Detto così faceva ridere, ma non era stato bello per nessuno dei due vedere le loro rispettive grazie sbattute sulle pagine di un quotidiano. ‟A quanto pare neanche il mio dannato culo è di mia esclusiva proprietà" aveva commentato adirato Rio.

Quello del presente, nel frattempo, si era acceso una sigaretta e aveva scelto di abbassare il volume della radio. Senza mancare di rispetto in alcun modo ai problemi quotidiani del Regno Unito e del resto del mondo, star lì a sentire una sequela interminabile di eventi tragici non avrebbe contribuito più di tanto alla loro risoluzione.

«Mi sei d'ispirazione» replicò Max, lusingato dal suo complimento. Schiarì la voce. «Comunque... uhm... v-volevo parlarti di una cosa.»

Dario deglutì. «Anche io» ammise, tentando di mascherare una punta d'ansiosa incertezza. «Chi va per primo?» chiese per sdrammatizzare.

«Vai tu» decise Maximilian, domandandosi se avessero pensato alla stessa, identica cosa. Sperava proprio di sì. Rio, invece, avrebbe tanto voluto rimandare la conversazione. Non si aspettava una reazione molto positiva, ma confidava nel fatto che il suo fidanzato era una persona comprensiva e sveglia. Fece un lungo respiro. «Per qualche giorno dovrò stare via» disse infine. «Si tratta di lavoro. Sai, no... quel lavoro. I piantagrane sono aumentati in modo esponenziale nell'ultimo paio d'anni e i Cacciatori e la Polizia di Obyria, così come quella di Athanasia, non riescono a tenere a bada tutti i cretini che non hanno di meglio da fare, se non fare casino. Non posso dirgli di no, Max. Non stavolta.» Il silenzio che seguì servì solo a farlo innervosire. «Parla, ti prego.»

Il biondo abbozzò un sorriso amaro. Cosa voleva che gli dicesse? Davvero ancora non sapeva immaginare cosa ne pensava lui? Dario lo sapeva. Lo sapeva benissimo. «E di nuovo si tratta di affari dei quali non posso sapere niente. Vero?» chiese, cercando di tenere a bada il tono di voce sardonico. Gli aveva solo accennato di cosa si trattava, ma non aveva specificato quanto sarebbe stato rischioso l'incarico. In quei due anni le cose non erano cambiate affatto da quel punto di vista: lui non poteva sapere, non doveva immischiarsi, ma intanto doveva restare a casa con un gran patema d'animo e sperare di non ricevere di nuovo una chiamata da parte di Grace che lo avvertiva che il peggio si era verificato di nuovo. Quante altre volte avrebbe dovuto trascorrere giorni insonni, sì e no appiccicato al telefono in attesa di sentire dall'altro capo la voce di Dario assicurargli che sarebbe tornato presto e che stava bene?

Odiava saperlo là fuori, chissà dove, possibilmente in pericolo. Odiava non poter essere lì a guardargli le spalle. Era una cosa che nessuno, neppure un Principe della Notte, si sarebbe dovuto azzardare a negare a un fidanzato. Atlas, di quel passo, avrebbe minato il loro equilibrio come coppia. Lo stava già facendo, anzi.

«Sì, esatto» rispose Rio, aspettandosi da un momento all'altro qualche battuta tagliente tipicamente nello stile del fidanzato. «Se hai qualcosa da dire, fa' pure. Non mi piacciono le questioni in sospeso. Ormai dovresti saperlo, no?»

«Penso solo che si approfittino di te quelli del Consiglio, specialmente Atlas. Insomma, se non sbaglio ti diedero il benservito secoli fa, eppure ecco che di tanto in tanto tornano a rompere le scatole e a rendersi conto di quanto tu in realtà sia utile a tutti loro. Sono ipocriti e tu... tu semplicemente li lasci fare, permetti loro di sfruttarti come un animale da soma e il peggio è che non vuoi dirmi perché. Dimmelo: perché?»

«Perché cosa?» incalzò stancamente Dario, massaggiandosi con l'indice e il medio una tempia. Di tanto in tanto era soggetto a mal di testa, altre volte invece si trattava di autentiche emicranie che lo mettevano al tappeto e costringevano ad assumere dei filtri che una sua vecchia amica, Sophie, si offriva di preparargli per alleviare i sintomi di quello spiacevole flagello. Una volta aveva commentato, preoccupata, che era davvero raro che un vampiro soffrisse di mal di testa, e mai aveva saputo spiegarne la ragione.

Max gli lanciò una breve occhiata e capì subito. Si odiava quando causava una discussione in momenti inappropriati come quello. «Perché te ne stai zitto a subire i loro capricci, tanto per dirne una» disse, sapendo che era tardi per tornare indietro e far finta di niente.

«Non mi va di parlarne. Non è il caso, non stasera.»

«Per quale ragione?»

«Perché... perché non capiresti, mi prenderesti per stupido. Okay?»

«Beh, non puoi esserne sicuro. Mettimi alla prova. Se capirò che per me è troppo, smetteremo di parlarne e basta.»

Dario, però, tacque. Non aveva alcuna intenzione di spiegarsi, era più che ovvio. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto vuotare il sacco una buona volta, ma come al solito rimandava, impilava una scusa sopra l'altra, troppo terrorizzato dalla prospettiva di vedere Max inorridire e guardarlo come tanti altri in passato lo avevano guardato. Non poteva perderlo. Non lo avrebbe sopportato.

Max sospirò profondamente. Non era giusto che perdesse le staffe. In fin dei conti la colpa non era la loro. «Dimmi almeno che non si tratta di niente di rischioso. Insomma, una cosa facile facile.»

«Se fosse un lavoro da niente non lo affibbierebbero a me.»

«Quindi tornerai come magari hai fatto l'anno scorso? Perché sai, sono stanco di vederti sempre sul punto di rimetterci qualche arto o la vita al completo. A volte sembra che non ti importi realmente della tua salute! Sembri aver dimenticato la paura che ho avuto quando sono arrivato al Sanatorio e mi hanno detto che eri in coma farmacologico perché ti lamentavi e soffrivi come un cane! Lo sai cosa ho provato?»

«Ci sono cose molto più importanti della salute di un singolo individuo» rispose Rio, quasi a denti stretti. «Qualche graffietto rappresenta solo la punta d'iceberg di danni collaterali ben peggiori. Se non ho potuto rifiutare, Maximilian, c'è una valida ragione!»

«Qualche graffietto?» ripeté Max, non sapendo se ridere o piangere. «Ti hanno ripreso per un soffio e riduci tutto quanto a qualche graffietto? Dimmi che stai scherzando!» Lo vedeva che si stava irritando, ma non ce la faceva a stare zitto. Non poteva.

Rio non sapeva cos'altro dire. «Se la cosa comincia a stancarti, allora sai cosa fare.»

«E questo cosa diavolo significa? Per me non è un peso! Io mi preoccupo per te, perché tengo a te! Ti amo e non voglio perderti, va bene?»

Max odiava quando Dario faceva in quel modo: quando stava zitto e si chiudeva in una specie di mutismo temporaneo che durava più o meno finché non era lui a smetterla di fargli la paternale. Tuttavia quella sera dovette stancarsi sul serio, perché stremato chiese: «Hai finito? Ora posso andare in camera mia, papà

«Va bene, ora basta!» Max, stufo marcio, fermò l'auto a bordo strada e si voltò per guardarlo. «Davvero divertente, sai? Dico sul serio! Continua pure, veramente!»

«Cristo santo» gemette tra sé Dario, ormai allo stremo della pazienza. «Non ci credo. Stiamo ancora a litigare per certe cose dopo due dannati anni!»

«Se tu ti aprissi con me e mi parlassi ogni tanto di quello che fai in giro, non staremmo ancora a parlarne dopo due dannati anni! Okay?»

«E IO TI HO DETTO CHE NON POSSO!» sbottò l'altro col respiro accelerato. Pareva sul punto di piangere. Meno male che due anni prima, quando gli aveva parlato di quell'aspetto della sua vita, Max aveva detto che non c'erano problemi, che avrebbe accettato senza fare domande. Lo aveva detto anche dopo l'incidente dell'anno scorso, eppure eccoli di nuovo lì a intrattenere una disputa che non sembrava avere fine.

Max cercò di trattenersi, ma alla fine non resse oltre e replicò: «Per quel poco che ne so, potresti anche stare con qualcun altro in quei giorni». Troppo tardi si rese conto di cos'aveva insinuato, di cosa la frustrazione lo avesse portato a dire. Rio sbatté le palpebre, sul suo viso l'espressione di uno che era stato appena schiaffeggiato senza motivo. Strinse le labbra e litigò con la cintura. «Vaffanculo, Max. Te lo dico con il cuore: vaffanculo!», scandì l'ultima parola, poi scese dall'auto sbattendosi dietro la portiera.

Maximilian per un momento rimase allibito, poi si riprese e lo seguì, correndogli appresso. «Rio, fermati!» Gli tagliò la strada. «Non volevo dire quello che ho detto! Lo so, sono... sono stato uno stronzo! Non so cosa mi sia preso! Ti giuro, mi dispiace!» Si sentiva un verme e Dario pareva essersela davvero presa, perché lo guardava con gli occhi che mandavano faville. «Ah, no? Allora adesso sono anche diventato sordo!» Lo fece spostare. «Ma levati! Mi scoppia la testa e adesso ti ci metti anche tu a peggiorare la situazione! Porca puttana!» Voleva solo allontanarsi e starsene per i fatti propri. Quello che Max gli aveva detto aveva fatto male, molto male.

So cosa accadrebbe se ti dicessi perché faccio tutto questo. Mi lasceresti subito, come hanno fatto gli altri. Mi guarderesti come se fossi un mostro.

Troppe volte aveva cercato di aprirsi, solo per poi restare deluso e ferito. Aveva imparato a sue spese il valore del silenzio mantenuto a qualsiasi costo.

Max non demorse e di nuovo gli andò dietro. «Va bene, va bene! Se non vuoi parlarne più e non vuoi confidarti con me, allora così sia! Lo accetto!»

«Come lo hai accettato fino ad ora?» replicò il moro con tagliente e cinico sarcasmo. «Dici questo e intanto alle mie spalle ti lamenti e ti perdi nel formulare congetture sì e no ripugnanti! Davvero un gran bell'esempio di onestà!»
Non servirebbe a niente aprirmi. Non è mai servito a niente. Strinse i pugni e si fermò. «Lo faccio perché ho un grosso debito da saldare. Ti basti sapere questo.»

Max si accigliò. «Che genere di debito?» Ripensando a cosa gli avevano detto Askan e poi in seguito Grace, forse aveva capito di che si trattava, ma voleva una conferma. In quei due anni Dario mai aveva accennato nei dettagli al proprio passato, si era sempre tenuto molto sul vago e aveva fatto intendere chiaramente di non voler parlarne, così come di provare molta vergogna a riguardo. Per il bene di quella situazione già sul filo del rasoio, però, Maximilian evitò di spiattellargli che era stata proprio Grace a raccontargli tutto, e non solo lei. D'altronde, se conosceva Dario, lui stesso lo aveva sicuramente sospettato più volte. Grace non era una che se ne stava zitta e buona a lungo, d'altra parte.

«Riguarda... una cosa che ho fatto. Più di una, in realtà.»

«Che cosa hai fatto, di preciso?»

Rio strinse le labbra. «Errori. Tanti errori o forse... forse dovrei definirli orrori. Cose brutte, Max. M-Molto brutte. Cose di cui non vado fiero, te lo assicuro.»
Credo che ormai sia inutile tenertelo nascosto, pensò amareggiato, figurandosi già cosa sarebbe accaduto non appena Max avesse saputo tutto. Non osò guardarlo, non ce la faceva. A volte gli era passato per la mente che forse Grace avesse potuto spifferare qualcosina a Max, ma c'era una bella differenza tra l'apprendere simili realtà tramite terzi e attingere risposte direttamente dalla fonte. «Non so se qualcuno ti ha mai accennato qualcosa sul mio conto, sul mio passato, ma se così fosse... mi vergogno ad ammettere che tante di quelle dicerie sono vere, purtroppo.»

«Uhm, i-io non... cioè...»

«Oh, per favore, Max!» si lamentò Dario. «Nemmeno non sapessi che a Obyria sparlano di me in continuazione. Sempre pronti lì a giudicare, a condannare. Non importa cosa ho fatto, cosa faccio e farò ancora, ormai ai loro occhi sono un vampiro sanguinario che finge di essere l'esatto contrario. Magari hanno ragione, magari è vero e sono il peggior ipocrita esistente. Hai visto anche tu cosa sono capaci di scrivere e di pensare su di me e a volte... a volte non posso non pensare che forse non hanno torto.»

Max si sentì male udendo quelle parole. Odiava quando Rio sminuiva se stesso, quando dava ragione agli altri e ascoltava la voce del prossimo che, spesso e volentieri, era velenosa. «Forse qualcosa ho sentito, è vero, ma onestamente non mi importa. Che dicano quel che gli pare.» Non gli interessava, non gli era interessato sin dall'inizio e la pensava ancora in quel modo.

«A me invece importa. Non posso ignorare tutto quanto.»

«Non dovrebbe importarti, invece. La gente quasi sempre parla per semplice cattiveria. Parla senza sapere, senza fermarsi a pensare. Che ne sanno loro di come sei veramente? Non sanno niente, Dario, e nessuno dovrebbe permettersi di giudicare a priori.»

«Nel mio caso è diverso, credimi. Ho... ho fatto cose orribili. Nel profondo non sono migliore del mostro che mi ha tolto la vita e poi me l'ha restituita. Sono peggio di lui perché... mi ostino a voler sembrare qualcosa che non sono. Mi sforzo sempre pur di essere accettato dagli altri e non risultare un tutt'uno con i miei sbagli passati, ma la verità è che siamo ciò che facciamo e abbiamo fatto.»

Non osava lamentarsi né dire di no a nessuno degli incarichi, neanche a quelli più spiacevoli, perché quello era l'accordo, quella era la sua personale espiazione delle tante colpe che si trascinava dietro. Colpe pesanti come catene arrugginite che a volte tornavano a soffocarlo, a impedirgli di respirare. A lui stava bene in quel modo, era già tanto che gli avessero permesso di continuare a vivere, anziché condannarlo alla pena più grande di tutte come in realtà avrebbe meritato. Non c'era vampiro peggiore di uno che predava gli esseri umani e i propri simili per puro e sadico piacere, di un vampiro che si lasciava governare dal proprio istinto animale e voltava le spalle alla ragione.

I vampiri erano bestie mascherate da umani, questo era vero, ma c'era un limite a tutto e una volta lui aveva superato quel limite, lo aveva calpestato con arrogante noncuranza, convinto che l'avrebbe passata liscia in eterno, e poco importava se in parte era stata Carmilla, una vampira a dir poco leggendaria, a indurlo a cedere a quell'orribile tentazione.
L'aveva fatta franca, certo, ma poi era stato messo all'angolo ed era stato costretto a guardarsi allo specchio, a farsi un esame di coscienza, a comprendere la gravità dei propri crimini. Tanti di essi erano imperdonabili e non ci sarebbe mai stato modo di espiarli, lo sapeva, ma aveva bisogno di un minimo di speranza, di una luce da inseguire alla fine di quella lunga e interminabile galleria; che essa fosse un semplice miraggio aveva poca importanza, mai ne avrebbe avuta finché si fosse ostinato a continuare, a cercare di migliorare se stesso e fare ammenda.

Non avrebbe mai riportato in vita tutte le sue vittime, i tanti innocenti dissanguati e smembrati che si era lasciato dietro, ma preferiva vivere di illusioni piuttosto che arrendersi e ammettere di aver fallito su tutti i fronti, di non essere l'uomo che aveva sperato di diventare prima o poi.

Criticava Arwin, lo aveva sempre fatto, eppure cosa lo rendeva migliore di quel vampiro? Le belle parole? I sorrisi meccanici? Quello scintillante e seducente involucro cristallizzatosi nella morte? Quel sogno irrealizzabile di svegliarsi, un giorno, e non percepire più quel terribile fardello sul cuore?

Cosa distingueva un uomo da un mostro? La verità era che aveva dimenticato tale sottile differenza tanto tempo addietro.

Trasalì  quando due mani gentili si posarono sulle sue spalle e poi lo fecero voltare. Max non sembrava arrabbiato, né disgustato. Dario si scoprì a detestare quella sua espressione indulgente e comprensiva.
Dovresti scappare lontano da me, invece di guardarmi in quel modo! Dovresti disprezzarmi! Perché non lo fai?
Non era giusto, lo sapeva. Sapeva di non meritare comprensione. Non guardarmi così! Non puoi davvero stare lì e guardarmi come se non fossi uno spregevole assassino, un mostro!
Di nuovo si sentì disorientato da Maximilian, dal suo atteggiamento spiazzante e spontaneo. Non accadeva da molto tempo, eppure eccoli di nuovo lì, di fronte al principio di tutto, come in un cerchio temporale dove tutto finiva per ripetersi all'infinito.

«Non sei un mostro. Nessun mostro saprebbe capire i propri errori né farebbe di tutto per espiarli» disse sincero Max. «Per me non conta chi sei stato, ma chi sei adesso. Te l'ho detto l'anno scorso e ora te lo ripeto: il tuo passato non ha importanza per me.»

Come può non contare?

Dario era attonito. «Non puoi dire sul serio.»

«Invece sono serio come la morte. Che ti piaccia o meno, questo non sarà sufficiente ad allontanarmi.»

«Non abbiamo la certezza che non ricapiterà e s-se dovesse succedere, s-se dovessi fare del male a te o...»

«Oh, andiamo, ora non cominciare ad arrampicarti sugli specchi!» scacciò la questione Max. «E poi, se anche fosse, rimarrei comunque, pronto a darti un bel ceffone e a farti tornare sui binari, credimi! Non ho paura. Mi senti? Non ho paura.» Wildbrook non resisté oltre e lo strinse forte a sé. «Sei proprio uno stupido, certe volte» disse con affetto sincero, poi si separò da lui e lo guardò negli occhi. «A me sta bene che tu faccia tutto questo per cercare di riparare ai tuoi errori passati, ma devi farmi una promessa: qualunque sia il lavoro da svolgere, dovrai sempre fare di tutto pur di tornare vivo. Non importa come, ma fallo. Ti chiedo solo questo.» C'erano già passati un anno addietro, ma ogni tanto era bene rispolverare argomenti così importanti per evitare che una promessa andasse dimenticata. Io amo tutto di te, difetti compresi. Non ti vorrei diverso da ciò che sei. Per me sei perfetto, pensò, stringendolo nuovamente quando lo sentì esplodere in un pianto silenzioso che lo scuoteva da cima a fondo come una foglia in balia del vento. «Tranquillo» gli sussurrò. «Ora che ho capito, è tutto a posto. Mi dispiace averti fatto soffrire.» Insistendo aveva cercato di aiutarlo, ma aveva ottenuto una reazione del tutto contraria a quella sperata.

«Sei il primo a essere rimasto» singhiozzò Rio. «L'unico a non essere scappato.»

Max non poté non sghignazzare. «Non sono scappato via neanche quando ti sei comportato da stronzo ai massimi livelli mentre eri in astinenza dai Fiori del Buio, figurarsi se fuggivo dopo una cosa come questa!»

«Cretino!» Dario gli assestò un leggero pugno sulla spalla, facendolo ridere ancora di più. «Non capisci un cazzo!»

«Ora sì che ti riconosco» lo punzecchiò appositamente Max, per poi separarsi da lui e ripulirgli il viso come meglio gli riuscì. «Ora come ora sembra che tu abbia alzato un po' troppo il gomito. Hai le guance rosse come due fragole!» Si sentì sollevato vedendo che finalmente era riuscito a strappargli una mezza risata. Neanche dopo due anni che si conoscevano e stavano insieme Rio si era mai sbilanciato fino in fondo, rare erano state le volte in cui Maximilian lo aveva visto ridere sul serio e per questo attimi come quello che stavano vivendo erano più speciali che mai.

Per lui era importante vederlo sorridere. Non solo con la bocca, ma anche con gli occhi e con l'anima. Poche persone sapevano farlo sul serio, troppe invece fingevano, a volte senza neanche rendersene conto.

Dario purtroppo era uno di quelli che difficilmente mostravano le proprie reali emozioni e preferivano sempre far vedere al mondo intero che nonostante tutto sapevano tirar fuori un sorrisetto beffardo solo per far ribollire il sangue a chi voleva loro del male. Da quel punto di vista era un bel po' orgoglioso, ma sempre meglio di chi non lo era affatto e non aveva un minimo di amor proprio.

Quando si fu calmato, disse una cosa che Max mai si sarebbe aspettato: «Se andiamo in un posto tranquillo, ti dirò tutto quello che vuoi sapere. Basta segreti. Dopotutto... questo era il più orribile che possedevo e... non voglio che tu mi guardi e veda una persona di cui non sai praticamente un bel niente. Voglio che tu mi guardi e pensi che nonostante tutto, nonostante i miei sbagli passati, i miei scheletri nell'armadio, mi ami per ciò che sono e sei felice di stare con me». Quella era un grosso atto di fede e per giunta era stato compiuto in via del tutto spontanea.

Max sorrise e annuì. «Va bene. Sarò felice di ascoltarti.» Si resero finalmente conto di esser rimasti sotto la pioggia come due oche da cortile e dopo essersi scambiati un'occhiata, scoppiarono a ridere. «Sembri una spugna» commentò il moro, la voce ancora lacrimosa. «Uno straccio per i pavimenti, anzi!»

Il più giovane mise le mani sui fianchi. «Senti chi parla! Quasi quasi facevi prima a non metterti niente addosso!» Gli circondò le spalle con un braccio. «Dai, torniamo in macchina prima di diventare due pesci a furia di stare a mollo!»

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