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𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐈. 𝐏𝐫𝐨𝐟𝐮𝐦𝐨


Cosa consiglio di ascoltare: ‟Kids" di MGMT.

https://youtu.be/aBd46BbdTfs

Imprecò sottovoce mentre tentava di infilarsi quei dannati jeans senza rischiare di strapparne le cuciture.

Saltellò a piè pari, sentendosi ogni secondo che passava sempre più ridicola, specie vedendo che Bruce era intento a fissarla in rigoroso e curioso silenzio. Come avrebbe fatto una persona al cinema con una bella ciotola di pop corn, osservava la padrona e intanto si sgranocchiava gelosamente nella gabbietta il suo prezioso gambo di sedano. Non gli si poteva dar torto, era una scena alquanto ridicola e divertente, persino agli occhi di un semplice e onesto coniglio domestico.

Amelia avrebbe voluto tenerlo libero, ma guai a farlo senza che sua madre non cominciasse a urlare come una sirena della polizia e a brontolare che quella bestiaccia le avrebbe solo rosicchiato tutti i preziosi mobili presenti in casa. Povero Bruce, e dire che era un roditore così perbene!

La ragazza sbuffò sonoramente e, nel farlo, sollecitò una ciocca dei suoi vaporosi e ribelli capelli scuri. Come se già tutto non fosse stato abbastanza, si era pure svegliata con un bel mal di testa. Di recente ne soffriva spesso, più del solito, e ricorreva così spesso al medicinale apposito, che ormai si era sì e no assuefatta, cosa che aveva causato una diminuzione dell'effetto benefico.

«Ti pareva che non dovessi cominciare a bestemmiare già di prima mattina» sibilò a denti stretti. Notando che Bruce non la piantava di fissarla, gli rivolse un'occhiataccia. «Mangia e guarda da un'altra parte, se non ti disturba, guardone!» lo rimproverò.

Sua madre diceva che i conigli, e gli animali in generale, non erano in grado di comprendere la lingua umana, ma lei aveva sempre la netta sensazione che Bruce capisse perfettamente tutte le sue parole. Prova ne fu che si concentrò sul sedano, rosicchiandolo con un improvviso e opportuno impegno.

«Ecco, bravo» mormorò affaticata la ragazza, sdraiandosi sul letto e riuscendo così finalmente a chiudere quei maledetti jeans.

Era la prima e ultima volta che infilava un malefico indumento comprato da sua madre, una donna talmente concentrata sugli affarracci propri che a malapena sapeva che la figlia non indossava affatto taglie così strette. Restava solo da sperare che i pantaloni si sarebbero assestati un pochino, a furia di indossarli.

«Amelia, sbrigati!»

La giovane si trattenne per un pelo dal mandare a quel paese la madre e infilò la prima felpa che trovò nel tugurio post-apocalittico che definiva ‟stanza". La felpa era la stessa del giorno precedente e se ne rese conto solo grazie alle macchie di colore sparse qui e là. Amelia adorava disegnare e dipingere e la sera dava sfogo alla propria creatività.
Non se la cavava male e quella artistica era l'unica materia dove non si era mai beccata voti da far piangere persino le statue.
Le veniva naturale sperimentare e pasticciare, sporcarsi le dita col carboncino e leggere con avidità i libri di testo scolastici inerenti all'arte. Era una di quelle persone che avevano bisogno di creare per mettere a tacere il caos che celavano nella mente.

Su uno dei pomelli della testiera del letto erano impilati diversi elastici per capelli. Ne afferrò uno qualsiasi e raccolse quel cespuglio in una coda alla bell'e meglio. Per fortuna la settimana seguente sarebbe andata a tagliarli! Non ne poteva più di quei capelli fin troppo lunghi per i suoi gusti. Le davano un gran caldo d'estate ed era comunque inutile tenerli a quella lunghezza sempre legati.

Meno male che almeno aveva già preparato lo zaino la sera precedente, altrimenti ci sarebbe stato da ridere.
Se lo mise in spalla e poi si avvicinò alla gabbietta di Bruce, aprendola. Accarezzò il suo soffice pelo nero, arruffandoglielo.

«Ci vediamo dopo. Vedi di non combinare casini, intesi?» si raccomandò, prendendolo su e sollevandolo all'altezza degli occhi per guardarlo dritto in faccia, o muso, che a dir si volesse.

Il silenzioso animaletto, ovviamente, non poté che rispondere fissandola, ma era chiaro, in qualche modo, che il messaggio fosse stato recepito.

Amelia fece un cenno. «Bene, vedo che ci intendiamo.» Gli baciò la testa, qualche altra coccola e lo rimise giù, uscendo in seguito dalla stanza e percorrendo in fretta il corridoio che conduceva alle scale. Scese facendo due gradini per volta, per poi saltare come al solito i tre finali.

Trovò sua madre intenta a controllare la propria borsa e intanto parlare al cellulare e sorridere come un'ebete. Era portentoso come riuscisse a fare tre cose diverse nel medesimo istante. Per Amelia era già tanto se riusciva ad ascoltare a scuola le lezioni e a prendere appunti senza perdersi in tutto quel marasma di informazioni e giri di parole.

Le bastò una semplice e breve occhiata per capire che sua madre stava parlando con Chase, ovvero il maggiore dei fratelli Spencer. Chase aveva ventisette anni, un lavoro con una paga affatto male e si era pure sposato, due anni prima. Come ultimo tocco, la moglie era in attesa del loro primo figlio.

Non che Amelia detestasse il fratello o la compagna di questi, anzi, lei le stava addirittura simpatica, ma odiava quel modo di fare di sua madre. Pareva quasi che solo Chase le avesse dato qualche soddisfazione. ‟Chase di qua, Chase di là" e via discorrendo fino alla fine dei tempi! Che barba! Non sapeva far altro che elogiare lui e incoraggiarla a seguire il suo esempio, sapendo benissimo che non sarebbe mai stata come il suo prezioso Chase.

Mica, però, era colpa sua se tutta la materia grigia l'aveva ereditata quel biondone in giacca e cravatta di suo fratello! La cosa che sapeva fare meglio era parlare con i conigli e imbrattare una tela e se alla signora Spencer quelle non sembravano doti degne di nota, allora era un problema suo!

Amelia roteò gli occhi, senza la minima voglia di voler provare a capire qualcosa di quella conversazione. Se ne andò in cucina, prese un bicchiere e recuperò dal frigorifero del succo di mela. Bevve in fretta e mise dentro la lavastoviglie il calice di vetro di raffinata fattura nel tipico stile che sua madre adorava.

Tentò infine di raggiungere il ripiano più in alto della credenza dove solitamente stavano i biscotti e altre schifezze di cui andava matta. Afferrò la prima merendina che le capitò a tiro, la scartò e ne prese energicamente un morso.
Tornò in corridoio e annunciò alla madre che sarebbe andata a scuola. La donna si limitò ad annuire e a farle cenno che in seguito avrebbero parlato.
La ragazza sventolò una mano con noncuranza e uscì fuori.

Frugò nella tasca laterale dello zainetto ed estrasse un pacchetto di sigarette, accendendosene una e inspirando lentamente. Non era un vizio di cui abusava spesso, qualche cicca ogni tanto e basta, ma quella mattina era particolarmente nervosa. Non aveva studiato e nelle materie scientifiche faceva già abbastanza schifo.

Un altro tiro, più lungo e profondo. Le narici le bruciarono un poco quando venne il momento di espirare e lo fece tramite il naso, ma non fece caso a quella spiacevole sensazione. Era troppo indaffarata a intavolare un piano di riserva per sopravvivere alle lezioni di quella mattina e ai test, soprattutto.

Poco male, troverò il modo di copiare, come al solito, pensò, avviandosi a piedi verso la prima fermata dell'autobus. Fortuna voleva che a quell'ora ne passasse sempre uno, e infatti eccolo lì. Dannazione, stava per ripartire!

Gettò a terra la sigaretta, ormai quasi del tutto consumata, e cercò di correre più in fretta che poteva.
Non era mai stata una campionessa di atletica e solo dopo qualche metro le veniva il fiatone, ma riuscì lo stesso a non perdere il mezzo e a salire in tempo.
Quando tuttavia si afflosciò su uno dei sedili, si rese conto che le gambe le sembravano ormai fatte di gelatina. La sensazione esatta, in realtà, era di essersi trasformata in una bambola di pezza per metà svuotata della segatura e del cotone.

Bambola, già!

Attese di riprendersi e poi aprì lo zainetto, recuperando da dentro di esso un vecchio coniglio di peluches.

Lo aveva da quando ne aveva memoria e non aveva mai avuto il coraggio di buttarlo o venderlo a qualche mercatino dell'usato. Era un ricordo troppo bello per essere gettato via.
Non tra i migliori che avesse posseduto e conservato, con quei bottoni di colore diverso al posto degli occhi e quelle mille e più cuciture sparse su tutta la piccola figura, ma gli era troppo affezionata.
Ricordava poco chiaramente come ne fosse entrata in possesso. Da piccola era convinta che fosse stato il suo amico immaginario a fabbricarlo e regalarglielo, ma a diciotto anni suonati sapeva da sola quanto quell'opzione risultasse stupida e visionaria.
Eppure non riusciva a trovare altre spiegazioni o altri modi con cui avrebbe potuto giustificare la presenza di quel coniglietto di pezza, che sembrava avere perennemente un'aria triste e malinconica. C'era qualcosa in lui di quasi struggente, a dire la verità.

Lo strinse forte tra le mani, un gesto di scaramanzia che in giorni come quello faceva sempre, una sorta di rituale, poi lo rimise dentro con cura.

Mentre osservava i quartieri susseguirsi fuori dal finestrino, pensò a tutto e a niente.

Per qualche strana ragione, fra tanti pensieri, fu proprio quello riguardo al suo amico immaginario a emergere e ad avere la meglio.
Di lui ricordava così poco, ma un tempo era stato tutto così vivido e... reale.
Una delle poche cose che mai aveva scordato di quella creatura, però, era la sua voce gentile e affettuosa, e ancora il fatto che tale bizzarro individuo fosse sempre stato lì, pronto ad ascoltarla e ad asciugare le sue lacrime, a giocare con lei e a farla sentire meno sola, specie quando Chase aveva attraversato il periodo in cui si era dilettato nel farle dei dispetti non sempre leggeri o di poco conto.
Rimembrava, ancora, che qualche volta quella creatura partorita dalla sua mente le aveva persino letto delle favole per conciliarle il sonno. Sorrideva sempre nel ripensare a come, certe volte, si era seduta all'indiana sul letto accanto a quell'amico immaginario e di tanto in tanto, mentre lo aveva ascoltato leggere, era intervenuta per interpretare i draghi feroci, Cenerentola con la sua scarpetta mancante e tanti altri personaggi delle fiabe.

Insomma, per alcuni anni era stato una specie di surrogato di entrambi i suoi genitori, specie suo padre che non vedeva quasi mai ed era sempre stato un uomo serio e dedito al lavoro.

Una volta aveva pure fatto un disegno che raffigurava quel particolare amico di fantasia per tentare di tenere il più possibile a mente tale strambo ex compagno di avventure, ma quando lo aveva poi mostrato con orgoglio e gioia a sua madre, fiera dell'opera, lei era impallidita e in seguito si era arrabbiata, dicendole che alla sua età sarebbe dovuta crescere e avrebbe dovuto farla finita con fesserie come gli amici immaginari, specialmente quando avevano un aspetto così strampalato.

Non aveva più rivisto il disegno e con esso se ne erano andati molti dei suoi ricordi, spazzati via dalla vita che era andata avanti, inarrestabile come l'acqua di un impetuoso torrente.

Non ricordava quasi più quel personaggio di fantasia, ma rammentava che un giorno, senza un motivo apparente, lui non si era più fatto vedere e l'aveva lasciata da sola. Coincidenza aveva voluto che tutto questo fosse successo proprio quando lei finalmente, alle elementari, aveva trovato un amico reale, in carne e ossa, che tutt'ora considerava più un fratello che un semplice amico.
A pensarci bene, però, non c'era niente di strano. Aveva semplicemente seppellito e messo da parte quel compagno di giochi immaginario col quale aveva compensato per anni la mancanza di un'amicizia reale. Quando non aveva più avuto bisogno di lui, era semplicemente sparito, come sempre accadeva. La sua mente non aveva più avuto necessità di creare esseri inesistenti e colmare una voragine che alla fine una persona concreta aveva riempito e arricchito.

Tuttavia, a volte, ammetteva che lui le mancasse un pochino. Con quel buffo e simpatico tipo aveva stretto un legame che mai si era ripetuto con altri, ed era proprio quel legame a mancarle.

Se n'era andato e si era portato via anche una parte di lei, la verità era questa.

Un sospiro quasi amaro e triste lasciò le sue labbra piccole e sottili, ma ben disegnate e mai state baciate in diciotto anni. Di questo non le importava niente, anche se sua madre sosteneva che diceva così solo per nascondere una specie di segreta frustrazione nel non essersi mai fidanzata con nessuno. Per un breve periodo la signora Spencer aveva però iniziato a sospettare e a credere fermamente che Amelia e il suo migliore amico si fossero in realtà messi insieme a sua insaputa. In quel lasso di tempo il poveretto non aveva avuto vita facile con quella donna che lo aveva tempestato di domande trabocchetto tutte le volte che lo aveva visto in casa e in compagnia di Amelia.

Odiava profondamente il Nebraska per via di quelle assurde temperature e di quel tempo invernale paurosamente uggioso. Mai sarebbe riuscita a capire cosa avesse spinto sua madre a lasciare il Kansas e solo per passare così dalla padella alla brace. Laggiù, a Topeka, abitava ancora il nonno materno al quale Amelia era molto legata; le dispiaceva non poter vederlo tutti i giorni e dover per forza aspettare le solite stupide occasioni annuali per andare a trovarlo. Era anziano e, a suo parere, avrebbe dovuto avere la famiglia accanto al completo.

Sapeva che il nonno, per quanto non l'avesse mai dato a vedere, si sentiva in realtà molto solo.

Amelia non aveva mai conosciuto la nonna, era morta tanti anni prima, quando ancora sua madre era molto piccola, ma nemmeno il nonno aveva mai voluto parlare della faccenda, mentre sua madre invece pareva arrabbiarsi o andare in iperventilazione ogni volta che la ragazza si arrischiava a porle delle domande.

Ovviamente non si trovavano in pieno Medioevo e per lei era stato un gioco da ragazzi prendere il PC e fare qualche ricerca, scoprendo infine che sua nonna era morta in maniera orribile, uccisa da un assassino che era stato condannato alla sedia elettrica solo due anni dopo l'accaduto. Il nome di quel criminale ancora ricordato in tutti i libri e i servizi televisivi inerenti all'argomento era Winston Harrison Fawkes. Nell'aver visto qualche sua fotografia risalente all'epoca dei delitti si era sentita male nel rendersi conto di quanto quell'uomo fosse potuto apparire normale all'esterno, solo per poi rivelarsi un mostro a sangue freddo. Winston Fawkes era stato uno di quelli che avevano smantellato l'antica credenza che un bel viso corrispondesse a un'anima altrettanto meravigliosa e buona. Non aveva avuto una bella vita, questo bisognava ammetterlo, almeno in base alla sua biografia presente su Wikipedia, ma niente giustificava ciò che era stato capace di fare, il male che aveva procurato a tante famiglie di Topeka. Un padre violento e dedito agli abusi fisici e psicologici non era una scusa valida, per quanto orribile e triste. Winston Fawkes aveva distrutto anche la propria di famiglia, aveva costretto la sorella minore a cambiare identità, non era riuscito a vedere il nipote crescere e farsi adulto né a costruirsi un futuro; aveva gettato via ogni singola cosa per... cielo! Amelia neppure riusciva a dare un nome a quella serie di orrendi delitti né a riassumerli in una sola parola! E il bello era che poi quel delinquente aveva negato fino all'ultimo di aver commesso quegli omicidi, aveva sostenuto in tribunale che non era stato lui a fare quelle cose e di aver subito una specie di possessione da parte di chissà quale entità malvagia. Naturalmente la giuria e il giudice lo avevano preso per matto e non gli avevano permesso di cavarsela con l'infermità mentale. Se n'era andato dritto dritto sulla sedia elettrica e ben gli era stato, dopo che aveva recitato la parte dell'innocente traviato da uno spiritello maligno durante tutte le fasi del processo contro di lui. Amelia aveva beccato per caso su YouTube un documentario registrato un bel po' di anni prima che aveva riportato diversi spezzoni di quanto accaduto in tribunale e nel vedere quell'assassino efferato negare le proprie responsabilità le era andato il sangue dritto al cervello per la rabbia, specialmente quando, a un certo punto, lo aveva visto e sentito chiedere scusa alle famiglie segnate dalla tragedia. Come se delle scuse avrebbero potuto mai ripagare tutto il sangue che era stato versato!

In seguito aveva tentato di nuovo di fare qualche domanda alla mamma, senza dar segno di esser andata a curiosare nel web, ma le reazioni erano sempre state le stesse, anche se non riusciva a togliersi dalla testa che in realtà sua madre sapesse più di quanto avesse sempre dato a vedere. Una delle cose più assurde che aveva scoperto era che sua madre, all'epoca e anche per alcuni anni dopo l'accaduto, aveva continuato a insistere circa la storia di un misterioso e bizzarro individuo che l'aveva salvata da Fawkes in tempo e poi portata alla stazione di polizia. Presa dalla curiosità, Amelia aveva cominciato a concentrare le ricerche su quel fantomatico Lavender Boy. In tutta franchezza già dal nome le era sembrato una delle solite trovate dei mass media per rendere il caso di Fawkes e della bambina sopravvissuta a un suo attacco ancora più famoso e degno di esser ricordato, anche se l'impatto mediatico e sulla cultura di massa era già stato bello forte. Con enorme disgusto, aveva scoperto che in alcuni blog vi erano individui che inneggiavano all'operato di quello spregevole assassino, ma si trattava di gente con il cervello che non aveva le rotelle al posto giusto.

Per quanto riguardava il famoso Lavender Boy, parlando di gergo americano, il significato di quel nome era per di più un disgustoso e offensivo appellativo col quale venivano apostrofati gli omosessuali. Non era tra quelli che avevano partecipato ai millemila cortei in favore dei diritti dei gay, ma di certo non era contro di loro, anzi tutt'altro: sapeva benissimo cosa voleva dire esser presi di mira e giudicati al microscopio per ogni singola cosa, e anche per questo non aveva mai sopportato di sentire la gente parlare male di persone che non arrecavano danno a nessuno e, come tutti, volevano solo esser lasciate in pace. Volevano essere libere di vivere la loro esistenza senza nascondersi nell'ombra o sentirsi condannare da quei deficienti bigotti con troppo fervore religioso addosso, o semplicemente ignoranza senza limiti. Troppo spesso, andando in giro, le era capitato di vedere persone anziane o perfino giovani occhieggiare con sdegno e incredulità una coppia gay che si teneva per mano. Una volta le era venuto un tale nervoso, che alla fine non ce l'aveva fatta più e aveva detto a una vecchia signora che se certe cose la disturbavano, allora era lei che doveva farsi curare e non le due povere ragazze che sulla panchina lì vicino si stavano facendo gli affari propri e baciando. 

Ad ogni modo, aveva approfondito le ricerche sul Ragazzo delle Lavande e aveva trovato un'infinità di opere derivate da quella striminzita leggenda urbana. Su DeviantArt aveva scovato molte rappresentazioni di quel soggetto, tutte diverse tra loro: c'era chi lo aveva disegnato come un essere dalle fattezze inquietanti, i canini appuntiti e i pungenti occhi viola, e chi ancora come un ragazzo dall'aria triste e i lineamenti angelici avvolto in un alone violetto.

Inutile dire che esistessero pure tante storie, fanfiction e persino un racconto ufficiale, una creepypasta scritta da un certo NoxBleach2371, scovato su diversi siti, uno dei quali il famoso Reddit. Da quel che il misterioso NoxBleach2371 aveva scritto, la storia non era affatto un racconto di fantasia fatto per suscitare inquietudine e mistero, ma un fatto realmente accaduto. Peccato che, secondo la storia, nessuno fosse mai riuscito a sopravvivere per più di tanto tempo dopo aver ricevuto una visita da parte del Ragazzo delle Lavande. Beh, quasi tutti: sua madre aveva continuato a campare alla grande e solo la nonna ci aveva rimesso la vita per salvarla.

Poteva trattarsi di semplici e presunti avvistamenti, come quello di tante altre leggende metropolitane, ma in alcuni siti di roba davvero insensata e balorda Amelia ne aveva trovata a vagonate. Leggendo le erano anche sfuggite delle risate, perché ne aveva lette di cotte e di crude.

Nessuno, tuttavia, aveva saputo dare un minimo di veridicità o di spessore alla questione, nessuna origine a Lavender Boy, come solitamente capitava con le leggende moderne su fantasmi e spiritelli.

Non c'era neanche molto da dire, in realtà. Insomma, si era semplicemente trattato di una bambina di sei anni che in qualche maniera aveva giustificato quei tristi e miracolosi eventi.

Forse pure la madre di Amelia aveva avuto un amico immaginario, ma lei riteneva assurdo pensare che quel Lavender Boy potesse esser davvero reale. Magari aveva attribuito tale aspetto fuori dalla norma a qualcuno di concreto che l'aveva aiutata a scappare. Molti bambini tingevano di fantasia eventi a volte molto drammatici che lasciavano in loro un trauma a vita.

Era impensabile, invece, che una creatura come il Ragazzo delle Lavande potesse esistere.

Certo, tutti i giorni si incontravano ragazzi con la faccia depressa e occhi e capelli viola come dannate prugne, lavande o quel che era! Tutte panzane, come diceva suo padre.

Smise di pensare a quelle cavolate quando si accorse di esser ormai arrivata alla sua fermata. Vide, come al solito, James seduto sulla fantomatica panchina dove sempre l'aveva attesa da quando si erano conosciuti, almeno finché non avevano entrambi preso la patente.

Le bastò guardare il suo viso d'avorio, i suoi occhi azzurri e buoni e il sorriso affettuoso sulle sue labbra per sentirsi subito un po' meglio. Lui aveva la strana, ma rassicurante, dote di saper portare la calma e la tranquillità pure nell'animo più turbolento, e di certo Amelia non faceva l'eccezione. Il sorriso candido e solare di James, una specie di marchio di fabbrica, era in grado di fare miracoli. Persino quel mal di testa fattosi leggermente più pungente riuscì a passare in secondo piano.

La ragazza si rimise in spalla lo zainetto e scese dall'autobus, andandogli incontro e salutandolo come sempre con il loro saluto speciale, ovvero dandosi un bel cinque e scambiandosi infine un simpatico occhiolino. Per quanto cretino fosse tale saluto, ormai era diventato una specie di rito che nessuno dei due si azzardava a profanare. James era tra le poche abitudini che mai l'avevano annoiata. Lo adorava e basta, tutto qui. Era come un fratello per lei.

«Ehi, oggi hai fatto più tardi del solito o sbaglio?» la apostrofò divertito lui, guadagnandosi uno scherzoso spintone per tutta risposta.

«Mi sono addormentata mentre scrivevo il mio romanzo!» si giustificò Amelia, roteando gli occhi.

Le piaceva molto scrivere ed erano quattro anni ormai che il romanzo in questione riposava senza molta pace in un computer, dilaniato dalle continue indecisioni e i logoranti cambiamenti della mente della ragazza.
Ogni volta che arrivava a buon punto rileggeva e provava immenso disgusto per cosa aveva partorito la sua testa, finendo dunque per cancellare e ricominciare da zero.

Probabilmente quella storia non avrebbe mai visto nulla se non l'interno di un buio gingillo di circuiti e pieno di files, canzoni e videogiochi. Sua madre riteneva il lavoro dello scrittore tra i più malpagati e instabili che ci fossero. Una bella dose d'autostima in più, senza dubbio.

Nel frattempo Amelia e James si avviarono, sapendo già che si sarebbero beccati una bella strigliata da parte della professoressa per quel ritardo proprio nel giorno del test.

«Non ti abbattere, prima o poi troverai la giusta ispirazione!» James cercò di spronarla e le sorrise candidamente. Era un ragazzo ingenuo, maldestro, dai capelli biondo grano e occhiali rotondeggianti che nascondevano in parte il viso comunque molto carino e dolce, forse addirittura davvero attraente. Tra sé e sé lo aveva sempre definito un ‟falso brutto anatroccolo". Probabilmente con addosso un costoso ed elegante completo di Armani, togliendo gli occhiali e impomatandosi ben bene i capelli, sarebbe potuto passare per uno di quegli scintillanti e giovani attori da tappeto rosso. Il punto era che a James mai era importato di quelle fesserie. Non perché considerasse il mettersi in tiro una frivolezza o perché fosse un bacchettone, ma... lui era fatto in quel modo. Era come appariva e al diavolo se per gli altri non era abbastanza.

Fra lui e Amelia c'era fraterna intesa e persino in quell'ultimo periodo in cui stava attraversando un momento turbolento in casa per via del divorzio dei suoi, Jay non aveva mai cessato di esserci per lei. Era un ragazzo d'oro e avrebbe meritato molto di più di quello schifo che doveva sopportare ogni santo giorno o ancora gli scherzi e i talvolta pesanti epiteti dei compagni. Lui le stava accanto e lei, invece, dava addosso a chiunque osasse dargli fastidio o prenderlo per i fondelli, e capitava spesso, quasi sempre.

Fu l'affetto nei suoi confronti a spingerla finalmente a curvare le labbra in un sorriso sghembo, ma riconoscente e sincero. Gli diede una piccola gomitata e si ficcò le mani nella grossa tasca della felpa. «Dimmi che hai studiato, geniaccio, o siamo fritti.»

Jay, deglutendo, sorrise nervosamente. «Uhm... domanda di riserva?»

Amelia sgranò gli occhi. «Tu che non studi per un compito in classe? Sono finita in qualche realtà alternativa? Allora sei umano anche tu! Lo sapevo!» Gli parlò tra il serio e il faceto, ma era davvero stupita e iniziava anche a preoccuparsi per l'esito della mattinata, oltre che per l'atteggiamento dell'amico che negli ultimi tempi la lasciava spesso a bocca aperta. Da un po' lo vedeva con la testa tra le nuvole e spesso più pensieroso del solito, ma lui aveva giustificato tutto con la preoccupazione per i genitori e lei non aveva voluto infierire più del necessario, non quando sapeva bene quanto fosse difficile per Jay parlare di quella faccenda.

Qualche settimana prima, addirittura, aveva ricevuto una sua chiamata in tarda sera. Lo aveva ascoltato piangere come un bambino, stentare a parlare e lei ci aveva capito pressappoco niente, ma non si era fatta problemi a dirgli, anzi quasi imporgli di raggiungere casa sua e passare lì la notte. In seguito aveva scoperto che quella sera i signori Peterson avevano passato veramente il limite e fatto un bel casino. James, semplicemente, non aveva retto oltre, sensibile e fragile com'era sempre stato.

Altra cosa che Amelia era venuta a sapere proprio la notte in cui era successo quel macello, era che a quanto pareva, il talentuoso e rigido avvocato Peterson avesse ormai da anni una doppia vita e James, tra urla e scenate isteriche, in quel modo aveva scoperto di avere persino dei fratellastri e una matrigna, per così definirla.
Tutto era iniziato il giorno in cui Peterson Senior aveva di colpo chiesto il divorzio alla moglie, senza nemmeno disturbarsi a spiegare. Ovviamente lei si era impuntata e aveva rifiutato, il resto era storia e non c'era bisogno di spiegare. Per ben sette anni il padre di Jay aveva abilmente celato tutto, e quando talvolta aveva detto di star via per lavoro, in realtà quel tempo lo aveva passato in compagnia dell'altra famiglia, fregandosene senza troppe paranoie di avere già una moglie e un figlio che un tempo lo avevano rispettato e amato.

Un bell'esempio di maturità e responsabilità per James, senza dubbio, ma per fortuna lui era molto diverso dai genitori, non aveva la puzza sotto il naso e lo sguardo sempre in parte velato da una sorta di fredda superbia.
James non si era mai vantato di niente, neppure una volta Amelia l'aveva sentito sparare corbellerie da spaccone su quanto la sua famiglia fosse ricca e potesse permettersi tra un po' pure la luna. Mai aveva gonfiato le penne e si era messo a elencare fanfaronate sui suoi ottimi voti a scuola, le sue capacità nelle attività extrascolastiche o di come fosse il nipote di un famoso e ormai defunto violinista.

James era un ragazzo semplice, si vestiva come una persona normale e mai si agghindava; non dava fastidio durante le lezioni ed era sempre riuscito a convincerla a sedersi su una delle prime file di banchi, così da poter assimilare meglio gli argomenti scolastici ed evitare distrazioni. Come sempre le ripeteva: si andava a scuola per apprendere cose nuove e fondamentali, per diventare persone adulte, non per passare il tempo e gingillarsi. 
Era una persona buona e umile, quando poteva andava a fare volontariato e a trovare la nonna paterna e i nonni materni, che erano stati purtroppo scaricati in un ospizio.
I suoi genitori avevano uno strano modo di mostrargli il loro orgoglio e la loro vicinanza, ma non era nemmeno così tanto assurdo o bizzarro. Di lui si ricordavano soltanto quando dovevano andare a parlare ai colloqui coi professori e vantarsi con gli altri genitori per i voti del figlio, o quando gli dicevano di studiare ancora di più e di dover essere il migliore in tutto, di dover vestirsi meglio, di eccellere persino in semplici hobby e mantenere alto l'orgoglio di famiglia. Si davano arie a tutto spiano come una coppia di aristocratici provenienti direttamente dalla reggia di Versailles. 

Se c'era una vera causa dell'accanimento dei bulli verso James, quella andava trovata nei suoi genitori e la loro sconfinata superficialità. Era ovvio che poi nessuno lo volesse calcolare se non per schernirlo o fargli uno sgambetto nel corridoio, con quei due stronzi che lo tartassavano di continuo ed erano fissati con il dover per forza essere i numeri uno.

Nonostante tutto, però, Amelia sentiva che c'era sotto dell'altro e che prima o poi avrebbe sputato da solo il rospo. Si conoscevano sin da quando erano bambini e ormai sapeva come prenderlo per il verso giusto. Con James bisognava attendere e basta, non era tipo da mantenere troppo a lungo segreti di alcun genere, che fosse per la sua candida onestà o il fatto che gli bastasse un niente per sentirsi in colpa.

Vedendolo avvilito e dispiaciuto, e poi sentendolo scusarsi, Amelia provò vergogna e gli strinse una spalla. Sperava solo che i Peterson fossero stati così impegnati a rimangiarsi come cani da non badare al suo aver saltato le ore di studio.

«Smettila, la colpa è mia che sono una sfaticata e non faccio niente dalla mattina alla sera. Così imparo a studiare!», dopo quelle scherzose parole, decise di cambiare argomento. Ci impiegò un paio di minuti per trovarne uno valido. «Comunque, passando alle cose serie, che ne dici se oggi andiamo a berci una cioccolata calda?»
Odiava la scuola e meno ci pensava, meglio era.

James annuì e abbozzò un sorriso. «Certo! Andiamo direttamente dopo le lezioni?»

«Andata!»

Purtroppo la macchina di Amelia non avrebbero potuto usarla per il semplice motivo che aveva dovuto prestarla a Chase, dato che lui aveva mandato la propria ad aggiustare.
Ormai erano trascorse quasi due settimane da allora e cominciava a stufarsi di dover usare l'autobus come quando non aveva ancora preso la patente.
Per fortuna Jay aveva un'auto tutta sua, parcheggiata nello spiazzo che poco fa avevano superato. La scuola non distava molto dalla fermata da cui erano partiti e ormai riuscivano a vedere l'edificio rosso mattone in lontananza.

Mentre continuavano a chiacchierare e camminare, per pura distrazione Amelia urtò la spalla di un passante.
Senza prestare subito molta attenzione né a quella persona né al suo aspetto, si scusò e fece per proseguire, ma un secondo più tardi si arrestò e si voltò di scatto, solo per vedere la strada completamente deserta, fatta eccezione per una donna che stava portando a passeggio il cane e alcuni ritardatari come lei e James.

«Elly?» la richiamò alla realtà il suo migliore amico, voltandosi a sua volta con aria confusa.

La ragazza lo guardò, un po' sconcertata. «Mi era sembrato di vedere...»

«Cosa?» incalzò Jay, stringendosi nelle spalle. 

Diamine! Eppure le era parso di vedere un tipo coi capelli viola e gli occhi forse del medesimo colore particolare. Li aveva incrociati per pochi istanti e non subito gli aveva dato peso. Certo, forse poteva essersi trattato solamente di un ragazzo fissato coi colori di capelli strani e lenti a contatto bizzarre, ma come si spiegava il fatto che fosse svanito nel nulla?

Quel pensiero ebbe vita breve: il tizio si trovava a pochi metri da loro, proprio verso la scuola, e stava guardando lei. Il suo sguardo era malinconico, triste e disarmante, e per qualche ragione le ricordò il suo vecchio e consunto coniglietto di peluches portafortuna; i capelli color lavanda erano lunghi fin oltre il collo e inanellati, e la pelle... Buon Dio, aveva l'incarnato di uno che non usciva di casa da mille anni, tanto era pallido! Faceva quasi spavento.

Perché, tra l'altro, avvertiva una leggera nota di lavanda nell'aria, appena percepibile e delicata?

Quell'ennesimo particolare le fece gelare il sangue nelle vene, specie aggiungendo che tale fragranza le era stranamente familiare e no, non parlava del fatto che la loro vicina di casa fosse da sempre in fissa con i cespugli di lavanda nelle aiuole.
Era un odore che stava facendo capolino da un angolo della sua mente, quello dove si era soliti relegare i ricordi man mano che si cresceva.

Era tutto troppo strano e fuori dal mondo, e... non poteva davvero trattarsi di lui, quel Prugna Boy o come si chiamava!

Distolse gli occhi e guardò ancora Jay. «N-Niente, è solo quel ragazzo laggiù. Ha un'aria strana» mentì, sperando che anche lui fosse in grado di vedere il tizio e di non avere dunque le allucinazioni. Non la rassicurò, tuttavia, vedere il suo amico girarsi e chiedere di chi stesse parlando.

«Quello laggiù, coi capelli viola» insisté Amelia, parlando sottovoce.

«Scusa, ma non lo vedo» ribatté perplesso James. Era sincero, non la stava prendendo in giro.

Lei, più scossa che mai, tornò a fissare il ragazzo, pallida come un cencio. Che significava tutto ciò? Aveva le allucinazioni?

Indietreggiò di istinto, come in trance, persa in quella sorta di improvvisa paura.
James, per farla tornare alla realtà, le strinse cautamente una spalla, preoccupato e allarmato. Nei suoi grandi occhi azzurri Amelia vide dell'altro. «E-Elly, stai sanguinando dal naso.»

Bastarono quei pochi secondi di disattenzione e quella specie di brutto scherzo della sua immaginazione svanì di nuovo nel nulla come fumo.
Amelia si pulì il sottile rivolo cremisi che le stava colando lentamente giù dalla narice e ringraziò Jay per il fazzoletto. Lui ne portava sempre un pacchetto in tasca, per ogni evenienza. Elly era disordinata e caotica, James responsabile e tranquillo. Si completavano come un puzzle.

La ragazza si tamponò il naso e rassicurò il suo migliore amico. «Credo sia il nervoso» recuperò immediatamente. Non voleva sembrare una pazza. Agitò una mano. «Comunque... dimentica cosa è successo adesso. Probabilmente ho letto troppe scemenze negli ultimi tempi.»

James, turbato, insisté. Amelia gli promise allora che gli avrebbe spiegato meglio quando sarebbero usciti da scuola.
Per le ore seguenti, tuttavia, non riuscì a togliersi di dosso quanto era accaduto né la strana, pazzesca e paranoica sensazione di essere osservata.

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