29. Flashbacks are thorns cutting the surface
Myra
Sono settimane che provo a chiamarlo e non ho ricevuto mai risposta.
So perfettamente che non dovrei farlo, non dopo essere stata la sola a prendere la decisione di separarci, ma non riesco a togliermi di dosso questa scomoda sensazione che mi raggela il corpo come un avvertimento.
Anche questa volta cedo e premo il tasto di chiamata, soggiogata dalle mie percezioni.
Suona libero, suona proprio fuori dal mio appartamento. Mi convinco che sia una coincidenza, ma quando apro la porta me lo trovo di fronte. Lascerei posto alla sorpresa, se il sollievo non fosse così forte.
Ha la testa bassa e non mi degna di uno sguardo mentre supera la soglia senza chiedere permesso. La scia che mi lascia addosso è inconfondibile.
Chiudo la porta e lo seguo in soggiorno.
«Hai bevuto?»
Solleva un angolo della bocca per mezzo secondo e punta gli occhi su di me.
Non ho mai visto quello sguardo.
«Chiedimi perché l'ho fatto.»
Anche la sua voce non è la stessa.
È bassa, rauca... piena di risentimento.
Butta a terra dei fogli che si disperdono ovunque; mi arriva ai piedi una fotografia e i miei presentimenti si fanno reali.
«Mi hai guardato dritto negli occhi e hai mentito su tutto» sibila nella mia direzione. «Come hai potuto tradirmi così.»
«È successo dopo che sei scomparso... Credevo fossi morto», non vorrei sentirmi in dovere di giustificarmi, ma è così, ne sento il bisogno.
Fa un ghigno divertito.
«Ti sei consolata in fretta.»
Non lo riconosco.
Questo uomo con gli occhi spenti, pieni d'odio, che a malapena sta in piedi, non è Andrew. Solo un contenitore, un mix tossico di rabbia e alcol.
«Non hai idea di cosa ho passato» ribatto, stizzita.
Perde il sorriso, ma non smette di guardarmi come se fossi la persona peggiore del mondo.
E potrei davvero esserlo dal suo punto di vista, considerando il poco che conosce del mio passato. Di ciò che sono stata e di ciò che sono adesso.
«Non sei in te. È meglio parlarne quando sarai sobrio.»
Raggiungo la cucina per prendergli dell'acqua fredda che possa renderlo più lucido, ma preme la mano sul frigo prima che possa aprirlo.
«Hai mentito anche sulla bambina, non è così?» mi sibila all'orecchio. «Non è mai stata mia.»
Ora percepisco tutta la sua rabbia e la sua disapprovazione. La mia è altrettanto grande.
«Arla. È questo il suo nome.»
Lo spingo indietro istintivamente, fuori di me.
«Non osare metterla in mezzo alle tue paranoie», mi sto contenendo nell'alzare le mani. La sua insinuazione mi fa ribollire il sangue: come può macchiare l'innocenza della mia piccola in nome del veleno che gli circola nel corpo. «Era tua figlia, che tu ci creda o meno. Dovresti solo vergognarti.»
«Vergognarmi?», è la prima volta che vedo un tale disgusto nella sua espressione. Fa un passo verso di me e mi spinge indietro.
«Sei tu quella che è andata a letto con mio fratello.»
«Se fossi rimasto con me... se ti fossi fidato di me, non sarebbe mai successo» preciso.
Voglio che sia chiaro, la colpa può solo essere di entrambi.
«Sarebbe davvero stato diverso?» mi chiede, scettico. Ho perso la sua fiducia.
«Cosa vuoi sentirti dire?»
«Avresti dovuto dirmi la verità fin dall'inizio» mi accontenta suo malgrado.
Respira profondamente distogliendo lo sguardo, tento di allontanarmi ma intercetta le mie intenzioni e allunga il braccio per impedirmelo.
Il rumore della sua mano che sbatte sulla superficie del frigo mi entra diretta nell'orecchio, mettendomi i brividi.
«L'ho fatto per te. Ti ho lasciata per risparmiarti del dolore» confessa, serrando la mascella. «Ma non è abbastanza» mi accarezza la guancia e ogni fibra del mio corpo si allarma. Non è il tocco gentile che mi ha sempre riservato, e diventa evidente quando mi intrappola il mento tra le dita con la forza.
«Mi hai lasciato per lui, non è così? Per continuare la tresca che avete in sospeso.»
Scaccio la sua mano dal mio viso.
Non è lucido, e senza dubbio si pentirà di tutto ciò che sta facendo.
«Fermati qui, Andrew. Prima che sia troppo tardi», mi schernisce con il suo sorrisetto ma persisto. «Tu non sei questo tipo di persona.»
«Sono stanco di essere ciò che volete che io sia» mi soffia addosso. «E più di tutto sono stanco di perdere ciò che mi appartiene. Se è come dici... se Arla era davvero mia figlia, ho già perso qualcosa di insostituibile. Non posso perdere anche te, lo capisci?»
«Non mi hai mai perso. Non succederà mai...»
Si avvicina per baciarmi e io sposto il viso di lato per evitarlo. È l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno, di cui lui ha bisogno.
Una favola senza lieto fine non può che farlo sprofondare nella disperazione più a fondo.
«Sei una bugiarda» mi sibila addosso.
«Rimani qui stanotte, non sei nelle condizioni di tornare a casa», gli passo di fianco per recuperare le mie cose. «Passerò la notte da Leila.»
Lo sento sghignazzare alle mie spalle.
«Da Leila» ripete. «Pensi che sia così stupido?»
Lascio la borsa e mi volto a guardarlo, esausta. «Credete tutti di essere dei maledetti santi. Abbiamo tutti commesso degli errori.»
Mentre mi si avvicina il suo viso continua ad essere una maschera di disgusto.
«Tutti?» sottolinea, contrariato. «Non riesci a tenerlo fuori nemmeno per un momento.»
«Se ti fa sentire meglio vedermi come la cattiva della storia, allora fallo» replico a testa alta.
«Quante volte ci sei andata a letto da quando mi hai lasciato?», i suoi occhi trapassano i miei.
«Smettila. Non rovinare quello che c'è tra noi—»
«Non è rimasto più niente», alza la voce, ma la sua sofferenza è comunque la nota più forte.
Lo abbraccio per tentare di confortarlo e calmarlo, e stringo più forte quando mi accorgo che non è intenzionato a ricambiare.
Per quanto non mi sia familiare la persona che ho di fronte, la sua sofferenza mi avvolge quasi mi appartenesse.
«Se non vuoi dirmelo, lo scoprirò da solo.»
Prima che possa capire cosa voglia dire, mi spinge sul divano alle mie spalle usando il peso del suo corpo.
Le mie gambe sono intrappolate tra le sue e il suo bacino preme su di me impedendomi di muovermi. Passa le dita sulla mia pelle, alla ricerca di qualsiasi segno che confermi le sue ipotesi. Non so chi sia; ha le sembianze dell'uomo che amavo, ma agisce seguendo una disperazione e un odio che non gli appartiene. Mi disarma a tal punto da non sentire più nulla, come se lo stessi vivendo da spettatrice.
«Andrew... basta.»
Non mi dà ascolto, continua a ispezionarmi il collo, le braccia, le gambe premendo con più forza ogni secondo che passa.
«Andrew.»
Al secondo tentativo, mi restituisce i suoi occhi, gettandomi addosso tutto il suo dolore represso, il suo bisogno, il suo amore contaminato di disprezzo.
Gli accarezzo una guancia senza accorgermene. Sono diversa con lui, perché ho paura di ferirlo. Nel profondo ho sempre temuto questo giorno: una fine senza possibilità di redenzione.
«Dimmi che non sei innamorata di lui e dimenticherò tutto» mi sussurra con la voce impastata di disperazione.
La sua supplica intrisa di dolore attraversa entrambi come un treno in corsa.
Non posso più mentirgli, posso solo evitare di esprimerlo a parole, di renderlo più tangibile di quanto già non lo sia.
Afferra la mano che gli tengo sulla guancia senza distogliere lo sguardo e la allontana.
Il silenzio ferisce più delle parole.
Me lo sussurrano i suoi occhi, la sua bocca, la sua fronte, ogni più piccolo dettaglio del suo viso. Finché non compare la rabbia.
Quella che gli impone di baciarmi contro la mia volontà, di tenermi stretto il viso affinché possa continuare a prendersi ciò che vuole.
Mi muovo compulsivamente per fermarlo e nel farlo finisco per ferirlo al collo.
Mi paralizzo, il mio passato ritorna.
Non posso credere che abbia avuto anche solo l'istinto di alzare una mano con l'intenzione di colpirmi. Fatico a credere ancora di più che mi abbia colpito, ma il bruciore sulla guancia non mi lascia scampo.
È sconvolto quanto me quando la abbassa ed elabora ciò che ha fatto. Si accascia su di me non più come una predatore, ma come un bambino ferito.
«Mi dispiace. Non so che mi è preso... Perdonami», la sua voce trema mentre mi stringe con dolcezza.
«Dispiace anche a me» confesso.
Mi pento di aver mentito, di avergli concesso involontariamente speranze non possibili, ma non delle mie scelte. Della sincerità che mi sono concessa.
Si solleva e involontariamente ho un sussulto che non avrei mai dovuto lasciare libero.
«Hai paura di me?»
L'ho ferito ancora un volta.
Non è lui il problema. Sono io.
So che non avrebbe mai voluto farmi del male, che non è come mio padre, ma senza saperlo ha scassinato la serratura di una porta che doveva rimanere chiusa. Non gli ho mai rivelato questa parte di me, non conosce la piccola e indifesa bambina che si nascondeva dal padre per sfuggire alla sua violenza.
Andrew è sempre stato il mio punto fermo, l'occasione di rinchiudere la me del passato.
Il mio nuovo inizio.
Ho scelto di mostrargli solo la mia luce, per paura che la mia oscurità lo avrebbe allontanato. Le menzogne generano altre menzogne, e alla fine tutto si trasforma in inesauribile incomprensione.
Sto per dirgli che si sbaglia, ma si alza rinchiudendosi nel suo sconforto.
«Devo andare. Ho fatto abbastanza.»
«No, Andrew, non è come credi...», premo la mano sul suo braccio per fermarlo e si volta a guardarmi. «Non ho paura di te.»
«Dovresti averne dopo ciò che ho appena fatto» asserisce.
Fa per andarsene, ma continuo a frenarlo.
«Non puoi andartene in queste condizioni. Rimani qui per questa notte—»
«Sono fuori controllo, Myra», si porta la mano al petto. Serra la mascella, distogliendo lo sguardo. «Ogni volta che ti guardo vedo lui su di te... Non sarei mai dovuto venire.»
Mi spinge indietro e si affretta a uscire.
Provo a stargli dietro, ma entra in ascensore chiudendo le porte.
Premo freneticamente il bottone per richiamarlo e alla fine corro verso le scale.
Quella raggelante sensazione continua a pulsarmi nel corpo, oscurando il bruciore della guancia; è un avvertimento che non posso più ignorare. Non faccio caso ai miei piedi nudi o alla pioggia che mi assale non appena esco dall'edificio, vedo Andrew salire in auto dalla parte del conducente e mi sale il panico.
Riesco a raggiungerlo prima che metta in moto e lo trovo nuovamente con la mano sul petto; sul sedile del passeggero sono sparse delle piccole pillole che non conosco.
«Andrew, che succede?», colpisco il finestrino e mi avvento sulla maniglia per cercare di aprire la portiera. «Apri!»
Evita di guardarmi e accende la macchina, continuando a premere la mano sul petto.
Mi accorgo del telefono che tiene sull'orecchio quando batte con violenza la mano sul volante.
Il suo viso deturpato dalla disperazione è l'ultima cosa che riesco a cogliere, prima che sgommi via lasciandomi in un vortice di paure.
Corro in casa e provo a chiamarlo ripetutamente, senza risultati. Il panico e la preoccupazione mi rendono instabile e irrazionale. Continuo a non sapere che fare, finché non raggiungo il suo nome in rubrica.
Il rintocco dell'orologio nella parete segue la pioggia e il susseguirsi dei suoni che precedono la sua risposta.
«Myra...»
Non lo sento da settimane.
La sua voce è una brezza fredda in piena estate, mi rassicura e mi calma la mente nel momento in cui mi entra in circolo.
«Ho bisogno di aiuto. Andrew è fuori di sé, ha saputo di noi... È ubriaco e ha preso l'auto. Non ho idea di dove possa essere andato, non risponde al telefono... e questa maledetta brutta sensazione non se ne vuole andare...»
«Okay, ora respira. Vengo a prenderti e lo cerchiamo insieme. Andrà tutto bene.»
Per quanto ci provi, nell'alone di calma in cui mi immerge percepisco il mio stesso affanno e quell'augurio viscerale che ripetiamo nella mente come un mantra.
Starà bene.
Lo ripeto a me stessa per tutto il tempo in cui attendo Eros al di fuori dell'edificio, osservando la ferocia della pioggia che si abbatte sull'asfalto.
Ho gli occhi puntati al cielo quando la sua figura si sovrappone alla mia, consentendomi di recuperare l'ossigeno che avevo trascurato.
«Che ti ha fatto?»
La sua voce è un miscuglio di sorpresa, collera e dispiacere mentre la sua mano si appoggia con delicatezza sul rossore della mia guancia. Vorrei aver scelto un posto più in ombra; vorrei che ogni luce presente questa sera si ottenebrasse per nascondere questo suo errore.
«Ho fatto di peggio...»
Il rossore sulla mia pelle se ne andrà tra qualche giorno, portandosi via anche il ricordo, ma le ferite che gli ho procurato non svaniranno mai del tutto.
«Dobbiamo trovarlo, Eros. Qualcosa non va, non l'ho mai visto in questo stato... Era ubriaco e credo abbia preso delle pillole. Ho paura che...»
Le parole mi muoiono in gola; ogni suo lineamento si contrae per la preoccupazione seguendo il mio esempio.
«Lo troveremo» mi sussurra, premendo le labbra sulla mia fronte.
Mi stringe la mano e mi trascina con lui sotto la pioggia in direzione della sua auto.
Starà bene, mi ripeto.
Deve essere così.
— 𝖢𝖤𝖨𝖫𝖤𝖭𝖠 𝖡𝖮𝖷 —
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Le carte sono in tavola.
O almeno alcune delle ultime rimaste.
Il risentimento di Andrew è evidente, così come il suo essere fuori controllo.
Però eh, non è finita qui... Ho sparso qualche segnale che spero abbiate colto, in caso contrario dovrete aspettare
il prossimo capitolo.
Un indizio? Sul finale Myra si accorge che Andrew sta parlando con qualcuno al telefono. Chi e cosa next time!
Vi aspetto intanto nei commenti con dubbi e impressioni che vi circolano nella testa giunti fino a qui.
Ricordate la stella prima di andare <3
Ceil.
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