1. You can't break what's already broken
Myra
Il rumore della pioggia mi consola più degli esseri umani presenti.
Detesto la finzione che ho di fronte agli occhi: una moltitudine di consanguinei che non sa nulla di Andrew e si limita a versare lacrime asciutte per compiacere la prestigiosa e potente famiglia Hart. Il loro rimanere a distanza conferma le mie viscerali convinzioni, nessuno di loro conosce il mondo di quell'uomo premuroso che sarebbe presto diventato mio marito.
Non riesco a piangere.
Non sento altro che rabbia.
Se il trapianto fosse stato fatto prima, se quella donna avesse speso le sue energie e quei suoi maledetti soldi per il suo unico figlio... Forse, non saremmo qui e io avrei ancora potuto stringere il mio Andrew. Il suo corpo freddo e immobile al di là del vetro e quel telo bianco che lentamente risale fino in cima è l'ultima immagine che ho di lui. Quella che più mi tormenta.
Non ricordo come e quando sia tornata a casa, l'unica imprescindibile certezza è di essermi risvegliata nel mio letto ventiquattro ore dopo. Nella mia testa continua ad essere tutto così annebbiato, confuso ed estenuante.
Ogni giorno il dolore e la rabbia mi trapassano la pelle, come se stessi ricevendo un elettroshock ad alta intensità. Sono sul punto di sentirne gli effetti ancora una volta, quando l'occhiata di sdegno del diavolo mi riporta in superficie. La regina dell'impero Hart, la donna con più soldi che cuore, la madre che non mi ha nemmeno permesso di vedere Andrew un'ultima volta, viene verso di me con il suo passo da élite e gli occhi di chi vorrebbe azzannare una preda.
E io non mi tiro indietro, nonostante ogni singolo muscolo del mio corpo implori riposo e la nausea e i giramenti di testa mi diano il tormento da giorni.
«Non potevi indossare qualcosa di più...»
«Volgare?», aggiusto con nonchalance una piega del lungo vestito in pizzo nero. «Ho fatto del mio meglio.»
Scruta con parsimonia l'esposizione della mia pelle nella profonda scollatura che si intravede dalla cascata del mio velo.
«Come puoi presentarti in questo modo al funerale di mio figlio», bisbiglia per non farsi sentire e nel frattempo sorride cordialmente ai passanti.
Mio figlio.
In mia presenza è sempre stato definito in questi termini.
Non ha mai accettato la nostra relazione e non ha intenzione di farlo nemmeno ora che si è tutto dissolto. È il suo Andrew e così sarà per sempre.
Se fossimo sole, sono sicura che sarebbe così premurosa da dare nuova forma al mio abito con dei fendenti ben sistemati. Oppure darebbe ordine di farlo alla sua scorta di prim'ordine.
Sfuggo qualsivoglia spiegazione, sarebbe solo fiato rubato inutilmente ai miei già sofferenti polmoni. Saprebbe tante cose di me e Andrew, se solo ci avesse osservati, anche semplicemente da lontano. La sintonia con il mio corpo non è mai stato un ostacolo tra noi: amava alla follia le mie curve, così come amava la mia personalità spinosa e imprevedibile. E io lo amavo anche per questa sua libertà di pensiero. Sapeva guardare il mondo, il mio Andrew, così come sapeva guardare me. Un tratto che, certamente, non ha ereditato dalla madre. Se solo mi avesse chiesto una volta cosa adorassi tanto di suo figlio, per sopportare tutte le celate umiliazioni che mi riservava.
«Grazie a Dio questa sarà l'ultima volta che infangherai la nostra reputazione con la tua presenza», mi offende come sa fare una donna d'alta classe come lei. Con garbo e compostezza.
Dio non esiste, mi dico mentre fisso la croce di fronte a me. Altrimenti, Andrew sarebbe con me. Non in una bara scura ricoperta di dannati fiori, ma qui, al mio fianco, occupato a solleticarmi la sottile vita con le sue dita affusolate.
Lo sciame dei ricordi, dei nostri ricordi mi procura un conato; fuori luogo dal momento che non mangio da giorni. Si ripresenta una seconda volta e sono costretta a sigillarmi la bocca con la mano.
«Non sarai...»
Gli occhi vitrei del diavolo mi attraversano il corpo come se volessero farmi un'ecografia seduta stante. Non mi spaventa la sua reazione, mi spaventa eccessivamente di più la supposizione nella sua mente. Un uomo in giacca e cravatta con l'auricolare all'orecchio le si avvicina e cattura miracolosamente la sua attenzione.
E io non ci penso due volte, colgo al volo l'opportunità offertami da quel pover'uomo che non sa cosa lo aspetta. O forse lo sa, ma è pagato profumatamente per non riconoscerlo.
Mi allontano; esco furtivamente dalla congestionata chiesa vittoriana come se ne dipendesse la mia vita. Scappo, anche se non troppo lontano.
Il marmo freddo della colonna a contatto con la mia schiena mi procura un refrigerio che non pensavo poter bramare.
Respiro, forte. Troppo velocemente.
Raccolgo la maggiore quantità d'aria possibile per poter sostenere quel pensiero.
Non può essere vero.
Non deve esserlo. Non adesso.
Non posso essere...
Tento di riempire i polmoni senza risultati.
Ho come l'impressione che la mia gola si sia ristretta talmente tanto da impedire il passaggio dell'aria. La velocità del mio respiro è triplicata, ma paradossalmente non migliora la situazione.
Annaspo, apro la bocca alla ricerca di ossigeno mentre premo il palmo della mano all'altezza del cuore. Mi piego in due sulla scalinata, convinta che sia giunta la mia ora. Convinta che Andrew mi stia richiamando a sé.
«Va tutto bene, sono qui per aiutarti.»
È di fronte a me.
Sento la sua voce calda, vedo l'espressione preoccupata che oscurava il suo volto durante i miei attacchi di panico.
«È la prima volta che ti capita?»
Lo sai. Sei sempre stato con me.
Eri tu quello che sapeva cosa fare.
Perché non fai quello che devi?
«Okay, guardami. Devi inspirare dal naso ed espirare dalla bocca.»
C'è solo una cosa che mi può far sentire meglio. Falla Andrew, prima che mi scoppi il cuore.
«Così, brava. Continua a respirare profondamente.»
Non è questo che mi fa stare meglio.
Quello che davvero mi fa bene è la tua mano sul mio viso, le tue braccia intorno al mio corpo, il tuo respiro che mi solletica il lobo sinistro.
Chiudo gli occhi e mi lascio cullare dal profumo speziato che emana la pelle alla base del collo e da quei battiti silenziosi che vincono i miei sospiri irregolari.
«Sapevo che non era reale» gli bisbiglio all'orecchio. «Sapevo che non mi avresti mai lasciata, Andrew.»
🥀🥀🥀
Dopo un lieve tentativo di richiamare all'ordine le mie pesanti ciglia, mi rivolgo alle palpebre affinché decidano di dischiudersi.
Il mio sbiadito sguardo si posa ingenuamente sulla prima cosa che identifica: una camicia bianca. Richiudo e riapro gli occhi per inumidirli al meglio delle mie possibilità e rialzo la testa sistemando un braccio al di sotto del cuscino.
Mi soffermo sui vigorosi avambracci segnati dai risvolti della camicia, poi risalgo lungo l'apertura alla base del collo per ridiscendere verso la generosa percentuale di pettorali che l'apertura lascia intravedere.
Ma perché mai uno sconosciuto dovrebbe essere nel mio appartamento?
È fuori questione. Deve senz'altro trattarsi di un sogno, o di un qualche deficit di ossigenazione cerebrale in seguito all'attacco di...
Scatto indietro come un felino a cui si sta minacciando il territorio.
«Chi accidenti sei?»
«Bentornata tra i vivi» replica l'uomo comodamente seduto sulla poltrona in velluto della mia stanza.
Se non fosse che la mia stanza non possiede alcun modello di comodità lussureggiante di quella portata. Mi guardo intorno e una scia di rassicurazione attenua la rigidità del mio corpo.
«Perché sono qui? Che vuoi fare?»
«Quante domande tutte insieme» commenta con fare spavaldo.
Incrocio il suo sguardo per cercare di cogliere qualcosa di quello sconosciuto che di punto in bianco ha deciso di portarmi in quella che sono certa essere la Suite VIP dell'Anantara Grand Hotel. Non riesco a trattenere un sorriso di fronte alla consapevolezza che, qualsiasi cosa abbia in mente, non riuscirà a dare sfogo ai suoi istinti nel mio posto di lavoro.
Ogni mia paura si volatilizza alla luce del fatto che so cosa mi serve e so dove trovarlo.
«Non ci provare.»
Il problema è che anche lui è fin troppo a suo agio in questo ambiente.
Il mio tentativo di raggiungere il pulsante di chiamata all'estremità del letto è fallito miseramente, e ora le sue mani sono strette sui miei polsi a bloccare un secondo tentativo.
«Vuoi violentarmi? È questo che vuoi?» sibilo.
Lui alza un angolo della bocca e mi guarda come se avessi pronunciato la prima classificata di una sua lista di banalità. Indietreggio fino a schiacciare la schiena sulla testiera del letto, costretta dal suo sprezzante avvicinamento. Il suo viso si accosta al mio spingendo inesorabilmente le mie mani sul suo petto.
«Se te lo concedessi, non aspetteresti di finire prima di implorarmi di ricominciare» mi bisbiglia all'orecchio.
«O forse, ti implorerei di farmi sentire qualcosa.»
Indietreggia di un sussurro per trafiggermi con il suo sguardo da rapace.
«Ti capita spesso?» mi domanda beffardo. «Deve essere frustrante non venire soddisfatti.»
Ricambio la sua occhiata con la stessa frenetica provocazione.
«Dimmelo tu. Come ci si sente a dover rapire una donna per raggiungere il piacere?»
Gli getto addosso la realtà con estrema soddisfazione, ormai incurante della sua occultata identità e di quello che potrebbe farmi. Come se non sapessi cosa si prova a venire umiliati, picchiati e fatti emotivamente a brandelli. Il suo sguardo lascivo si trascina sulle mie labbra ed è così seducente che mi ritrovo senza volerlo a schiuderle. C'è qualcosa in quest'uomo, qualcosa che abissa le mie difese. Qualcosa che sembra indurmi a cedere.
«Non come quando la si possiede.»
È così vicino che il suo respiro si disperde sul mio viso e si unisce al mio, ancora tormentato.
Sono senza ombra di dubbio i postumi dell'attacco di panico a permettere a quest'uomo di destabilizzarmi. O forse non voglio ammettere quanto i suoi lineamenti pizzichino il mio cuore ottenebrato dai ricordi.
«Chi sei...»
Le parole fuoriescono come suppliche senza il mio controllo.
Mai, all'infuori di Andrew, qualcuno è riuscito a far risalire in me un tale desiderio di conoscenza.
Le sue mani abbandonano i miei polsi, ma i suoi occhi oscuri non accennano a lasciarmi.
Siamo asserviti a quest'ultimo filo che ci unisce e i nostri corpi ne soffrono gli effetti.
«Non è il momento giusto» mormora, indugiando ancora un'ultima volta sulle mie labbra.
Sto combattendo con me stessa per non cedere alla fantasia di rifinire con le dita la sua spigolosa mascella; si contrae una seconda volta e si protrae fino alla sua deglutizione.
La sua gola a disagio è l'ultima cosa che mi permette di vedere in maniera così ravvicinata.
Sospiro silenziosamente non appena mi concede le sue spalle e deglutisco altrettanto silenziosamente seguendo il suo esempio.
«Che significa? Ti rendi conto che mi hai portata qui e non ha mai risposto a una sola domanda?»
La familiarità di quest'uomo potrà cancellare le mie trascurabili paure, ma non può in alcun modo delimitare l'assurdità di questa situazione.
«Rispondi o lasciami andare.»
Il mio ultimatum poco austero aleggia nell'aria mescolandosi al silenzio e al rumore acuto delle ceramiche delle tazze di caffè.
«Nelle tue condizioni credo che un tè sia più indicato» sottolinea porgendomi una tazza fumante.
«Da non credere» sibilo esterrefatta volgendo la testa in un cenno di incredulità.
«Io me ne vado.»
La sua mano si stende a indicare la via d'uscita. Non mi sorprende, so fin troppo bene quanto possano essere labirintiche le Suite del nostro hotel, mi dà molto più da pensare la giusta direzione che mi ha fornito che stona con qualsivoglia teoria di segregazione.
Rimango ancora qualche instante a studiare i suoi movimenti; mi dispiacerebbe scoprire a mie spese che sia tutto esclusivamente orientato a soddisfare un suo recondito piacere, quello di catturare una preda fuggitiva.
E per quanto il gioco del gatto con il topo non mi dispiaccia, se pensa che sia così facile mettere all'angolo Myra Rivera, è un sognatore con poca esperienza.
Oltre che un sadico squilibrato.
Sistema la tazza rifiutata sul ripiano alla sua destra e mi scruta con l'espressione di sfida di chi pensa di sapere tutto.
Non so chi sia, cosa voglia e perché lo voglia, tuttavia una cosa è chiara: Mr. Stranger non è una persona amabile. Trasuda elettricità, libidine e pericolo.
È compiacente lascivia, inafferrabile sicurezza, e una disturbante familiarità che richiama il mio sguardo e contorce la mia anima dall'interno.
«Se avevi comunque intenzione di lasciarmi andare, perché mi hai portata fin qui?» persisto, sempre più toccata da questo suo riserbo accattivante.
«Prima di andartene ricorda di indossare le scarpe.»
Il suo sorrisetto impregnato d'orgoglio rende chiaro il suo alto grado di intrattenimento.
Personalmente mi spinge a riflettere sul perché i miei piedi siano nello stesso punto da così tanti minuti. Incomprensibilmente.
«Insomma chi diavolo sei? Cos'è che vuoi? Rispondi. Ora!»
Ho perso le staffe, altrettanto incomprensibilmente.
E mi sconvolge apertamente, senza darmi tempo di dissimulare.
Riconosco il frammento spezzato dentro di me, il fuoco sopito del mio passato che ho scelto di rendere irrintracciabile molti anni or sono.
Più precisamente, dopo aver conosciuto la madre di Andrew.
Il suo ricordo mi scocca una freccia diritta al petto. I nostri sorrisi, le nostre risate, le sue mani in ogni curva del mio corpo non fanno altro che estendere il vuoto che mi dissolve ogni ora di più.
Colgo un cenno di apprensione sul volto dello sconosciuto, ma non ho tempo di indugiarvi approfonditamente.
«Perché eri a Prinsengracht? Conoscevi Andrew?» chiedo incessante, pervasa da una nuova luce di chiarezza. «Volevi partecipare al suo funerale, non è così? Per questo ti trovavi lì. Ed è per questo che mi hai portata qui.»
Faccio un passo verso di lui raggiante delle mie certezze. «Conoscevi Andrew e sapevi che ero la sua fidanzata.»
Incrocia le braccia al petto e mi osserva con espressa soddisfazione. «Fermiamoci qui, al tuo perspicace talento» propone con decisione.
Lo spazio stipato di rifiniti arredamenti, vuoti ricercati e colori tenui che ci ha separato per pochi minuti viene assorbito in soli due passi. Due suoi passi che ci riportano punto e a capo.
«Hai appena avuto un attacco di panico.
Sono riuscito a fermarlo per chissà quale fortuna, non voglio rischiare di non riuscirci la seconda volta.»
Solo ora percepisco la sua altezza, ora che la sua ombra assorbe possessivamente la mia.
Solo ora riconosco quanto quella stretta camicia soffochi la sua prestanza fisica, i suoi muscoli e il suo petto assuefatti di esercizio di dubbia natura.
La stessa mano che pochi istanti prima aveva sigillato uno dei miei polsi, ora è intenta ad avvolgersi sulle dita una mia ciocca castana.
Non sono gli occhi a suggerirlo, bensì quel fruscio all'altezza del mio seno che raggiunge la mia pelle nonostante i veli di pizzo scuro.
Il mio cuore mi intima di retrocedere, strepitando con i suoi battiti convulsi.
Ma il corpo è traditore, così come la mia anima.
Perché ogni suo gesto suggerisce una volontà di sedurmi? Perché ogni passaggio dei suoi occhi tenta di dischiudere la fievole fiamma che tengo segreta?
Mi ammira come se sapesse chi sono, come se mi conoscesse più profondamente di me stessa.
Come se sapesse sulla sua pelle cosa significa dover dominare ciò che è visceralmente radicato.
Appoggia il pollice sul mio labbro inferiore e trascina una linea immaginaria fino all'estremità contraria. Torna indietro con calma e si scontra volutamente con il centro del mio labbro superiore. La mia bocca si dischiude come la prima volta, soggiogata dalla sua, così pericolosamente vicina. I nostri respiri si fondono, si confondano, si accarezzano pregustando il seguito. I nostri occhi riflettono le tenebre dell'altro senza scostarsi, senza alcun accenno a chiudersi. Ripudiano la vergogna, il turbamento, la coscienza.
Andrew.
Faccio un passo indietro, completamente disfatta da ciò che stava per compiersi.
Il mio cuore chiama a raccolta la razionalità, l'etica, il rimpianto, la paura.
E non ha pietà, giunge fino alla distruzione.
Il resto lo fa la mente stracciando i rimasugli del mio amor proprio.
Il suo corpo snaturato dal candido lenzuolo, la gelida bara riversa di fiori al centro della chiesa e la cerimonia funebre mai vissuta mi pugnalano ripetutamente dove ancora sanguina.
Mi piego in due, sopraffatta dalla nausea, stringo le labbra per sopprimere il dolore e per punirmi con tutta la forza che ancora ho in corpo.
«Sei incinta.»
Lui, l'uomo senza nome, mi infligge il colpo di grazia, lanciandomi nel baratro dell'inadeguatezza.
Lo spingo via e corro, senza voltarmi indietro.
Nonostante i tacchi, la nausea, la tachicardia, le lacrime.
E il disprezzo verso me stessa.
— 𝖢𝖤𝖨𝖫𝖤𝖭𝖠 𝖡𝖮𝖷 —
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Attendo di leggere le vostre impressioni sul primo POV di Myra!
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Grazie <3
Ceil.
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