Kid A
If you like Paris in the springtime,
London in the fall,
Manhattan in the autumn
With music on the mall,
Stop fooling with the fallout
Or puff the cosmic ball
Or soon you will be fissionable material.
(Jamaica)
«Hey! Did all the fruit flee to Pear-is?»
Appena un secondo di risate preregistrate. Il protagonista della sit-com fissò a braccia aperte un'alzata in vetro. Vuota. L'immagine scomparve nel nero.
Con un'espressione mortalmente annoiata, Anya appoggiò la schiena contro il muro. Raddrizzò le spalle, tamburellò con un piede a terra e con entrambi i pollici sullo schermo spento del telefono. Quell'affare aveva cominciato a causarle una certa ansia, a bruciarle le retine prima di andare a dormire.
E pensare che una volta era stato così rassicurante.
La ragazza gettò indietro il collo e con un sospiro alzò gli occhi verso i led del corridoio, accesi già di mattina. La luce era in parte bloccata dalla visiera del suo cappello irlandese. L'Università era strana. Lei, che per colpa di una curva dell'attenzione che calava rapidamente a picco aveva a malapena finito le superiori, non riusciva a capacitarsi della presenza di così tante persone appassionate allo studio. Eppure comprendeva le ossessioni: la sua vita, fino a poco tempo addietro, le era sempre sembrata fatta di orizzonti degli eventi e attaccamenti morbosi. Prima a quel cellulare, poi a Jeremiah che l'aveva salvata, rubandole dal cervello la possibilità di pensare a qualsiasi altra cosa... era stato lui stesso a spiegarle che un comportamento del genere non andava bene. Nessuno nell'esercito glielo aveva mai detto.
La porta dell'ufficio che aveva accanto cigolò sui cardini, e lei abbassò gli occhi sul telefono. Lo sbloccò: la dashboard mostrava la foto di un gatto che si rilassava al sole con un sorriso quasi umano, accanto a uno steccato bianco. Lo bloccò di nuovo.
E pensare che un tempo quello era l'unico modo che aveva per ricordarsi del passato.
Marianne...
«Anya,» il suo nome, pronunciato con tono gentile e formale da qualcuno che lei non vedeva, scacciò via quello della stronza. «Puoi entrare».
Anya avanzò verso la porta. Gettò un ultimo sguardo al corridoio, senza nemmeno pensarci: non era più in uno di quegli hangar del cazzo, non c'era motivo che qualcuno la seguisse. Eppure guardò lo stesso.
Non appena varcò la soglia dell'ufficio, Lloyd richiuse la porta alle sue spalle. Dopo quel suono, calò un silenzio perfetto.
Anya, senza mostrare alcuna emozione, affondò la mano destra in tasca. Solo quando chiuse la mano attorno alla USB trovò il coraggio di alzare gli occhi su di lui. Oltre il riflesso degli occhiali, lo sguardo del professore era serio quanto il suo. E il fisico sottile di Lloyd le ricordava un po' se stessa. Le era familiare l'aria in quella stanza, permeata dalle pastiglie inodori che erano costretti a mandare giù ogni giorno. Eppure lei la puzza degli antipsicotici la riconosceva ovunque. Quelli che servivano a evitare che le pareti si chiudessero su di loro.
«Non lo sapevamo». Anya strinse il pugno e sentì le unghie corte che affondavano nella carne del palmo. Poi allungò la USB verso il professore, la cui mano la attendeva come si attende un pegno per il passaggio. Il gemello d'argento che gli teneva chiuso il polsino brillava sotto la luce artificiale. «Nessuno dei Knights of the Round sapeva che cosa stavamo portando».
Lloyd abbassò lo sguardo senza dire niente. Le sue sopracciglia sottili si aggrottarono appena e le due rughe al loro centro si accentuarono.
«Lei sa com'erano configurate chiavette come questa,» continuò Anya. «Mi aiuti, e riuscirò a rallentarlo».
Lloyd chiuse le dita attorno alla USB. Il pendente azzurro a forma di farfalla che Anya vi aveva attaccato oscillò, ignaro dell'attrito dell'aria come in un problema di fisica.
«Quante gliene mancano?»
«Non le resta molto tempo, professore».
*
Neanche quando l'élite militare e civile di Britannia si era riunita per celebrare in pompa magna la sua nomina a Knight of Three lui s'era sciolto quelle maledette treccine. Treccine bionde orgoglio di papà, che lo guardava dalla prima fila e batteva al tempo impostogli dalle occasioni formali le stesse mani con cui aveva picchiato la sua ragazza.
Le corna da diavolo del Tristan, il Frame che lo aveva fatto arrivare sin lì, svettavano verso le nuvole, dritte e appuntite. La vernice non aveva nemmeno un graffio, il metallo neanche un acciacco. Sul petto gli riluceva un blasone che ormai valeva quanto una pipa di tabacco.
A testimoniare quel giorno non era rimasta che la data scritta al centro dell'attestato che faceva la sua bella mostra in cornice, affisso al muro del soggiorno. E poco sopra campeggiava il suo nome: Gino Weinberg, Knight of Three, uno di cui non era rimasto che un corpo che si dirigeva verso il salotto in boxer con una lattina in mano.
Del resto, a parte sporadiche fitte al fegato la sua vita fino a quel momento non era stata poi così male. Un po' come quella birra del discount.
Una delle due lampadine della sala si era fulminata, e dava all'ambiente un tocco un po' provinciale e un po' funereo.
Gino tossicchiò e, con le lunghe braccia magre che ciondolavano ai fianchi si diresse verso il divano.
La lattina di birra cadde a terra con un tonfo, rovesciando il suo liquido appiccicaticcio sul pavimento sporco.
«E tu quando cazzo–?»
La figura incappucciata che era seduta sul divano, immersa nella penombra, alzò la testa verso Gino. Una sciarpa scura gli copriva i lineamenti, in modo tale che fosse impossibile distinguerli, tuttavia l'attenzione del Knight of Three fu subito attratta dal luccichio metallico che proveniva dalle sue mani.
Guanti neri. Nella destra stringeva una pistola, nella sinistra un vecchio lettore di audiocassette.
Lo scatto di un pulsante risuonò nella stanza, seguito da una voce metallica:
<Sì, ti avevo chiamato. Volevo parlare un po' con te. Dei tempi in cui eri uno dei Knights of the Round, ti ricordi?>
Gino indietreggiò. Con la coda dell'occhio, vide la porta della propria camera aperta. L'uomo doveva essere entrato da lì.
«Che cavaliere poco fedele,» esordì lui, con una voce che pareva sforzata per sembrare più profonda. Gino indietreggiò verso il tavolo, cercando a tentoni qualsiasi cosa potesse essere usata come arma. Imprecò quando non trovò nulla.
«Avresti dovuto portargliela al Tea Party,» continuò l'intruso. «Ho avuto tempo di frugare ovunque nella tua stanza, ora so che marca di preservativi usi, ma non c'era traccia della chiavetta».
L'uomo si alzò: era alto quanto Gino, e nonostante il fisico più sottile pareva meglio allenato di lui, impressione a cui contribuiva la sua postura marziale. Inoltre, la pistola silenziata che gli puntò contro suggeriva di decidere in fretta come reagire.
«Consegnamela subito».
Gino si scagliò contro il braccio dell'aggressore, mirando a disarmarlo. Un proiettile, esploso senza rumore, partì in aria e si conficcò a poca distanza dalla lampadina già fulminata sul soffitto. L'uomo lasciò cadere il registratore e rispose con un sinistro diretto in faccia, che Gino riuscì a parare coi gomiti. Con un gemito, il ragazzo tentò di colpirlo con una ginocchiata allo stomaco, ma non ebbe la forza necessaria per gettarlo indietro.
Fu invece l'uomo a spingerlo. Pose tra loro una distanza che gli permise di puntargli di nuovo l'arma contro, e Gino sentì il familiare rumore del colpo in canna.
«I morti non parlano,» commentò il Knight of Three, fissando la bocca della pistola con le mani alzate.
«Dove l'hai nascosta?»
«L'ho data a Zero».
«Sappiamo entrambi che non è vero».
«E te come lo sai?»
La risata di sfida che scappò dalle labbra di Gino fu un errore: l'uomo sparò all'altezza della sua testa. Il proiettile gli colpì l'orecchio sinistro e lo tranciò di netto.
Con gli occhi sgranati, Gino si portò la mano alla ferita. Sentì il sangue che si spalmava sul viso e un fischio acuto che gli trapassava il cervello. Un odore nauseante coprì quello dolciastro della birra versata.
Il Knight of Three boccheggiò mentre crollava sulle ginocchia.
«Nella credenza...» biascicò. Il mondo cominciava ad annegare nel cremisi, ma Gino raccolse tutte le proprie forze e premette la mano contro l'ammasso di carne che una volta era stato il suo orecchio. «Il... il cassetto a destra...»
Non sentiva più nulla, ma riuscì ad alzare gli occhi dagli schizzi di sangue sul pavimento e a vedere l'uomo che si dirigeva verso il punto che lui gli aveva indicato, per poi tirare verso di sé il cassetto. Poi si girò verso lui e digrignò i denti. Gino non riusciva a sentire le sue parole, ma nella sua mente si stava facendo strada il ringhio di un cane.
«⎻essa ⎻valiere di merda!»
«È lì! Te lo giuro!» strepitò il Knight of Three. Si chiuse su sé stesso in posizione fetale, con le mani premute sulle tempie, e il dolore che quel movimento gli causò fu talmente forte che il suo volto si rigò di lacrime. «Te lo giuro! Il cassetto a destra!»
Nonostante fosse consapevole di gridare, riusciva a udire solo un sussurro patetico. Quello che era sempre stata la sua voce.
Lo sparo che aspettava non arrivò e, nonostante fosse paralizzato dal terrore, Gino riuscì ad alzare lo sguardo verso la credenza, nella speranza che il suo aggressore avesse trovato quello che cercava e gli riservasse un po' di pietà.
Lo vide prendere dal cassetto a destra la USB che aveva sperato di dimenticare assieme all'orrendo set di piatti di sua nonna. Li tirava fuori sempre quando erano nella casa al mare, e doveva propinare a tutti quella zuppa di pesce che sapeva d'aceto.
L'uomo la contemplò per qualche istante, poi puntò la pistola contro Gino che giaceva sul pavimento, sporco del suo stesso sangue.
Fu uno strano pensiero prima di morire, quello che avrebbe volentieri mangiato per un'ultima volta quelle caramelle frizzanti a forma di verme.
*
«Okinawa?»
La voce dura di Cécile si era fatta strada tra vecchi libri di cosmologia, modellini di Frame e scartoffie da consegnare alla segreteria del Colchester Institute of Science, Dipartimento di Fisica e Astronomia William Herschel (c'era stata una recente diatriba, dalla quale il professor Asplund si era prontamente astenuto, sulla possibilità di chiamarlo invece "Dipartimento di Astronomia e Fisica": presto la situazione era degenerata, e il dubbio se preferire la consuetudine o l'ordine alfabetico si era trasformato in una sgradevole competizione tra le due discipline), ma non riuscì a insinuarsi attraverso gli spiragli troppo stretti di una decisione già presa. Lloyd, seduto alla sua scrivania, la guardava con una mano appoggiata alla guancia e gli occhiali che penzolavano per una stanghetta dalle dita dell'altra. Non diede segno di voler rispondere, quindi fu lei a continuare:
«Siamo in fottuta DEFCON 2 e lei si fa mandare a un convegno a Okinawa?»
Lui le rivolse il suo ampio sorriso a occhi chiusi e inforcò alla cieca gli occhiali, che come risultato gli rimasero inclinati verso destra.
«Esatto!»
Nonostante sentisse gli occhi di Cécile puntati addosso, Lloyd scelse di ignorare quel peso e si mise a scartabellare alla ricerca dei propri appunti su una dimostrazione che aveva dovuto controllare di recente, già temendo di dover calcolare di nuovo i simboli di Christoffel di una metrica particolarmente intricata. Con sollievo, si accorse che il foglio era sotto alla copia del Candido di Voltaire che stava leggendo in quel periodo.
«Lloyd,» lo chiamò la sua assistente, uscendo dall'indeterminazione quantistica. «Che cosa sta succedendo?»
Il professore alzò il viso verso di lei e si sistemò gli occhiali.
«Che stanno determinando la costante di espansione dell'Universo!» il suo sguardo fu illuminato da una scintilla d'entusiasmo. «Hanno delle misure che provengono dalle galassie a basso redshift, e forse è la volta buona che la teoria dello stato stazionario–»
L'orologio al muro sembrò ticchettare più forte, quasi volesse ristabilire il silenzio. Cécile era in piedi dritta come un manico di scopa.
«In Giappone c'è gente che vuole la sua testa».
Lloyd si stravaccò sulla sedia e portò entrambe le mani dietro la nuca.
«Oh,» minimizzò, storcendo la bocca, «se mi fossi fermato appena qualcuno voleva la mia testa, non saremmo neanche alla quarta generazione di Knightmare Frame».
La ragazza strinse i pugni lungo i fianchi e contrasse vistosamente la mascella, segno che si stava trattenendo dal dire che cosa pensava di lui.
«Vengo con lei».
La porta che si chiudeva con un rumore deciso era il segno che quell'affermazione non ammetteva repliche, o meglio ne ammetteva solo una.
*
Il portone dell'appartamento di C.C. si richiuse alle sue spalle e lei si voltò verso Kallen che, con un piede appoggiato al muretto, si stava accendendo una sigaretta. Da quando aveva cominciato a lavorare come bodyguard per la VS, indossava sempre alti anfibi neri con le zeppe, in qualsiasi stagione e con qualsiasi abito, se non costretta dalle circostanze: quando li cambiava, era segno che stava cominciando a fare veramente caldo.
«Dimmi, che cosa sarebbe questo Marasma? È qualcosa che posso capire anche io?»
Nel ricevere quella domanda, C.C. strinse d'istinto la tracolla della borsa, come se temesse di perdere qualcosa che le apparteneva. Tuttavia, quando rispose, la sua voce era imperturbabile come al solito:
«Tutti possono capire, se si applicano».
Kallen staccò un frammento dello smalto ormai rovinato dall'indice e lo lanciò via, poi tornò a guardare la strada. I ragazzi di ritorno da scuola avevano cominciato ad affollare la strada lungo la quale lei e l'amica s'erano avviate.
«Mi applico, mi applico».
Le dita di C.C. si serrarono ancora più forte attorno alla tracolla.
«Hai mai sentito parlare della Connessione Ragnarök?»
Kallen scrollò le spalle e scosse la testa.
«Si trattava del progetto con cui V.V. e Charles desideravano... rinnovare il mondo», spiegò C.C. Una folata di vento secco le sollevò i capelli e lei diresse lo sguardo verso le fronde degli alberi che si agitavano davanti a loro. «Il Geass poteva dare loro accesso al regno di quelli che voi chiamate "dei", o Dio... si tratta di una sorta di bacino, da cui di volta in volta si staccano le anime di coloro che nascono, come singolarità. Consapevolezza di sé. V.V. e Charles sapevano che il Geass poteva portarli a unificare le coscienze di tutti gli uomini di tutte le epoche, in una sola, grande mente. In questo modo, i conflitti sarebbero cessati. Ogni creatura vivente sarebbe stata uguale a ogni altra. A questo progetto...» la sua voce in genere monocorde assunse una nota più dura, che tradì un qualche tipo di delusione, o un disprezzo. «Ci unimmo anche Marianne e io».
«Unire tutti gli esseri umani in un'unica coscienza?» replicò subito Kallen. «Vuoi dirmi che tu e V.V. avete vissuto migliaia di anni e il vostro pensiero finale è stata 'sta cazzata?»
«I mortali,» rispose la ragazza dai capelli verdi, «non pretendano di comprendere gli dei».
«Sì, ma il problema è che nemmeno gli dei dovrebbero pretendere di capire i mortali».
Quell'affermazione fece sfuggire un sospiro dalle labbra di C.C.
«Ad ogni modo, ti basti sapere che la Connessione fallì quando Lelouch sventò il piano dell'Imperatore. Il che vuol dire...»
«Che per una volta non l'ho data a quello sbagliato».
«E anche che il Mondo di C, dove queste coscienze dimoravano, dopo la caduta dei portatori del Geass collassò in uno stato informe, confuso. Il luogo che lo conteneva, e a cui potevo avere accesso, sembra non esistere più, ma talvolta riesco ad avere dei... chiamiamoli contatti soprannaturali con quello che è diventato il Marasma. Mi chiama, ma ancora non riesco a percepire cosa cerchi da me, o di cosa voglia avvertirmi».
«Un posto dove dimoravano le coscienze di ogni essere vivente, passate, presenti e future...» Kallen diede l'ultimo tiro alla sigaretta e guardò davanti a sé: un ragazzo vestito da cuoco, con un cappello comicamente alto e un grembiule su cui era disegnato un enorme polpo rosso ammiccante, stava cercando di tirare i passanti dentro al proprio ristorante, davanti al quale una lavagnetta sciorinava il menù del giorno. «Però non possono essersene semplicemente andate: se tu le senti, saranno pure da qualche parte».
C.C. si concentrò e aggrottò le sopracciglia, come se volesse tentare di stabilire la connessione di cui aveva parlato.
«È come se ci circondassero,» concluse. «Come se fossimo immersi in una sorta di reticolo, ma non potessimo vederle o sentirle. Non so se mi sono spiegata».
«Chiaro». Kallen, forse persuasa dai cartelli di recente installazione che invitavano a non sporcare la città, spense la sigaretta sul bordo di un cestino e poi vi lasciò cadere il mozzicone. «Ti credo: se me l'avessi detto qualche anno fa, avrei pensato che sei pazza, o che ti fai di roba allucinogena, ma arrivata a questo punto della mia vita ti credo. Dev'essere quella che chiamano evoluzione del personaggio».
«Mi dispiace non poterti dire altro». C.C. allargò le braccia, e le spalle del suo vestito da bambola goth si gonfiarono. «Ma è tutto quello che so anche io».
Kallen, ancora ferma davanti al cestino, strinse le labbra in un'espressione molto simile a quella che poco prima aveva mostrato l'amica.
«Oltre al Geass, quali altri modi ci sono per entrare in contatto con loro?»
Come se lambiccarsi su quelle questioni l'avesse già stancata, Kallen prese a far vagare pigramente lo sguardo sul vecchio giornale che giaceva nel cestino.
«Coloro che muoiono,» rispose C.C., «tornano al Marasma».
Gli occhi di Kallen, ancora fissi sul giornale, si sgranarono. Il respiro le morì in gola.
«Ma che–»
*
«Siete Anya Alstreim e Jeremiah Gottwald?»
Un dottore in camice verde, con una mascherina chirurgica che gli copriva metà del volto e grandi occhiali dalle lenti appannate, si strinse al petto una cartella clinica mentre studiava i nuovi arrivati nella sala d'aspetto. Sopra alla porta davanti a loro, una luce arancione si spense. Al suo fianco, un poliziotto in borghese che si era presentato come Ispettore Talbot stava ispezionando delle carte.
«Sì». La ragazza, per guardare il dottore, era costretta a curvare il collo verso l'alto. Un po' invidiava l'altezza di Orange.
«Ho faticato molto a trovare dei contatti. Niente famiglia, nessuna relazione... mi viene quasi il dubbio: voi lo conoscete questo Gino Weinberg, vero?»
Due infermieri che trasportavano una barella imboccarono il corridoio del Pronto Soccorso.
«Sì. Ha fatto il servizio militare con me,» confermò Anya.
«Che cosa è successo?» intervenne Jeremiah, e mosse un passo verso il corridoio.
«No, non di là,» lo bloccò il dottore, facendogli poi cenno di seguirlo. «L'abbiamo portato nel reparto di terapia intensiva. Venite con me».
Nonostante ciò che lo legava a Gino fosse solo una semplice conoscenza, e il fatto d'aver militato sotto la stessa esecrabile bandiera, Jeremiah deglutì a vuoto, vistosamente.
«Ha usato tutta la fortuna che gli rimaneva», spiegò il dottore. L'accesso alla terapia intensiva non era permesso a chi non faceva parte del personale medico, ma attraverso un vetro si poteva vedere Gino disteso supino a letto, intubato e con una fasciatura che gli copriva le orecchie e buona parte della testa. «L'aggressore gli ha sparato alla fronte, ma il proiettile gli ha attraversato solo il lobo frontale, e i suoi vicini sono stati rapidi a chiamare i soccorsi».
«Sopravviverà?» si informò Orange.
«Ci sono buone possibilità che riesca anche a rimettersi in piedi», ribatté il dottore, «ma non che riesca a ricordarsi cos'è successo o chi gli abbia sparato».
«Abbiamo trovato diverse stanze a soqquadro», intervenne il poliziotto, mostrando ad Anya delle foto della scena del crimine. «Di sicuro l'assassino cercava qualcosa. Ecco, abbiamo trovato il ferito accanto a questa credenza. Sapete se qualcuno ce l'avesse con lui, o potesse arrivare a ucciderlo per recuperare qualcosa?»
Anya ebbe un tuffo al cuore nel collegare quelle informazioni, e benedì la propria capacità di rimanere del tutto imperturbabile, anche se era spaventata. Anche se doveva mentire o tenere qualcosa per sé, nemmeno un ispettore avrebbe colto una sfumatura d'incertezza o di emozione nella sua voce.
«Non l'ho frequentato molto negli ultimi anni», rispose con voce sottile. «Non conoscevo la sua vita privata».
Ricordò in modo molto vivido quello che era successo alla festa. Rivide davanti a sé Schneizel che le faceva ascoltare il dialogo tra Zero e Gino riguardo alla chiavetta dei Knights of Round. Chiunque gli avesse sparato – e c'erano buone possibilità che fosse stato uno scagnozzo del principe – voleva prendere quella. E, ora che era convinto di aver fatto fuori il Knight of Three, c'erano buone possibilità che se la prendesse con lei. Non poteva accusare Schneizel, né rivelare segreti di Stato. Era sotto scacco. «Tuttavia...» aggiunse, «se cercate qualcuno che potesse avercela con lui, la sua posizione all'interno dell'esercito di Britannia era piuttosto ambita. Ha fatto carriera molto in fretta».
«Che rapporti aveva con lui?»
Anya si strinse nelle spalle.
«Eravamo conoscenti. Siamo stati costretti alle stesse battaglie, ma mentre lui dopo la guerra è rimasto in contatto con il resto del corpo d'élite, o meglio con ciò che ne è rimasto, io ho preferito troncare i rapporti. Adesso coltivo arance».
Di più non poteva dire.
L'Ispettore Talbot gettò un'ultima occhiata alle foto della scena del crimine e poi, con un sospiro, le inserì di nuovo nella borsa da cui le aveva estratte. Rimase per un istante a fissare il vuoto, assorto, e si grattò una tempia.
Anya valutò le proprie opzioni, compresa quella di andare a parlare con il detective in separata sede, e dirgli della chiavetta. Del resto, era il suo contenuto ciò che non poteva essere rivelato, e di quello non c'era pericolo, dato che non lo sapeva nemmeno lei. Quella di dire che conteneva dati dell'operazione Hymir era stata una buona mossa da parte di Schneizel, ma poteva benissimo essere una balla.
Ad ogni modo, Anya era certa che chi aveva sparato a Gino era stato mandato da uno degli intoccabili, e quindi era molto probabile che un intervento dall'alto facesse archiviare l'indagine. Forse la scelta migliore era davvero aspettare che Gino si svegliasse e riprendesse a parlare, per poi chiedergli cosa dovevano fare. E nel caso avesse voluto riproporle il vecchio adagio dei panni sporchi che si lavano in famiglia, gli avrebbe chiesto di darle almeno il sapone.
«Vi dirò la verità: al momento, con il ragazzo in coma, siete il mio unico appiglio,» disse Talbot, riscuotendo la ragazza dai suoi pensieri. «Né un'occupazione lavorativa né un affetto stabile, è vissuto del sussidio dell'esercito... È come se in questi cinque anni non fosse esistito».
«La sorprenderebbe sapere per quanti veterani è così, Ispettore,» ribatté Jeremiah. «Quanti uomini vivi diventano fantasmi».
Il poliziotto guardò l'ora sull'orologio da polso e poi diresse lo sguardo nuovamente sui suoi interlocutori.
«Vorrei parlare di nuovo con voi quando Gino si sveglierà, se siete disposti a collaborare. Forse allora potrò iniziare a vedere qualche spiraglio di luce».
La risposta affermativa di Anya e Orange arrivò quasi all'unisono.
*
Con gli occhi sbarrati, Kallen fissava il quotidiano nel cestino. La foto che campeggiava sulla pagina, dall'inchiostro mezzo sbavato, le era familiare quasi quanto il mezzobusto che apriva il trafiletto a destra: una sua foto frontale. Sopra l'immagine del carico di arance del Margravio Jeremiah rovesciato sulla statale un titolo recitava:
Scontro tra auto e camion: vittima l'eroina della Resistenza giapponese.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro