Anya and the Sun (I)
I never had that many friends growing up
So I learned to be
Ok with just me, just me, just me, just me
And I'll be fine on the outside.
I like to eat in school by myself, anyway,
So I'll just stay right here
Right here, right here, right here.
And I'll be fine on the outside.
(Priscilla Ahn)
2018 a.t.b.
Fortezza volante Damocles.
«Geass Canceler...» commentò Kanon. Chino su un tavolo in vetro solo apparentemente fragile, stava sfogliando con sguardo assorto i dossier che l'Intelligence aveva fornito al principe. Sulla prima pagina, attaccata con una graffetta, campeggiava la foto a mezzo busto di Jeremiah Gottwald. Le ricerche finanziate da Schneizel sulla modificazione del corpo umano avevano dato risultati a dir poco miracolosi. Dopo l'esplosione che gli aveva strappato via metà del corpo, non solo quell'uomo stava in piedi e camminava, senza minaccia di rigetto delle sue parti bioniche, ma sembrava anche aver acquisito un potere.
«Così pare,» rispose la voce profonda di Schneizel. «Così pare».
Giocava alle luci e alle ombre, in piedi dove la tenda fermava il sole che filtrava nella stanza. Stavano volando verso Pendragon, bassi; erano in vista le torri sfavillanti e il bianco serpente del maglev.
«Che significa?»
Il principe scoppiò a ridere.
«Mi rendo conto che sia sempre più raro, di questi tempi, ma è esattamente ciò che dice il nome».
Una ruga sottile si disegnò sulla fronte di Kanon. Se Jeremiah era davvero in grado di annullare gli effetti del Geass sulle persone, in maniera permanente, significava che avevano la vittoria in pugno.
Ma... c'era un ma.
«Avete creato una contromossa,» osservò il giovane. «Un'arma capace di annientare Lelouch».
Schneizel portò le mani al petto come un attore di teatro. Le strinse tanto da far sbiancare le nocche, poi le spalancò.
Nei suoi occhi azzurri comparve qualcosa che Kanon non aveva mai visto, e che in qualche modo lo eccitava e lo spaventava. Forse era quella la scintilla di cui Schneizel parlava tanto.
«Non io, la scienza!» esclamò il principe, in un macabro crescendo che portava la sua voce verso il falsetto. «La scienza lo ha creato!»
Fece una pausa, e l'ombra proiettata dalla tenda gli coprì il viso. Come a volerla contrastare, le mostrine sulle sue spalle mandarono un bagliore d'oro.
«E non è andata molto bene,» continuò, abbassando il tono di voce. Quasi roco. Quasi lugubre. «Oh, Marianne, Marianne, così amata! Così... morta».
Jeremiah aveva giurato fedeltà a Lelouch, nel nome di sua madre che pareva eterno, nonostante fosse appartenuto a una persona il cui passo era stato leggero sulla terra.
Uno spiffero che sembrava non provenire da nessuna parte mosse le ciocche più lunghe dei capelli di Kanon. Era uno strano dramma, il suo. Diviso tra la passione per il suo principe e il desiderio di vedere fin dove si sarebbero spinti. Sia nei momenti in cui era più forte l'una sia in quelli in cui vinceva l'altro, lui tendeva verso l'autodistruzione. Senza sedile eiettabile, lui – e non Schneizel – era il capitano che sarebbe affondato con la nave.
Kanon strinse le labbra e appoggiò le dita sul tavolo, compiacendosi dello sguardo del principe che si diresse su di loro.
«Mi state dicendo che anche le armi hanno un cuore?»
Schneizel fece qualche passo verso di lui, i suoi tacchi lucidi risuonarono nella stanza.
«Oh,» rispose, «eccome se ce l'hanno».
*
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<... cose rotte vanno aggiustate>.
La voce che usciva dalla radio, accanto alla vecchia serranda abbassata, era gracchiante; il volume era intermittente, come se le parole provenissero da una frequenza non ben sintonizzata.
Due adolescenti, all'apparenza assorti ad ascoltare con la testa bassa, stavano in piedi appoggiati con la schiena al muro scrostato. Le piccole braci delle sigarette illuminavano i loro volti.
<E possiamo affermare che questo vale anche per la società...>
Nel silenzio della strada, i passi di due persone. Uno dei ragazzi alzò il viso, si sistemò i dread che gli affollavano il capo.
«Ciao, Cécile,» salutò in tono beneducato, con una voce non ancora adulta.
La donna, che passava tenendo sotto un braccio il casco e sotto l'altro la mano di Lloyd, riconobbe in lui il ragazzino a cui, qualche anno prima, aveva dato ripetizioni di matematica. Allora, però, il deserto non s'estendeva fino a quel punto.
«Ciao!» ricambiò lei, senza fermarsi. Sentì il tocco di Lloyd lasciarla e da principio non se ne preoccupò, attribuendo il gesto a una sua vergogna di essere visto da qualcuno mentre era in quelle condizioni. Forse – poiché in fondo nemmeno gli ubriachi escono mai dal loro personaggio – non voleva dare a vedere di poter essere dipendente da un altro essere umano.
«Cécile».
Lloyd l'aveva chiamata con una voce insolitamente seria, misurata. La ragazza alzò la testa e lo vide con lo sguardo diretto verso la vecchia saracinesca imbrattata dai graffiti, come se fosse l'orizzonte oltre l'oceano. I due ragazzi erano tornati a guardare per terra, persi in chissà quali geometrie mentre la voce della radio li incitava a una ribellione che svaniva nelle interferenze.
«Sì?»
Lloyd non si voltò.
«Anche io sono una cosa rotta da aggiustare?»
In fondo alla via comparve una luce e si aprì una porta. Venne fatta strada allo zampettare risoluto d'un cane.
«No,» gli rispose semplicemente lei.
Vi fu silenzio fino a quando Cécile aprì il portone della palazzina di Lloyd, per poi trascinarlo fino all'ascensore. Lui – per un improvviso desiderio di affetto o, più probabilmente, perché non riusciva a reggersi bene in piedi – continuava ad attirarla a sé, rendendole difficile raggiungere la pulsantiera. Infine, sembrò trovare una posizione comoda con la testa appoggiata alla sua spalla. Quasi volesse far trasparire tutta la propria tragica solitudine mentre la guardava di sottecchi.
Cécile sospirò e le porte dell'ascensore si richiusero alle loro spalle.
Credo che lo sopporterò. Per questa volta.
Nel far girare la chiave nella toppa, Cécile ripassò con la mente i punti del decalogo che diversi anni prima aveva stilato. Come essere una buona assistente.
Lloyd sembrò perdere interesse per la sua spalla e mosse qualche passo incerto dentro casa.
«Buonasera!» trillò, accendendo all'improvviso le luci su un soggiorno bianco, arredato con il minimo indispensabile. La gatta che dormiva in una cesta accanto all'ingresso socchiuse gli occhi e abbassò le orecchie, infastidita.
«Faccia piano...» mormorò Cécile, passandosi una mano sul volto. Lasciò cadere subito il discorso quando si rese conto che lui non l'avrebbe mai ascoltata.
No, tra le sue regole non c'era la voce "accompagnare a casa il capo". E, a dire la verità, aveva creato quell'elenco solo perché il professore non si offendesse quando gli aveva consegnato il suo – intitolato Come essere una persona decente – dal quale comunque non si premurava nemmeno di prendere ispirazione.
Dal soggiorno provenne un lamento acuto, subito prima del rumore di qualcuno che si accasciava pesantemente sul divano, blaterando qualcosa sulla festa e sul cattivo gusto nel vestire di Nina Einstein.
Nonostante non programmasse di rimanere più del tempo necessario ad accertarsi che Lloyd non stesse male, Cécile si chinò per togliersi le scarpe. Si trovò faccia a faccia con la gatta e le lasciò una carezza sulla testa.
«Mi dispiace, Noether,» le disse, «sto pensando le stesse cose che pensi tu».
Fu in quel momento che una voce ben nota, dalle stanze più interne della casa, levò l'alto lamento:
«Céciiile!»
La ragazza lasciò cadere ogni pensiero e, con il cuore in gola, corse in direzione del soggiorno. Trovò Lloyd che, invece di contorcersi dal dolore come aveva immaginato nella sua fantasia funesta, se ne stava pacificamente seduto sul divano, la testa un po' ciondolante. Si fermò di fronte a lui con uno sbuffo.
«Cécile, ho avuto un'idea,» annunciò Lloyd. «Mi prendi in braccio? Voglio sapere come ci si sente».
«Dieu du ciel! Non!»
«Perché?» replicò lui in tono lamentoso. Raddrizzò la schiena, le passò le braccia attorno ai fianchi e appoggiò il mento all'altezza del piercing sul suo ombelico, lo sguardo diretto verso l'alto nella speranza di muoverla a compassione. Né l'alcol né la stanchezza avevano spento quella scintilla nei suoi occhi che Cécile aveva sempre ammirato con una rispettosa curiosità. Aveva provato a definirla come una sorta di grazia intelligente, e a cercarla negli altri. Ma in nessuno l'aveva trovata.
«Perché non posso prendere in braccio un mio superiore!» sbottò, senza provare a staccarselo di dosso.
Una strana dolcezza, annidata nel ventre, toglieva la risolutezza alle sue parole.
Sarà il ciclo, Cecì.
Sarà stato quello che la indeboliva nell'animo più che nel corpo, oppure il desiderio di vedere qualcosa di puro – di infantile, anche – dopo le cortesie vuote del Tea Party.
«Uffaaa... non siamo più nell'esercito,» piagnucolò Lloyd, appoggiando la testa proprio dove il fastidioso mostro della tenerezza stava insidiando Cécile. Lei istintivamente gli resse il capo con le mani, ricordando i momenti in cui era stata ubriaca e quasi temendo che cadesse in avanti come un bambino.
Tuttavia, quando la donna parlò, il suo tono era tornato deciso:
«Non importa,» replicò. «Non posso, non è professionale».
Lloyd si tirò le ginocchia al petto e fissò un punto non ben determinato della stanza.
«Hai visto Rakshata? Alla festa, dico,» le domandò con voce strascicata.
«Beh, è difficile non vederla».
«Intendo... ho notato che non ha bevuto nulla, e non è nemmeno uscita una volta a fumare. Strano».
Cécile sentì una fitta al ventre, in basso a destra, e vi appoggiò una mano come se così potesse lenire il dolore.
«Ah».
«Che succede?»
«Niente».
«Mi prendi in braccio?»
«Per quale motivo la risposta dovrebbe essere cambiata?» sbottò lei, alzando inavvertitamente la voce.
«Uh... perché ripetendo più volte la misurazione...»
«Sta insinuando che io sia un'osservabile?»
«Per favore, perfavoreperfavore!» ribatté subito lui, riassumendo la sua posizione da supplice e stringendosi a lei. Nel complesso, al di fuori dell'odore residuo di alcol e tabacco, Lloyd dava una – del tutto fuorviante – impressione di dolcezza.
Il giovane professore si interruppe per un istante, chiuse gli occhi ed espirò rumorosamente, per poi provare a riaprirli.
«Tu sei così forte...» tentò di convincerla, «solo un attimo». Poi, forse tornando in sé e rendendosi conto di non avere un atteggiamento dignitoso, si ricompose e torno a sedere con la schiena dritta sul divano. «È per un'osservazione scientifica: secondo te sono pesante?»
«No,» replicò subito Cécile, trattenendo un "non letteralmente, almeno" che avrebbe solo incrementato la lagnanza. «E lo sa, vero, che ha un'immagine da mantenere?»
Lloyd si stiracchiò, gettò la testa all'indietro e appoggiò le mani sottili sullo schienale.
«Oh, mia cara,» replicò, «non c'è cosa che odi di più del dover mantenere un'immagine».
«È tardi».
Lui non diede segno di aver compreso quelle due parole: allungò le braccia verso di lei in trepidante attesa. Le palpebre pesanti, semiabbassate, gli davano un'espressione più languida del solito.
«Sono ubriaco,» spiegò con la massima serietà.
Un tonfo leggero, felpato, annunciò che nella stanza adiacente Noether era atterrata sul pavimento.
Cécile gettò lo sguardo verso il soffitto.
«Sentiamo, com'è che dovrei fare?» si arrese.
«Cosa?»
«Lloyd, guardi che me ne vado. Com'è che dovrei prenderla in braccio, di grazia?»
La peggiore delle ipotesi si concretizzò nello sguardo eloquente che lui le lanciò, enfatizzato da un sorriso largo e innocente.
«Ah, cielo, spero che non si venga mai a sapere in giro. Stia fermo».
Il problema principale è che è alto, pensò, tentando di distaccarsi completamente dalla situazione e trattarla come un quesito matematico. Passò un braccio dietro le ginocchia di Lloyd, prese le misure, e con l'altra mano gli strinse il fianco.
Lo sollevò senza particolare fatica; lui lanciò un verso acuto e soddisfatto quando si sentì staccare dal suolo. Cécile non sapeva dire che cosa lo divertisse così tanto.
«Ecco. Contento?» gli domandò, voltandosi e facendo qualche passo.
Lloyd si limitò a ridere, con un'espressione di gioia stampata in volto e le gambe che tentavano di oscillare, nonostante lei facesse il possibile per tenerlo fermo.
Fu in quel momento che Cécile si rese conto che non lo aveva accontentato per obbligo, né per compassione.
L'ironia della vita, un tempo, aveva voluto che proprio una persona che pretendeva di essere cinica le mostrasse che esisteva una tenerezza molto più primordiale della sofferenza. Un segno verticale che l'uomo aveva tracciato nella caverna del cuore.
Quando ancora Cécile doveva dare gli ultimi esami all'università, Lloyd le aveva mostrato quel lato da professore gentile che lei aveva provato a replicare con Suzaku, come portando avanti un'eredità muta. C'è qualcosa che non capisci? Posso aiutarti?
Il fulmine a ciel sereno era stato rendersi conto che per l'uomo a capo del laboratorio più importante di Britannia era normale non capire qualcosa. Tana liberatutti.
La ragazza guardò negli occhi lo scienziato, che continuava a far finta di essere una sposa, e storse la bocca in una smorfia di finta disapprovazione.
Lo aveva preso in braccio perché un giorno qualcuno aveva detto che la felicità è come il vetro, e quello di Lloyd non era a prova di proiettile.
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