Capitolo venti- Liberi
Il mese successivo allo sconvolgimento delle nostre vite, fu piuttosto duro. Ma segnò l'inizio di una rinascita.
Venni trasferita in un ospedale poco lontano dal College, così che tutti potessero proseguire le loro vite, senza mettere necessariamente me al primo posto. Prima di partire, degli agenti di polizia vennero ad interrogarmi. Raccontai tutto, senza tralasciare alcun particolare, a partire dall'abbandono di mio padre. Loro ascoltarono la mia storia, con pazienza, per più di un'ora, senza perdere alcun particolare. Quando ebbi finito, mi lanciarono un'occhiata compassionevole, prima di spiegarmi quel che sarebbe successo. Nessuna conseguenza per me e i miei amici, essendo stata la nostra legittima difesa, e la massima segretezza sul nostro coinvolgimento in questo fatto. I genitori di Paul furono d'accordo nel mascherare la morte del figlio con un finto incidente stradale. Inoltre avrebbero pensato ad un sostegno per le altre ragazze e una degna sepoltura per Jasmine, se avessi voluto impegnarmi finanziariamente per quest'ultima cosa. Ovviamente non me lo feci ripetere due volte e feci appello a tutte le risorse economiche che avevo a disposizione. Sarei andata a trovarla non appena dimessa. A proposito di ciò, avevo da scontare ben due mesi di riabilitazione in ospedale. Quello fu davvero pesante. Primo, non potei prendere parte al funerale di Paul. Ian portò le condoglianze da parte mia ai genitori e alla sorellina. Non seppi mai come la presero, probabilmente pensavano fosse colpa mia e non avevano tutti i torti. Io, personalmente, non me lo sarei mai perdonata, nonostante davanti a Ian, Caroline e Bonnie cercassi di mantenermi serena e moderatamente felice.
In secondo luogo, non potevo lavorare e non potevo incrementare i miei guadagni per poter pagare l'università. Avrei dovuto chiedere aiuto a mia nonna e la cosa non mi piaceva. Lei era stata messa al corrente di tutto e aveva pregato in tutte le lingue del mondo di poter venire da me, ma io glielo avevo categoricamente proibito. Non doveva preoccuparsi, sarei tornata da lei una volta finito il College e, visto il tempo libero e le poche distrazioni che avevo in ospedale, quel giorno non avrebbe tardato il suo arrivo. Avevo la possibilità di mettermi avanti con lo studio e Ian mi aiutava passandomi alcuni dei suoi vecchi appunti. Presi un ritmo talmente buono e regolare che, in poco tempo, lo pareggiai in alcune materie. Anche lui studiava parecchio e, probabilmente, a fine settembre avrebbe avuto la laurea tra le sue mani. Ovviamente, non mi faceva mancare la sua compagnia. Veniva in ospedale ogni giorno e nei weekend vi passava anche la notte, seduto nella scomodissima poltrona accanto al mio letto. Passavamo, però, la maggior parte del tempo all'aperto, seduti in una delle panchine del giardino interno. Parlavamo del più e del meno: lui mi raccontava quel che accadeva all'interno del campus e io le noiose giornate all'interno dell'ospedale alleviate alle volte dalla mia unica compagna di stanza, una signora di circa cinquant'anni che mi trattava come una figlia. I suoi, di figli, andavano poco a trovarla, essendo lontani a causa del lavoro e dello studio. Mi ripeteva sempre che le ricordavo tanto la sua figlia minore e mi raccontava alcune delle loro avventure familiari. Non provò mai a chiedere dei miei genitori, intuendo probabilmente dalle sole visite di Ian, Caroline, Bonnie e altri ragazzi del campus, che li avessi persi entrambi. Per non indurla in alcun imbarazzo, la portai alla certezza parlandole di mia nonna.
Quel giorno, mancava appena una settimana alle mie dimissioni, la signora Robinson aveva straordinariamente in visita i suoi quattro figli e quindi decisi, con Ian, di lasciare la stanza totalmente a loro. Lei, purtroppo, era stata vittima un grave incidente domestico, riportando gravi ustioni in gran parte del corpo - il viso fu il meno danneggiato. Faticava e le era quasi impossibile muoversi.
Ian, come sempre faceva quando Bonnie non poteva venire a trovarmi, mi aveva portato qualche dolce fatto da lei. Quel giorno era il turno dei cupcakes alla vaniglia: i miei preferiti. Li mangiammo seduti ad un tavolino nel giardino interno, mentre io tiravo fuori il mio quaderno di italiano per ripassare. Ebbene sì, Ian aveva mantenuto la sua promessa di insegnarmi la sua meravigliosa lingua e, nonostante non lo volesse ammettere, ero un'alunna modello. Apprendevo veramente in fretta. E anche io dovevo ammettere che lui non era poi così male come insegnante. Mi interrogò per una buona mezz'ora sugli argomenti che mi aveva insegnato qualche giorno prima, prima di passare a qualcosa di nuovo.
"Bonnie è sicuramente meglio di me", disse, mentre sfogliava svogliatamente il libro.
"Ah lo so come si dice... Sfaticato!", esclamai nella sua lingua, facendogli una smorfia. Lui alzò un sopraciglio, prima di allargare le labbra in un grosso sorriso.
"Bell'accento", mormorò, sporgendosi sul tavolo per avvicinarsi a me.
"Dici?", domandai, avvicinandomi a mia volta con un mezzo sorriso furbesco sul volto.
Le sue labbra raggiunsero le mie per un breve ma intenso contatto. Non ne avrei mai avuto abbastanza, mi erano mancate fin troppo, e non potermi spingere oltre mi stava facendo diventare pazza. Ma i medici mi avevano assicurato che, una volta tornata a casa, potevo riprendere con tutte le mie normali attività. Quell'ultima settimana sembrava la più lunga della mia vita. I giorni passavano lentamente e le visite di Ian e degli altri furono piuttosto rade. Alternavo le mie giornate tra i libri, le passeggiate all'aperto e le chiacchierate con la signora Robinson.
Il giorno prima della mia partenza, avevo appena concluso l'ultimo capitolo del libro di letteratura contemporanea, quando venni sorpresa dalla visita di Caroline. Era da qualche settimana che non si faceva viva, a causa della miriade di esami che la sommergevano. Era venuta a darmi una mano a preparare i bagagli, nonostante avessi un solo borsone che potevo facilmente riempire da sola. Ma la sua visita mi fece piacere. Sorrideva. Dopo poco più di due mesi aveva ripreso a sorridere. La nostra avventura l'aveva lasciata piuttosto scossa e mi era dispiaciuto infinitamente non poter essere con lei, a darle forza. Fortunatamente ci avevano pensato Maddy, Christie e Bonnie. Quest'ultima la invitava a pranzare con lei e a fare diverse uscite di shopping terapeutico, decisamente efficaci. Non sarei mai riuscita a ripagarla. Bonnie, in quella storia, sembrava essere quella uscita con meno traumi. Nonostante sapessi benissimo che non era così, era ovvio. Aveva ucciso delle persone e, nonostante fosse per legittima difesa, gli incubi la tormentavano, come facevano con me. Ma era incredibilmente forte, molto più di me, e riusciva a passarci sopra come niente fosse. Ogni tanto ripensavo al racconto di Ian su quel che lei aveva fatto per cercare di portarmi in salvo, come in quel momento. Caroline scosse una mano davanti al mio volto, per riportarmi alla realtà.
Scossi la testa e le sorrisi, mentre mi porgeva un bicchiere di succo d'arancia. Dopo aver preparato i bagagli, decidemmo di fare un giro all'aperto, fino alla fine del turno di visite. Non aveva la sua solita parlantina, ma potevo capirla. Il sorriso, però, non l'abbandonava mai. Mi disse che, nonostante tutto, i suoi esami stavano procedendo bene e sperava che io mi mettessi al passo al più presto, per poter laurearci insieme. Infine mi disse che Ian sarebbe venuto a prendermi la mattina successiva intorno alle undici. Quando ci salutammo era ormai l'ora di cena e tornai in camera per consumare il mio disgustoso pasto, insieme alla signora Robinson. Mi accomodai al tavolo vicino al suo letto e cenai con lei, mentre un'infermiera l'assisteva. Quando quest'ultima se ne fu andata, la signora Robinson mi prese una mano e la strinse forte, talmente tanto che mi chiesi se non le facesse male nelle sue condizioni.
"Mi mancherai Elena, questa stanza sarà incredibilmente triste senza di te...", mormorò, regalandomi un immenso sorriso. Commossa, cercai di abbracciarla senza farle del male e la ringraziai per tutte le belle giornate passate insieme. Ci salutammo così prima di andare a dormire, visto che il giorno dopo lei avrebbe avuto una visita, proprio verso le undici del mattino.
Quella notte, come tutte in quegli ultimi mesi, il solito incubo venne a perseguitarmi. Sognavo di perdere tutto, di nuovo. Di restare in balia della morte, ancora una volta. Di non riuscire a salvare le persone che amavo. Vedevo Paul in una pozza di sangue e Jasmine poco distante da lui. Sognavo gli occhi gelidi di Jasper, le sue mani sul mio corpo. Sognavo di perdere Ian, per sempre.
Mi svegliai, come al solito, in un bagno di sudore, ma decisamente più tardi del solito, dato che la notte prima avevo trovato difficoltà nell'addormentarmi. Quando spalancai gli occhi, trovai Ian seduto accanto a me, il viso una maschera di apprensione.
"Ehi...", lo salutai, tirandomi a sedere.
Lui posò una mano sul mio viso, spostando alcune ciocche di capelli che mi cadevano sugli occhi. Sapevo che voleva chiedermi cosa avessi sognato, ma non mi andava di raccontarglielo. L'avrei superata, come ero riuscita a nascondere gli incubi che mi causava l'essere fuggita da Jasper.
"Sto bene", mormorai, stringendo la mano che aveva lasciato a mezz'aria tra noi. Poi mi alzai e andai nel piccolo bagno a cambiarmi, avrei fatto una bella doccia una volta arrivata al campus. Tirai su i capelli in una coda di cavallo abbastanza improvvisata ed uscii. Quando aprii la porta, mi scontrai col petto di Ian, fermo lì ad aspettarmi. Alzai lo sguardo e venni abbagliata dal suo luminoso sorriso.
"Che c'è?", chiesi, imbarazzata dal suo sguardo fisso su me.
"Ho una cosa per te", disse piano, mentre frugava nella tasca posteriore dei jeans.
Lo guardai incuriosita, mentre lui ridacchiava e mi obbligava a girarmi e chiudere gli occhi. Obbedii, ma quando sentii le sue mani sfiorare il mio collo non potei fare a meno di spalancarli per verificare se quello che avesse tra le mani, fosse quel che davvero pensavo. Senza aspettare un minuto di più, mi voltai e Ian mi lanciò una tenera occhiata di rimprovero. Le sue mani, a mezz'aria, stringevano la mia collana. Il suo regalo per me, qualche tempo prima; quella che Jasper mi aveva rubato.
I miei occhi iniziarono a riempirsi di lacrime e Ian rise sommessamente.
"Se piangi, me la tengo", disse, cercando di essere serio.
Non lo ascoltai:"Dove l'hai trovata?", gli chiesi, mentre sfioravo la piccola rondine con le dita.
Lui diventò improvvisamente scuro in volto:"Quella notte, sulla scrivania di Jasper.. Volevo aspettare questo momento per dartela. Sei di nuovo libera."
Alzai lo sguardo dalla collana, per incontrare i suoi occhi. Brillavano e si specchiavano nei miei, una fusione di quattro macchie scure, per niente impenetrabili. Si leggeva emozione nei nostri sguardi, sollievo, gioia, amore... libertà.
Ero libera. E lo potevo assaporare dalle labbra di Ian sulle mie, dai sorrisi e dai saluti dei medici mentre lasciavo l'ospedale, dal leggero venticello di inizio giugno che mi accarezzava i capelli. Potevo finalmente tornare a vivere davvero.
Ian mi accompagnò nel mio dormitorio e restò con me per tutto il pomeriggio. Fu come tornare indietro nel tempo, come se niente fosse successo. Solo noi due, senza pensieri, senza inibizioni. Le nostre labbra che si cercavano, i nostri corpi che si amavano, bagnati dall'acqua calda della doccia, attorcigliati tra le lenzuola, stretti nel piccolo letto di quella minuscola stanza del dormitorio femminile.
"Direi che abbiamo trovato un passatempo per tutta la giornata", sussurrai all'orecchio di Ian, mentre lui tirava la coperta sopra le nostre teste. Le sue labbra stavano per toccare nuovamente le mie, quando lo squillo del suo cellulare ci interruppe.
Grugnii e tenni ben salde le mani sulle spalle, per non farlo muovere. Ma lui continuò ad insistere che poteva essere importante. Così lo liberai dalla mia presa ed incrociai le braccia al petto, decisamente stizzita. Chiunque ci avesse interrotti se la sarebbe vista brutta. Ero con Ian in quel momento e nulla importava, avevamo davanti un sacco di tempo per dedicarci a noi stessi, ma non volevo proprio essere interrotta in quel momento. Avevo bisogno di sentirmi amata, per davvero. Non ne capivo il vero motivo, ma sentivo che sotto sotto ne ero a conoscenza: volevo cancellare ogni traccia di Jasper dal mio corpo.
Ian si tirò su di scatto, interrompendo i miei pensieri e facendomi sobbalzare. Qualcuno dall'altra parte del telefono strillava e avrei riconosciuto quella voce tra mille. Caroline.
"Me l'ero completamente scordato", bofonchiò Ian, mentre lanciava il cellulare sul comodino e si infilava svelto i vestiti. Era alla prese con la maglietta, quando si rese conto che io ero ancora stesa sul letto, in totale contemplazione del corpo. Mi guardò per qualche minuto con l'aria di chi non sapeva dove mettere le mani. Dopo un po' iniziò a girarsi intorno, per poi scontrarsi contro il mio cassettone. Ne aprii vari cassetti e tirò fuori alcuni vestiti.
"Devi vestirti! Bonnie e Caroline ci aspettano!", esclamò, lanciandomi solamente un reggiseno e degli shorts. Aggrottai la fronte e mi infilai l'intimo. Poi mi alzai, sperando di trovare i cassetti nell'ordine maniacale in cui li avevo sempre lasciati. Dal macello che aveva combinato Ian, estrassi lentamente un vestitino bianco, accollato sul davanti ma che lasciava scoperta una buona parte di schiena. Indossai delle ballerine nere e presi una piccola borsa a tracolla, dove infilai solo il cellulare, cipria, rossetto e mascara.
Quando vide che ero praticamente pronta, Ian mi trascinò fuori dall'edificio fino alla cinquecento di Bonnie. A bordo non perse tempo in chiacchiere e sfrecciò fuori dal campus. A quella velocità fu un'impresa non imbrattarmi tutto il viso col rossetto. Ma riuscii comunque ad ottenere un aspetto quasi dignitoso. Quando finii di legare il disastro di capelli, che avevo in testa, in una specie di coda di cavallo, Ian stava accostando vicino al vialetto che portava al garage. Mi guardai intorno perplessa. C'erano davvero troppe macchine e la casa era immersa nel buio.
Scesi dalla macchina ed affiancai Ian, scrutando il suo viso con occhi sospettosi. Lui si voltò di scatto verso di me e mi sorrise nervoso.
"Ricordi che mi ami e che non mi uccideresti mai?", chiese e quella domanda non fece che aumentare i miei sospetti. Sapevo che c'entrava Caroline in tutto quello.
Lo fulminai con lo sguardo, mentre avanzavamo fino alla porta di ingresso. Con quella sola occhiata, lo costrinsi a sputare il rospo. Parlò velocemente, come mai l'avevo sentito fare.
"Un mesetto fa era il tuo compleanno e Caroline era parecchio abbattuta dal fatto di non averlo potuto festeggiare. E adesso che sei stata anche dimessa, ha trovato un altro motivo per festeggiare...".
La sua mano era già sulla maniglia e la porta si stava aprendo. Senza lasciarmi il tempo di replicare, un coro di "sorpresa" si levò nell'aria, facendomi indietreggiare per lo spavento.
La casa di Ian e Bonnie era gremita di studenti del Campus, uno striscione di "bentornata a casa" si ergeva sopra le loro teste. Sorrisi a tutti quei visi sorridenti che mi abbracciavano, senza riconoscerne più di tre o quattro. Ian, al mio fianco, teneva la sua mano all'altezza della mia schiena e mi faceva strada verso il giardino sul retro, dove avrei potuto strangolare indisturbata Caroline e Bonnie. Le individuai, sedute sulle sedie intorno al tavolo della piccola terrazza che brindavano alla loro intraprendenza. Accelerai il passo, ma una ragazza del mio corso di storia moderna mi sbarrò la strada. Si complimentò per il mio aspetto così solare e genuino, nonostante fossi appena stata dimessa dall'ospedale. Si rammaricò per Paul e continuò a ciarlare per dieci minuti buoni di cose totalmente irrilevanti. Io continuavo a sorridere, non perdendo però d'occhio i miei due obiettivi. Uno di questi alzò di scatto lo sguardo verso di me e gli occhi di Caorline incontrarono i miei, furenti. Sorrise forzatamente e si alzò, facendo segno a Bonnie di seguirla.
"Elena!", esclamò quest'ultima.
"Ti dispiace se te la rubiamo?", chiese Caroline alla ragazza che si trovava di fronte a me, che con un sorriso si allontanò senza problemi. La salutai cordialmente e poi tornai con gli occhi fissi sulle mie due amiche traditrici.
"Sei arrabbiata", constatò Bonnie, negli occhi una scintilla di perplessità.
"Non sono arrabbiata", sibilai. "Sono furente".
"Ah che guastafeste!", esclamò poi Caroline, posandomi un braccio intorno alle spalle. "L'abbiamo fatto per allontanarti dai tuoi pensieri, quindi apprezza e goditela!".
Mi guardai intorno per qualche secondo. Non conoscevo la maggior parte dei presenti, ma mi parve di riconoscere qualche volto che era venuto a trovarmi in ospedale. Non potevo prendermela con Caroline o con Bonnie, del resto avevano organizzato tutto pensando al mio bene.
Mi voltai verso di loro e allargai le braccia per stringerle entrambe in un immenso abbraccio di gratitudine. Caroline singhiozzò leggermente, presa dalla commozione, ma si ricompose subito.
"Ma perché ci avete messo tanto?", chiese poi Bonnie, guardando curiosa prima me e poi Ian.
Io sgranai leggermente gli occhi, per poi abbassarli imbarazzata, mentre Ian mostrava un fiero sorriso malizioso. Mi lanciò un'occhiata più che eloquente, che io cercai di evitare in tutti i modi, allontanandomi il più in fretta possibile da quella scomoda situazione. Non abbastanza velocemente, però, da non sentire lui rivolgersi all'amica con tono sarcastico:"Tu che dici?".
Ian's pov
Elena girovagava tra soggiorno, cucina e giardino, tenendosi strette le braccia al petto, le mani sui gomiti. Si guardava intorno sorridendo, nonostante gli occhi tradissero una strana aria spaesata. Parlava con tutti coloro che la fermavano e rispondeva garbatamente alle loro curiosità. Quando la vedevo troppo in difficoltà, mi avvicinavo per prendere parola sul presunto incidente in cui erano stati coinvolti lei e Paul. La versione ufficiale era che avevamo deciso di regalarci qualche giorno di relax a New York e, sulla strada del ritorno, lei e Paul precedevano me e Caroline in macchina. Una macchina tentò di superarci, ma perse il controllo andando a schiantarsi proprio sul fuoristrada di Paul. Lui non ce l'aveva fatta. Elena aveva riportato gravi lesioni, che l'avevano costretta in ospedale per tutto quel tempo.
Mentire faceva sembrava ancora più turpe tutta la faccenda, ma l'unica cosa che potevamo fare era andare avanti. Dimenticare tutto e vivere una vita normale, proprio come aveva cercato di fare Elena una volta arrivata al Campus. Solo dimenticare. Doveva essere facile, dopotutto.
Stavo parlando con Nick, in un angolo del soggiorno, quando mi resi conto di non vedere più Elena da nessuna parte. Lasciai il mio amico e girai per le stanze del piano inferiore, imbattendomi poi in Bonnie.
"L'ho vista andare di sopra", disse, alzando leggermente la voce per sovrastare il rumore delle chiacchiere e della musica. Mi feci largo tra le decine di persone che affollavano il mio soggiorno e le scale e mi diressi al piano superiore. Controllai in tutte le stanze, dovendo persino cacciare dal bagno una coppietta che si stava spingendo troppo oltre sopra il mio lavandino. Li fissai, alzando gli occhi al cielo, mentre si dirigevano imbarazzati al piano inferiore. Stavo per arrendermi e convincermi che fosse tornata al piano di sotto, quando notai la porta della soffitta. Era leggermente scostata. Sorrisi lievemente e presi la mia felpa. Come previsto, la finestra che dava sul tetto era aperta. Sporgendomi un poco, vidi Elena, seduta nel suo solito posto, che si stringeva nelle spalle. Il sole era ormai quasi scomparso dietro l'orizzonte.
Cercai di fare piano, per non disturbarla, ma dentro di me sentivo una gran fretta di raggiungerla. Accidentalmente sbattei la testa sullo stipite della piccola finestra, facendo riecheggiare intorno a noi un rumore sordo. Elena si voltò sobbalzando, rivolgendomi uno sguardo preoccupato. Quando si rese conto che ero io, scoppiò a ridere gettando la testa all'indietro.
"Non è divertente", borbottai, mentre mi sedevo accanto a lei.
"Oh invece lo è!".
Alzai gli occhi al cielo ed aspettai che la smettesse di ridere. Durò a lungo, ma era il suono più bello che avessi mai sentito. Quando si strinse nuovamente nelle spalle, scossa da un tremito, le passai la mia felpa. Mi ringraziò con un debole sorriso.
"Allora, mi dici che ci fai qua o inizio col terzo grado?", domandai, preparandomi mentalmente delle domande serie da porle e cercando di non farmi distrarre dal fatto che era evidente che non portasse il reggiseno. Fingendo nonchalance e un certo contegno, mi lasciai andare all'indietro, riversando tutto il mio peso sui gomiti. L'assenza di sole aveva reso più freddo il leggero venticello che si era alzato.
Elena non si volto, si portò le ginocchia al petto e restò a guardare un punto imprecisato del lago scuro. Notai che portò una mano al collo, prima d parlare.
"Sai... Mi sembra troppo bello per essere vero", mormorò. "Non riesco... Non so come accettarlo. Non sono abituata alla vera libertà...".
Si girò piano verso di me, incastrando i suoi occhi nei miei:"Cosa devo fare?".
Sorrisi di quell'improvvisa e bizzarra insicurezza e m avvicinai nuovamente, per cingerle le spalle con un braccio. Lei lasciò andare la testa sul mio petto, sospirando.
"Quello che vuoi", mormorai. "Sei libera di vivere la tua vita senza vincoli, senza paure".
Aggrottò le sopraciglia:"Io ho paura...Ho paura perché non so cosa mi aspetta".
Sospirai e le presi il viso tra le mani, obbligandola a guardarmi negli occhi. I suoi erano lucidi, tentennanti ed innocenti; cercavano in tutti i modi di sviare i miei. Posai la fronte sulla sua e sorrisi, portandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Basta non pensarci", dissi piano. "Basta vivere adesso".
Fine settembre. Le cime degli alberi che ci sovrastavano si muovevano leggermente, scosse dal vento. Il prato dietro alla biblioteca era gremito di laureati, che sorridevano fieri davanti alle loro famiglie e alle macchine fotografiche. Io ero tra quelli.
Nick, in lontananza, alzò leggermente il tocco in segno di saluto. Ricambiai, mentre mio padre e mia madre mi si affiancavano per una foto e a seguire tutti gli altri. Era un continuo giro di foto e abbracci. Mi dolevano le guance a furia di sorridere. Quando le foto finalmente terminarono, raggiunsi la macchina di Bonnie per infilarci dentro tocco e toga. Erano abbastanza imbarazzanti, non il mio look migliore diciamo. Lentamente, mi raggiunsero tutti. Mio padre, mia madre e mia nonna parlavano allegramente con Bonnie e Caroline, mentre Giulia e Claudia, le mie cugine, cercavano di intrattenere Elena, piuttosto imbarazzata da quella situazione. Quando mi affiancò, mi sorrise maliziosamente:"Eri affascinante con la toga", mi sussurrò.
Alzai un sopraciglio:"Lo terrò a mente", dissi, scuotendo la testa e ridacchiando.
Ci dividemmo in tre gruppi per tornare a casa: Bonnie prese con sé, nella sua cinquecento, mia madre, mia nonna e mio padre; mentre Caroline andò con le mie cugine. Io e Elena prendemmo la mia moto.
Il vento sulla faccia e le mani di Elena intorno alla mia vita mi fecero estraniare dalla realtà. Sentivo il suo respiro caldo sul mio collo, il suo mento posato sulla mia spalla. Avevo raggiunto l'obiettivo per cui mi ero trasferito in Kansas: conseguire un gran risultato totalmente di mio pugno, senza obblighi, senza costrizioni. Eravamo io e la mia volontà. Cosa avrei fatto adesso? Sarei tornato in Italia? Per fare cosa? Per tornare dietro il bancone di un bar? Quello non era sicuramente nei miei piani, nonostante non ne avessi una preciso in testa. Non sapevo cosa volessi veramente. Avevo ottenuto forse tutto quel che volevo dalla mia permanenza in America. Prima fra tutte, Elena che in quel momento mi sorrideva, porgendomi il casco. Notò, poco dopo, la scintilla di perplessità che aleggiava nel mio sguardo e mi si fece più vicina, impensierita. Gli altri erano già all'interno della casa, con la coda dell'occhio sorpresi Caroline a spiarci da dietro una delle finestre.
Elena, che aveva intuito la natura dei miei pensieri, mi stringeva le mani, un sorriso di incoraggiamento su quelle labbra carnose. Mi ripeté le stesse parole che le rivolsi io, la sera della festa per il suo ritorno a casa. Ed era vero, dovevo vivere il momento senza preoccuparmi più di tanto del futuro. Ero sempre stato una persona particolarmente impulsiva. Fu la mia stessa impulsività a portarmi negli States, la stessa impulsività che mi fece comportare da stronzo per conquistare Elena e la stessa che mi fece uccidere Jasper, una notte di diversi mesi prima. Non mi ci voleva più di un minuto per fare le mie scelte. E anche quella volta andò così: presi la mia decisione nel momento esatto in cui aprii la porta di casa e incontrai una decina di occhi fieri e ridenti.
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