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Capitolo tre- la partita

Il giorno seguente non andai a lezione, mi presentai solamente in caffetteria. Lì non potevo permettermi di assentarmi, a meno che non fossi in fin di vita. Paul mi tempestò di domande sul perché non fossi in aula quella mattina e quando la mia misera scusa lo accontentò, passò alla tempesta successiva: cosa avevo combinato a Somerhalder. A quanto pare anche il caro nulla facente non si era presentato alle lezioni, ma dopo tutto era una cosa abbastanza normale. Non ne era un assiduo frequentatore. Ma queste nostre assenze destarono parecchi sospetti, visto che il giorno prima eravamo stati visti insieme. Mi limitai a lasciar perdere il vociare intorno a me. Tanto, in breve tempo, la cara Fiona mi avrebbe liberato di quel peso, raccontando della magica notte di fuoco avuta col secondo interessato.
Porsi il caffè e lanciai un'occhiataccia all'ennesimo ragazzo che si era rivolto a me con sguardo indagatore e malizioso. Cominciavo a detestarli. Non vedevo l'ora di ritornare nel mio caldo e confortevole letto e rimanerci fino alla mattina dopo.
Stava per arrivare la fine del mio turno. Ero talmente concentrata a fissare l'ora sul cellulare, che non mi accorsi nemmeno che qualcuno mi stava parlando. E non un qualcuno qualunque.
Lentamente, alzai lo sguardo e mi scontrai con i suoi occhi stanchi. Mi scrutavano con fiacchezza e non mi sembrò di notarvi la compassione che vi avevo visto la sera precedente. Fortunatamente. Magari era già solo un divertente ricordo per lui.
Spostando lo sguardo dal suo viso, notai che aveva indosso la divisa da basket e con sé il borsone degli allenamenti. Giusto! Più tardi ci sarebbe stata la partita. Me l'ero completamente scordata e avevo promesso a Paul che ci sarei stata. Secondo lui, l'ultima l'avevano vinta grazie alla mia presenza. Ero il suo portafortuna. Sorrisi di quella cosa così ridicola e mi rivolsi al ragazzo di fronte a me.
"Caffè?", gli domandai svogliatamente.
"Amaro, grazie", rispose lui senza guardarmi.
Non mi rivolse altre parole. Rimase appollaiato sul suo solito sgabello, intento a scarabocchiare qualcosa su un quadernetto. Sembrava piuttosto concentrato. Quando gli porsi il caffè, allungai un poco il collo per sbirciare quel che stava scrivendo. Sotto la sua mano erano nascoste una serie di note, seguite da alcune parole sconnesse. Stava scrivendo una canzone? Somerhalder era anche un cantautore?
-Portami là. Dove non si cade-
Sbuffò e lasciò un tratto leggero di matita, per cancellare quelle poche parole, scritte in italiano. Lo fissai incuriosita. Avevamo qualcosa in comune, forse. Gli piaceva la musica.. Un punto a suo favore. Un pro in un mare di contro.
Non lo disturbai. Tornai a sedermi al mio posto, lanciandogli qualche occhiata di tanto in tanto.
Aveva l'ipod alle orecchie e lo sguardo concentrato sul foglio.
Lo osservai meglio. La barba folta del giorno prima, adesso era stata appena spuntata. La braccia nude erano tese. Una mano era sul foglio, l'altra reggeva il viso. Seguii con lo sguardo ogni curva del suo corpo.. Probabilmente sembrava che me lo stessi mangiando con gli occhi, così cercai con tutte le mie forze di smettere di guardarlo. Lanciandogli un'ultima occhiata, notai un piccolo particolare sulle sue spalle, che lui aveva cercato di mascherare con la leggera maglia da gioco. Erano dei leggeri segni rossi, sembravano graffi, segni di.. di unghie?
Ridacchiai sotto i baffi, mentre controllavo di nuovo l'ora sul cellulare.
Fiona doveva averlo distrutto. Avevo sempre immaginato che ci fosse qualcosa di animalesco in quella ragazza, ma non credevo tanto da lasciare segni quasi indelebili sulla schiena di quel poveretto.
Il display si illuminò, segnando le cinque e mezza. La partita di sarebbe iniziata verso le sette e trenta. Avevo tutto il tempo per crogiolarmi nel mio dolce far niente. Scattai e, con un balzo, scesi dallo sgabello. Appesi il grembiule in una piccola stanzina dietro il bancone e presi le mie cose. Aspettai qualche minuto che arrivasse Caroline e, non appena la vidi comparire dal fondo della sala, mi fiondai fuori dalla sala.
Quando fui all'esterno, la leggera brezza autunnale mi colpii il viso. Mi avvolsi la sciarpa al collo e stavo per incamminarmi verso il mio alloggio, quando qualcuno tirò una manica del mio prezioso maglioncino di cashmere. Mi voltai convinta che fosse Caroline offesa a morte perché non l'avevo salutata, ma di fronte a me trovai tutt'altra persona.
Lo guardai, sorpresa ed interrogativa.
"La tua amica ha detto che ti raggiunge più tardi e chiede di tenerle un posto", mi disse Ian con voce strascicata. Sembrava piuttosto stanco, delle profonde occhiaie violacee segnavano il contorno dei suoi occhi, ammaccandone un poco la bellezza.
Gli sorrisi, senza guardarlo, e lo ringraziai tornando poi sui miei passi.
In pochi minuti fu di nuovo al mio fianco.
"Verrai alla partita?", mi chiese e sembrava che quasi sperasse in un sì.
Annuii semplicemente e, con la coda dell'occhio, lo vidi sorridere.
"Dove stai andando?", continuò poco dopo.
"A riposarmi", risposi, simulando uno sbadiglio.
Lui mi guardò perplesso per qualche minuto e mi sentii in forte imbarazzo. Il suo sguardo aveva uno strano potere ammaliatore. Mi sentii avvampare e, d'istinto, spostai i capelli dietro l'orecchio. Ma perché diavolo non se ne andava? Ah, giusto. Il campo era esattamente subito dopo l'edificio dove si trovava il mio alloggio.
La sua presenza aveva un effetto insopportabile su di me. Detestavo sentirmi tentata da qualcuno. Nella mia testa, comunque, continuavo a ripetermi di non cascarci. Di non cedere.
Andiamo Elena è pur sempre Ian somerhalder Non puoi pensare che con te sia diverso.
Nonostante un po' ci sperassi.
"Perché non sei andata a lezione, oggi?", mi chiese improvvisamente, facendomi sobbalzare.
"Non stavo bene", mentii in un sussurro. "E poi perché ti interessa? Mi hanno detto che nemmeno tu eri a lezione".
Scrollò le spalle e guardò dritto davanti a sè. Detestavo quando faceva così. Pretendeva di sapere sempre tutto, ma di lui non raccontava niente.
"Fiona deve essere stata impegnativa", mormorai con un sorriso furbesco sul volto.
Ian mi guardò di sottecchi e scoppiò a ridere, mentre io lo fissavo infastidita. Niente riusciva ad innervosirlo, nemmeno la mia piccante allusione alla notte precedente.
"E' dura stare al mio passo", disse avvicinandosi al mio viso, mentre continuavamo a camminare. "Ha dovuto adeguarsi".
Sorrisi scettica, mentre sentivo che le sue labbra si avvicinavano sempre di più al mio orecchio.
"Provare per credere", mormorò, a nemmeno un centimetro da esso.
Alzai gli occhi al cielo e, con maestria, mascherai la serie incontrollata di brividi che scendeva lungo la mia schiena. Un mezzo sorriso si fece largo sul mio volto, mentre mi avviavi a grandi passi verso l'ingresso dell'edificio. Lui rimase fermo al suo posto e spostò lo sguardo su di me, solo quando parlai.
"Ti credo sulla parola!", esclamai, prima di scomparire dalla sua visuale e fiondarmi nella mia stanza.
Quando la porta si richiuse alle mie spalle, mi lasciai andare su di essa cercando di levarmi quel sorriso sfacciato dalla testa. Sospirando, mi alzai e andai a farmi una doccia per schiarirmi le idee e cercare di disincantarmi.

Non capivo un granché di basket, o di qualsiasi altro sport, ma sapevo che la nostra squadra era in vantaggio. Ero seduta sulle tribune, in prima fila, per permettere a Paul di avvicinarsi ogni qual volta ne avesse bisogno. Mi aveva dato la sua felpa, come aveva fatto l'ultima volta.
"Chissà che non funzioni anche oggi", mi disse, regalandomi un sorriso radioso ed un bacio sulla guancia. Paul era un ragazzo adorabile ed anche incredibilmente attraente. Aveva quell'aria da sportivo della costa est: capelli biondi a spazzola, dentatura perfetta, fossette sulle guance quando quest'ultime si distendevano in un sorriso, occhi azzurri e fisico scolpito. Inoltre era un ragazzo serio, monogamo e non sembrava un tipo in grado di tradire la propria partner. Era quel che si dice un ragazzo d'oro. Insomma, l'esatto opposto di Ian somerhalder che, in quel momento, mi stava rivolgendo uno sguardo mesto ed interrogativo.
Lo salutai con un gesto della mano, del resto il giorno prima lui era stato inaspettatamente gentile con me. Stava per terminare la pausa, quando mi si avvicinò. In quel momento arrivò anche Caroline, che gli regalò un sorriso tirato ed imbarazzato.
"Vado a prendere qualcosa da mangiare", disse la mia amica, lasciando al suo posto la sua borsa. La maledii in tutte le lingue del mondo e non, mentre la osservavo allontanarsi, poi rivolsi di nuovo il mio sguardo a Ian che sembrava fissare con sospetto il mio abbigliamento.
"Come mai indossi la felpa di Paul?", chiese ed io aggrottai le sopraciglia. Perché gli interessava?
Scrollai le spalle:"Sono il suo portafortuna, dice", risposi e non nascosi l'acuta nota di scetticismo nella mia voce.
Rise, piuttosto perplesso anche lui:"Ah sì?", chiese. "E cos'era quello? Un bacio portafortuna? Lo voglio anche io!", esclamò, porgendo la sua guancia verso di me.
Lo fissai serrando gli occhi e sporgendomi di poco nella sua direzione:"Primo: la partita sta per ricominciare. Secondo: no!. E terzo: non sono stata io a darglielo", precisai, guardandolo dritto negli occhi, nei quali riuscii a cogliere una scintilla di malizioso divertimento. Dannazione, che occhi meravigliosi che possedeva. Ma niente riusciva a distogliermi dal fatto che fosse la persona più irritante sulla faccia di questa terra.
Un sorrisino sghembo comparve su quel volto strafottente. Cercai di restare impassibile, mentre un turbinio di emozioni spazzava il mio stomaco. Il mio sguardo reggeva il suo, ma avevo fatto in tempo ad osservarlo nell'insieme. La divisa aderiva al suo corpo madido di sudore, la fronte ne era leggermente imperlata, l'aveva tamponata poco prima con l'asciugamano che teneva al collo. Il suo occhi scuri viaggiavano sul mio viso, alla probabile ricerca di un primo segno di cedimento. Lo guardai sicura e il suo viso si allargò in un immenso sorriso a trentadue denti.
"Lo prendo come un invito", disse piano ed io non capii.
Aggrottai la fronte perplessa:"Che cosa, scusa?", chiesi piegando la testa da un lato, nello stesso istante in cui lui fece uno scatto fulmineo verso il mio viso. Le sue labbra si posarono così sulla mia guancia, sfiorando leggermente un angolo della bocca.
Sgranai gli occhi sorpresa ed infuriata e mi allontanai di scatto, tornando a far scontrare la mia schiena sulla gradinata.
Ian mi sorrise e mi salutò con un cenno della mano:"Augurami buona fortuna, Gilbert", esclamò dirigendosi verso il campo. Prima di entrarvi però, si fermò. Tolse l'asciugamano dal collo e lo osservò. Si rivoltò nella mia direzione e, con il suo solito sorriso maledettamente attraente, me lo lanciò addosso.
Guardai prima l'asciugamano e poi lui con aria sconvolta. Stavo per mandarlo a quel paese, ma si era già catapultato in campo. Seguii con attenzione ogni sua azione, tenendo ancora tra le mani il suo asciugamano. Come, con movimenti fluenti, lanciava la palla a canestro o schivava gli avversari con scatti veloci. Era bravo, probabilmente molto più Paul che era stato nominato capitano.
Mentre ero concentrata sulla partita, la voce di Caroline irruppe nelle mie orecchie, facendomi sobbalzare.
"Che fai con quel coso in mano?", mi chiese, guardandomi con un sopraciglio alzato.
Abbassai lo sguardo sulle mie mani strette intorno all'asciugamano. Non mi ero nemmeno accorta di averlo ancora. In risposta scrollai le spalle:"E' di Ian", mormorai.
Caroline alzò entrambe le sopraciglia:"Sei diventata una specie di Amuleto?", chiese ridacchiando.
La fulminai con lo sguardo e le rubai una caramella dal sacchetto che teneva tra le mani. Mi fece un centinaio di domande sulla conversazione appena avuta con Ian . Io rimasi sul vago, continuando ad osservare i giocatori in campo. Paul aveva appena mandato a segno un altro punto, grazie ad un passaggio di Somerhlader, e tutti si erano alzai ad applaudire, me compresa. Caroline mi imitò, guardando prima me e poi i due ragazzi con sospetto.
"Quei due non me la raccontano giusta", mormorò, tornando a sedersi. "Che strano incantesimo gli hai fatto?"
Aggrottai le sopraciglia:"Che stai dicendo?"
Alzò gli occhi al cielo:"Andiamo, non puoi non essertene resa conto.. Sono cotti di te!".
Fu il mio turno di far roteare gli occhi al cielo e Caroline sghignazzò tra sé. Le piaceva fin troppo fingersi la Cupido dei disperati. Io non ero disperata, ma quel che provavo non poteva saperlo.
Concentrai di nuovo la mia attenzione sulla partita, mancavano pochi secondi alla fine. Il punteggio era in totale parità, ai ragazzi sarebbe bastato un solo canestro per passare allo scontro successivo. Osservai ogni singolo movimento della nostra squadra, stringendo un lembo dell'asciugamano di Somerhalder. Quest'ultimo era sotto canestro, completamente smarcato ed incitava Paul a passargli quella "dannatissima palla". Sentivo il cuore battere all'impazzata nel petto, le mie mani contorcevano sempre di più quel povero asciugamano. Caroline guardava incuriosita il campo, mandando giù una caramella dietro l'altra.
Quando la palla attraverso il campo dalle mani di Paul, finendo in quelle di Somerhalder e successivamente a canestro, il pubblico impazzì. Partirono grida, fischi ed applausi: un'infinita ovazione alla squadra che, in quel momento, si stava abbracciando. Io rimasi seduta al mio posto, mentre Caroline raggiungeva il suo ragazzo che si trovava sulle altre scalinate. Quando alzai lo sguardo su di loro, mi salutò con un gesto della mano. Matt era perfetto per Caroline. Un ragazzo alto, moro e ben piazzato, così come deve essere un perfetto giocatore di football e lui lo era. Quell'anno si sarebbe laureato e a Caroline non piaceva particolarmente l'idea di doversi separare di nuovo da lui. I suoi capelli biondi spiccavano sulla spalla abbronzata del ragazzo e i suoi occhi si perdevano in quelli di Matt quattro macchie color smeraldo.
Li vidi allontanarsi e seguire tutte le altre persone che lasciavano il campo. Proprio mentre stavo scendendo dalle gradinate, mi venne incontro Paul.
"Ehi Elena!", esclamò, abbracciandomi. "Hai visto? E' tutto merito tuo!"
Sorrisi:"Che esagerazione..", mormorai abbassando lo sguardo. "Siete stati grandi!"
Mi sorrise, i suoi occhi incontrarono i miei e sembrarono non volersene più separare. Parlò solo quando distolsi lo sguardo. Ian accanto a noi, metteva le sue cose nel borsone. Lanciai un'occhiata all'asciugamano che stringevo nella mano destra e sorrisi.
"Ci vieni alla festa?", mi chiese Paul facendomi sobbalzare.
Lo guardai desolata e mostrai l'espressione più stremata che mi riuscii:"Scusa", mormorai. "Ma son piuttosto stanca". Mi levai la sua felpa e gliela restituii, nonostante lui continuasse ad insistere che potevo tenerla. Alla fine l'ebbi vinta io e lui, con aria un po' delusa, raggiunse gli altri.
Senza voltarmi, percorsi la strada opposta che mi avrebbe portata al dormitorio. Il freddo di metà ottobre iniziava a farsi sentire ed io indossavo solo una leggera t-shirt. Mi strinsi nelle spalle ed accelerai il passo.
Improvvisamente la strada di fronte a me sparì, lasciando il posto ad uno sfondo nero. Aggrottai la fronte e tolsi quel che era finito sulla mia testa. Era una giacca di pelle nera. La osservai meglio, poi alzai lo sguardo scrutandomi intorno.somerhlader era dietro di me, una strana espressione sul volto stremato.
Inarcai un sopraciglio, mostrandogli la giacca, e lui, con un gesto, mi invitò ad indossarla. Feci un mezzo sorriso per ringraziarlo, poi parlai:"Come mai non sei alla festa?", gli chiesi.
"Potrei farti la stessa domanda", disse e sul suo viso si stirò un piccolo sorriso.
Alzai gli occhi al cielo:"Già, ma prima dovresti rispondere".
Scrollò le spalle:"Non mi andava".
"Nemmeno a me", mormorai, incrociando le braccia. Mi accorsi di avere ancora il suo asciugamano, così glielo lanciai. E lui lo afferrò al volo.
Sorrise a testa bassa Ha ragione Paul : porti fortuna!", disse, alzando poi lo sguardo ed inchiodando i suoi occhi scuri nei miei, che fissai su un punto imprecisato alle sue spalle. Avevo una gran voglia di tornare nel mio alloggio, ma prima volevo sapere perché mi aveva seguita. Il dormitorio dei ragazzi si trovava esattamente dalla parte opposta nella quale stavo andando io.
Spostai i miei occhi sul suo viso e lo guardai con un sopraciglio alzato, le braccia ancora incrociate al petto, aspettando che parlasse. La sua giacca emanava un profumo delizioso, che quasi mi impediva di pensare ma cercai con tutta me stessa di mantenere i nervi saldi.
"Come stai oggi?", mi chiese, avvicinandosi di un passo.
Lo guardai sorpresa. Non aveva dimenticato la sera precedente. I suoi occhi erano posati sui miei, in apprensione. Schivai il suo sguardo, abbassando il mio, imbarazzata ed intimorita. Avevo paura che vi scorgesse la stessa insicurezza, la stessa fragilità del giorno prima.
"Ti prego..", mormorai, con voce quasi sdegnosa. "Lascia perdere, non fingere che ti importi".
Lui aggrottò le sopraciglia, guardandomi infastidito:"E se mi importasse?", disse sicuro, facendo un altro passo verso di me.
Mi scostai dalla sua mano, che si stava avvicinando pericolosamente al mio braccio, e mi guardai intorno spazientita. Non mi andava che si interessasse così tanto al mio stato d'animo, era decisamente meglio quando pensava solo a come infilarsi nelle mie mutande. O probabilmente quella era solo una tecnica per riuscire nel suo obiettivo principale. Ripensai alle tre parole che mi aveva detto poco prima. Nessuno mi aveva mai chiesto, veramente, come mi sentissi, cosa provassi, se stessi bene. Mi aveva colto alla sprovvista e non potevo accettarlo. Non potevo permettermi di abbassare la guardia, soprattutto non con lui, che aveva già messo a dura prova la mia corazza.
"Sono stanca", sbottai. "Voglio solo andare a dormire".
Mi sorrise, forse grato per averlo degnato di una risposta anche se non era quella che voleva sentire.
"Posso accompagnarti?", mi chiese piano, temendo probabilmente una mia ennesima sfuriata.
Abbassai lo sguardo sulle mie scarpe e sorrisi:"E' meglio di no", sussurrai.
Feci per levarmi la giacca e restituirgliela, ma lui me lo impedì posando una mano sulle mie.
"Tienila", disse. "Me la restituisci domani".
Con lui non mi misi a combattere, accettai l'offerta e lo ringraziai con un semplice sorriso.
"Alle tre?", domandai, riferendomi all'appuntamento per la lezione.
"Davanti all'edificio cinque", rispose lui, mostrando un sorriso a trentadue denti e degli occhi raggianti che illuminarono il buio intorno a noi.
Annuii e mi allontanai a passo svelto, con la testa piena di dubbi e il suo profumo che ne riempiva ogni angolo. Faticai a mantenere una certa lucidità quando, prima di voltare, l'angolo sentii la sua voce salutarmi.
"Buonanotte, Gilbert".

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