Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Capitolo dodici- Poesie

Ian venne a conoscenza della mia vera vita quello stesso giorno. Parlammo quasi tutta la notte.  O meglio, io parlai... lui stette ad ascoltare, in religioso silenzio. Ogni tanto, sul suo viso prendevano forma smorfie di dolore e disgusto. Iniziai dal principio, dal fatto che non avevo mai conosciuto mia madre, poiché morta dopo avermi data alla luce. Mio padre non resse il colpo, iniziò ad uccidersi lentamente.. Alcool, droga, quei pochi e maledetti incontri di boxe clandestini per guadagnarsi da vivere. Ma mi tenne con sé. Almeno fino a quando non diventai un peso troppo grande. All'età di dieci anni circa, mi vendette all'uomo a capo di uno dei più ampi circoli di prostituzione degli Stati Uniti. Fui una ragazza precoce, sviluppai in fretta e, nel giro di neanche un anno, diventai la più bella ed ambita tra le ragazze presenti, nonostante la mia giovanissima età.
Non scesi ovviamente nei particolari, per non turbare ulteriormente Ian. Mi limitai a raccontargli di colui che mi stava cercando, del capo... Di Jasper. In poche avevamo avuto il privilegio, come sosteneva lui, di conoscerlo. Io e Jasmine fummo tra quelle. Mi fermai prima di raccontare quel che veramente facevamo per quell'uomo, probabilmente Ian aveva già intuito. Gli parlai di Lisa, di come la sua morte aveva facilitato la mia fuga, di come tutt'oggi mi sentissi miseramente in colpa. Gli parlai anche di Jasmine, che non avevo mai considerato mia amica fino a quel giorno. Era una specie di giungla quella: ognuno per sé. Dovevi badare a te stessa e fare di tutto per sopravvivere al meglio. Più tempo passavi con Jasper, meno ero costretta a dedicarne ai luridi clienti.
All'ennesima occhiata alla radiosveglia, notai che si erano fatte le tre. Sentivo gli occhi appesantirsi e non mi andava più di parlare, così mi fermai. Guardai Ian e lui, con la schiena posata sui cuscini del letto, allargò le braccia per accogliermi nel suo abbraccio. Abbozzai un sorriso e mi ci tuffai, sdraiandomi completamente sopra di lui, posando la testa poco sotto la sua spalla. Lui mi lasciò un leggero bacio sui capelli, accarezzandoli meccanicamente. Chiusi gli occhi, sentendomi al posto giusto tra quelle braccia.
"Lo affronteremo insieme", disse poi piano, ancora con le labbra posate sulla mia testa.
Mi scostai di poco, per guardarlo bene negli occhi:"No", dissi secca. "Non posso coinvolgerti in questa faccenda".
Lui alzò gli occhi al cielo e mi prese il viso tra le mani:"Non lo stai facendo. Io mi sto auto coinvolgendo", disse, aprendosi in un sorriso adorabile che mi fece sciogliere. Abbassai lo sguardo sul suo petto ed iniziai a disegnare piccoli cerchi sulla sua maglietta. Sentivo i suoi occhi addosso ed una gioia mai provata prima che invadeva ogni singolo angolo della mia mente. Non riuscivo a pensare ad altro che a quel bacio e, inconsapevolmente, mi venne da sorridere. Era di quello che avevo bisogno. Ian mi voleva bene, lo percepivo anche in quel momento, dal modo in cui i suoi occhi scrutavano il mio viso e le sue mani mi accarezzavano la schiena. Lo facevano con delicata decisione, come ad infondermi sicurezza ma sempre con un'innata dolcezza, che senza conoscerlo nessuno gli attribuirebbe. Nemmeno io l'avrei fatto, pochi mesi prima. Quando alzai lo sguardo dal suo petto, i suoi occhi erano ancora su di me. Mi guardava con uno strano sorriso sul volto, che mi metteva piuttosto in imbarazzo. Sentii, infatti, le guance avvampare.
"Cos'è quella faccia?", gli chiesi, guardandolo dritto negli occhi.
"Quale faccia?", chiese lui di rimando, allargando il suo sorriso.
"Questa faccia", dissi, toccandogli la punta del naso con l'indice.
Scrollò le spalle, senza smettere di sorridere:"Sto bene", mormorò, guardandomi intensamente, prima di cambiare le nostre posizioni e farmi scivolare sotto di lui. "Sono... felice", aggiunse, sfiorando le mie labbra con le sue e facendole poi scivolare sul mento, sul collo, sulle clavicole. Lasciò una scia bollente di baci sul mio corpo e quasi mi fece perdere il controllo. Ma non ero pronta, ancora non volevo donargli il mio corpo. Il mio corpo livido e macchiato di vergogna. Volevo prima fosse totalmente sincero con me. Ed io la sua storia non la conoscevo.
Stoppai la corsa delle sue labbra, prendendogli il viso tra le mani. Lui mi sorrise, come a scusarsi, dispiaciuto. Gli diedi un bacio sulla punta del naso, dopodiché lui si alzò e andò verso l'armadio e vi tirò fuori gli stessi indumenti che avevo indossato la prima volta che ero stata lì. Sorrisi quando me li porse ed andai in bagno a cambiarmi. Quando tornai nella stanza, Ian era sdraiato sotto le coperte, mi fissava con gli occhi che si chiudevano per la stanchezza. Legai i capelli e lo guardai, le mani sui fianchi.
"Non sono pratica di queste cose, come puoi immaginare", gli dissi, mentre mi avvicinavo.
Lui mi lanciò un'occhiata interrogativa ed io gli sorrisi incerta.
"Dovremmo avere un appuntamento, no?", continuai, cercando conferma nel suo sguardo.
Per tutta risposta, lui scoppiò a ridere. Lo fulminai, mentre prendevo posto accanto a lui. Incrociai le braccia al petto e mi imbronciai, nascondendo il viso nel largo scollo della maglia. Ian mi guardava divertito, con la coda dell'occhio. Mi girai su un fianco, cercando di ignorare le sue risatine e di prendere sonno. Dopo poco, il suo braccio avvolse i miei fianchi ed il suo bacino si scontrò con la mia schiena. Sorrisi, sentendo le sue labbra stuzzicarmi l'orecchio.
"Non mi sembri tipa da appuntamento elegante", disse piano, posando la sua guancia sulla mia.
Cercai di rimanere seria, nonostante la sua barba mi facesse il solletico:"Oh beh...Grazie!", mormorai, fingendomi punta sul vivo.
Un'altra leggera risatina da parte sua, subito dopo l'ennesimo sbuffare dalla mia.
"E appuntamento sia!", sussurrò, prima di lasciarmi un ultimo bacio ed addormentarsi abbracciato a me.

Scesi dalla moto e posai i piedi su un terreno ghiaioso molto familiare. Levai il casco e lo porsi a Ian, che lo allacciò, insieme al suo, al manubrio. Alzai gli occhi verso l'insegna del locale, poi li spostai su Ian, che mi fissava con un sorriso divertito. Quello doveva essere un appuntamento. Un appuntamento alla Somerhalder.
"Sei il solito imbecille!", gli dissi, ridendo e dandogli un leggero schiaffo sul braccio sinistro. Lui mi prese per mano e insieme entrammo nel locale. Ad accoglierci, visto che era appena l'ora di pranzo, ci fu ovviamente il caloroso e più che entusiasta sorriso di Bonnie. Suppongo sapesse quel che fosse successo la notte scorsa, Ian non le teneva nascosto niente, come io non avevo perso tempo a raccontarlo a Caroline la mattina in caffetteria. La sua reazione fu decisamente più esagerata di quella di Bonnie: il suo grido di gioia mi rimbombava ancora nelle orecchie, seguito dal suo sproloquio sul fatto che aveva sempre ragione. Entrambe, però, erano a conoscenza solo del nostro bacio. Non sapevano e, per ora, non dovevano sapere cosa fosse avvenuto prima e dopo. Ian mi aveva baciata e io l'avevo ricambiato, tutto qua. Prima o poi avrei trovato il coraggio di farlo sapere anche a loro.
Bonnie ci accompagnò al nostro tavolo, uno dei più vicini al bancone. Alzai gli occhi al cielo, immaginando il motivo di tale sistemazione: Bonnie era una ficcanaso, esattamente come Caroline, e non voleva perderci di vista. Mi accomodai sul divanetto addossato al muro e Ian si sistemò accanto a me, lasciando libere le altre due sedie davanti a noi. Bonnie ci porse i menù e restò a guardarci con occhi sognanti. La osservai di rimando, seminascosta dietro il menù, aspettando che se ne andasse. Purtroppo lo fece solo quando prese le nostre ordinazioni. Ian si lasciò andare sulla sedia e posò un braccio intorno alla mie spalle.
"Bonnie inizia a farmi paura", gli dissi bisbigliando, giocherellando col tovagliolo.
Lui scoppiò a ridere e mi diede un bacio sulla tempia. Sembrava non si stancasse mai di farlo, come io non mi stancavo di sorridere ogni qualvolta lui lo faceva.
"La conosci... Si entusiasma per tutto", rispose piano, col viso ancora troppo vicino al mio.
"O è felice perché finalmente hai messo la testa apposto?", gli chiesi, voltandomi verso di lui con aria di sfida. Lui mi guardò con un sopraciglio alzato, prima di coprire la poca distanza che ci separava con un leggero bacio a fior di labbra.
"Potrei non stancarmi mai", mormorò sulle mie labbra.
Aprii la bocca, pronta a rispondere ma non feci in tempo. Bonnie era di nuovo davanti a noi, con le nostre birre e i nostri hamburger, e ci guardava con il suo sorriso smielato, come avesse appena visto la scena di una soap. La fulminai, mentre Ian se la rideva sotto i baffi.
"Resterei ore a guardarvi", disse, gli occhi a cuoricino.
"Ti prego non farlo", ribattei io a bassa voce, quel tanto che bastasse perché mi sentissero appena loro due.
La risata di Ian non si placò, mentre il sorriso di Bonnie si spense in un istante. Mi lanciò un'occhiataccia e si allontanò a grandi passi verso un altro tavolo.
"Grande Gilbert!", esclamò Ian, prendendo la sua birra dal collo e facendola scontrare con la mia.
Trascorremmo tutta la giornata insieme. Ian mi dava attenzioni, tenendo d'occhio il mio stato d'animo, facendomi distrarre, senza mai perdere l'immenso sorriso che faceva da quadro alla cornice delle sue labbra. Mi guardava e sorrideva. Parlava e sorrideva. Stava in silenzio e continuava a sorridere. Era contagioso e se ne rese conto anche Bonnie.
"Finalmente sorridi di nuovo", gli disse, prima che andassimo via dal locale.
Quella frase cominciò a martellarmi la testa e lo fece per tutto il giorno. Lo fece quando fummo a bordo della moto. Lo fece nel parco, vicino a casa di Ian, nel quale avevamo deciso di fare una passeggiata. Lo fece mentre tornavamo indietro. Lo fece mentre cercavamo di studiare. Continuava a torturarmi l'idea che quel qualcuno che gli aveva spento il sorriso fosse molto più importante di quanto lo sarei mai potuta essere io. Una strana sensazione mi bruciò lo stomaco. Avevo forse rivelato il mio più grande tormento ad una persona che non mi avrebbe mai considerata nello stesso modo in cui l'avrei considerata io? Ero certa che quel qualcuno esistesse e volevo sapere chi fosse. Volevo che Ian si aprisse con me, come io avevo fatto con lui. Avevo bisogno di sapere se stavo facendo la cosa giusta.
Presi un profondo respiro e glielo chiesi.
Eravamo in camera sua, seduti a gambe incrociate sul letto, uno di fronte all'altra, solo decine di libri ci separavano. Ian era concentrato su una raccolta di Victor Hugo, era completamente immerso nella lettura che non si accorse nemmeno che avevo iniziato a parlargli. Scosse la testa, alzando lo sguardo dal libro e mi sorrise dispiaciuto, mettendo un segno sulla pagina.
"Scusa, Gilbert... Che dicevi?", mi chiese, guardandomi con quegli occhi lucenti e ipnotizzanti.
Rimasi paralizzata per qualche secondo. E se non avesse voluto dirmelo? Non trovai più le parole, mi limitai a spostare lo sguardo dal suo viso, alla maniglia della porta dietro di lui. Fu in quel momento che mi illuminai.
"Che c'è dietro quella porta?", gli chiesi, indicando alle sue spalle.
Lui si voltò per qualche secondo, poi tornò a fissare i libri sul letto, con un sorriso incerto sul volto.
"Ricordi", rispose in sussurro, senza guardarmi. Non continuò, disse solo quella semplice parola, lasciandomi interdetta e con l'amaro in bocca. Non mi sarei arresa.
"Scheletri nell'armadio?", continuai, con un mezzo sorriso sulle labbra. Non distolsi, nemmeno per un secondo, lo sguardo dal suo viso, pronta a cogliere qualsiasi tipo di reazione. Non ce ne furono. La sua espressione rimase impassibile, anche quando alzò lo sguardo su di me. Solo un accenno di sorriso.
"Non è importante", disse, prima di avvicinarsi al mio viso per darmi un bacio.
Voltai velocemente la testa per impedirglielo:"Non credo che non sia importante", dissi sicura.
Lui sospirò e si alzò dal letto, avvicinandosi a quella porta. Si passò una mano sui capelli, indeciso sul da farsi, prima di abbassare con decisione la maniglia ed aprirla. Non era altro che un semplice armadio a muro, con l'unica particolarità che non conteneva vestiti, ma qualche scatolone. Aggrottai le sopraciglia, perplessa. Non sapevo cosa fosse e, quindi, tantomeno cosa dire in proposito.
"E' quello che è...", disse Ian, con tono freddo e piuttosto provato. "Un ammasso di inutili ricordi".
Richiuse la porta ed il mio sguardo, da quella, passò a lui. Restò qualche minuto fermo a guardare verso un punto imprecisato alle mie spalle, poi uscì dalla stanza. La porta era di nuovo chiusa a chiave, quindi non potei indagare oltre. Osservai, allora, i libri sparsi sul letto. Sospirando, mi alzai e misi in ordine. L'ultimo che mi capitò tra le mani fu la raccolta di Hugo che stava leggendo Ian. Il segno che aveva lasciato, facendo l'orecchia alla pagina, era affiancato da un pallino fatto con la matita. Sorrisi, lo facevo anche io quando qualche passaggio era particolarmente interessante.
"Faccio tutto ciò che posso
perché il mio amore
non ti disturbi,
ti guardo di nascosto,
ti sorrido quando non mi vedi.
Poso il mio sguardo
e la mia anima ovunque
vorrei posare i miei baci:
sulla tua fronte,
sui tuoi occhi,
sulle tue labbra,
ovunque le carezze
abbiano libero accesso."
Il mio cuore fece un salto nel petto quando, accanto all'ultima parola, notai scritta una piccola E puntata. Restai a fissare la pagina per qualche secondo, finendo per memorizzare tutte le parole del passo. Mi sentii improvvisamente nervosa, ma punta da una carica di sicurezza. Presi il suo libro di letteratura inglese e andai al capitolo che stavo studiando prima. Sfogliai velocemente le poesie, andando a trovare quella che mi interessava. Lasciai aperto il libro a quella pagina e feci un segno vicino a quelle poche righe.
Uscii dalla stanza e raggiunsi Ian al piano inferiore. Lo stereo era acceso e una delle più famose canzoni dei Maroon 5 riempiva l'ambiente. Lui si trovava in cucina, davanti ai fornelli. Un delizioso profumo arrivò alle mie narici. Mi avvicinai a passo lento e posai una mano sulla sua schiena. Sobbalzò, ma non si voltò, continuò a tagliuzzare le verdure che aveva davanti. Anche io non parlai, avrei aspettato che lo facesse lui. Fortunatamente, non dovetti attendere a lungo.
"Le persone si aspettano sempre troppo da te", disse, talmente piano che quasi non lo sentii. "E quando rimangono deluse, ti abbandonano".

Ian's pov
Aveva toccato quel tasto. Elena voleva sapere ed io, dopo quel che lei aveva rivelato a me, non potevo di certo negarglielo. Le parole uscirono di getto dalla mia bocca, quando lei arrivò in cucina. Mi sentii in colpa per la mia stupida reazione. Quel che mi portavo addosso non era niente in confronto a quello che aveva subito lei. Quei ricordi mi avevano tormentato fino al giorno prima, ma in quel momento erano niente.
Mi allontanai dal bancone e presi la mano che Elena aveva posato sulla mia schiena, voltandomi poi verso di lei. Mi guardava con quegli occhi scuri e languidi, pieni di curiosità. Iniziai a giocherellare con il braccialetto che portava al polso. Mi sedetti, poi, su uno degli sgabelli al centro della cucina e la feci accomodare di fronte a me. Da lì, fu tutto un andare in discesa.
Per più di un'ora, solo la mia voce ruppe il silenzio che si era creato in quella casa. Il cd aveva finito il suo giro nel lettore, proprio nell'istante in cui le mie parole l'avevano appena cominciato. Le raccontai tutto, partendo dalla mia passione per la musica. Le raccontai di come mia cugina mi aveva spinto ad entrare in quel mondo, ad iniziare a cantare per davvero. Insieme a lei, la mia ragazza, Claudia. Continuavano a ripetermi che avevo talento, quindi... perché non sfruttarlo? Entrare in quel mondo, mi portò a conoscere quella che avrebbe dovuto essere, quella che sembrava a tutti gli effetti la mia seconda famiglia. Furono anni fantastici quelli che seguirono i miei diciassette anni, ricchi di lavoro e di impegni sì, ma posso dire che non mi fu negato niente. Avevo tutto. La storia con Claudia procedeva bene, nonostante qualche battibecco. Fu probabilmente la prima e l'unica persona che amai veramente... fino a quel momento.
Sorrisi, vedendo Elena abbassare lo sguardo imbarazzata. Senza soffermarmi troppo su fatti di poca importanza, procedetti col mio racconto. Ero bravo, sapevo cantare, piacevo a tutti ma nessuno mi voleva. Cercavano altro. Cercavano la stella del momento ed io non lo ero. Passammo anni a cercare di crearmi un varco nel mondo della musica. I miei produttori mi sommergevano di lavoro, convinti del fatto che dovessi perfezionarmi fino allo sfinimento per poterci riuscire. La mai ragazza mi spingeva a dare di più, ma allo stesso tempo a pensare a lei. Dovevo essere lì per tutti e mai per me stesso. Iniziavo a non divertirmi più, stava diventando qualcosa di troppo forzato. Fino a quando, mia cugina non sembrò trovare la soluzione. E sì, devo ammetterlo, sembrava un'idea geniale. Si presentò nello studio, dove lavoravamo ogni giorno, con un foglio tra le mani. Parlava delle selezioni per la terza stagione di X-Factor.
La curiosità negli occhi di Elena aumentava man mano che andavo avanti nel mio racconto.
Cosa mi costava provare? Niente. Tanto ero fermamente convinto che non avrei passato nemmeno un'audizione. E X-Factor fu. Lo stress e le pressioni, però, non cessarono. Le uniche che sembravano capirmi erano mia madre e mia cugina. Mi ripetevano di non affrontare qualcosa che sapevo essere, in partenza, più grande di me. Non le ascoltai. Anzi, presi le loro raccomandazioni quasi come una sfida. Continuai a farmi dire cosa fare per perfezionarmi, a non seguire le mie idee, ad ascoltare sempre e solo gli altri e mai me stesso. Così passai i provini, tutti, fino ad arrivare all'ultima selezione davanti ai giudici. Fu lì che qualcosa andò storto, o meglio... andò come doveva andare. Aprii gli occhi. Mi resi conto che non era quel che volevo. Non ero abbastanza maturo per affrontare tutto quello. Mi stavo lasciando trascinare dagli altri e non sapevo che strada stessi prendendo. Sapevo solo che non era la mia. Così non mi presentai. Non feci quel dannatissimo provino che, probabilmente, avrebbe potuto cambiare tutta la mia vita. La reazione di tutti fu immediata. I miei produttori rimasero delusi, amareggiati... mi riversarono addosso colpe che non sentivo mi appartenessero. Furono i primi da cui mi allontanai. Claudia... Claudia mi lasciò. L'atmosfera tra di noi era diventata pesante, fatta solo di litigi, durante i quali lei non mancava di ricordarmi che ero un vigliacco, incapace di prendermi le mie responsabilità. Un bambino, insomma. Fu la successiva a lasciare la mia vita e dopo di lei tanti altri. Mi chiusi in me stesso, non sapendo dove andare a sbattere la testa. Continuai a lavorare come barista a Roma.
"E Bonnie?", mi interruppe Elena, posandosi subito una mano sulla bocca, come se si fosse fatta sfuggire quella domanda.
Le sorrisi, prendendo quella mano tra le mie, e continuai a raccontare. Ero giusto arrivato a quel momento. Bonnie la conobbi quello stesso autunno. Entrò nel bar ed ordinò un caffè, con un tono piuttosto scorbutico, che non mancai di farle notare. Lei, per tutta risposta, mi rivolse una semplice occhiata inteneritrice. Sembrava non essere la giornata giusta per lei. Be' non era nemmeno l'anno giusto per me, ma mi sforzavo comunque di essere cortese. Si presentò al bar ogni giorno, quella settimana, sempre alla stessa ora, sempre durante il mio turno. Fu un modo strano per iniziare un'amicizia, facendole pagare il caffè qualche centesimo in più vista la sua aria perennemente irascibile, ma iniziò. E fu una delle persone migliori che potessi incontrare nella mia vita. Fu lei a spingermi a trasferirmi in America, per cambiare aria. Ne avevamo bisogno entrambi. Lei voleva scappare da un Paese che non riusciva a darle soddisfazioni, io volevo scappare e basta.
"E così facemmo", conclusi, alzando gli occhi verso Elena, che mi guardava con un sorriso compassionevole sul volto. Posò una mano sul mio ginocchio ed avvicinò il suo volto al mio. I suoi occhi luccicavano sotto quelle folte ciglia nere. Sfiorò il mio naso col suo, prima di stamparmi un bacio vicino alle labbra.
Non disse niente, si limitò a guardarmi e a sorridere, probabilmente grata del fatto che le avessi parlato di me. Il suo sorriso, prima dolce e appena accennato, si allargò e i suoi occhi si macchiarono di malizia.
"Quindi...mi canteresti una canzone?", mi chiese, sbattendo velocemente le ciglia con fare seducente.
Mi alzai di scatto, allontanandomi da quel corpo che gridava il mio nome.
"Subdola", mormorai a denti stretti, sempre col sorriso, mentre tornavo alla cena. Mi piaceva cucinare, era rilassante e mi allontanava dai brutti ricordi. Quella sera fu più facile del solito non pensarci, nonostante li avessi appena riportati a galla, complice anche la presenza di Elena, che mi osservava seduta sul solito sgabello. La spiavo con la coda dell'occhio: spostava il suo sguardo da me al quaderno che aveva davanti. Sembrava cercasse le parole... l'ispirazione. Tamburellava sul tavolo, come a scandire un ritmo.
Infornai la mia torta salata e mi voltai verso di lei, che in quel momento era totalmente presa dal suo quaderno. Mi avvicinai piano, in punta di piedi e finii alle sue spalle, per sbirciare cosa stesse scrivendo.
Riuscii a leggere appena quattro parole, sembravano il titolo di una canzone, prima che lei coprisse le pagine con mani e braccia, come una bambina.
Risi e lei mi fulminò con lo sguardo.
"Cantami quello che stai scrivendo", le chiesi, con tono quasi autoritario.
Scosse la testa e chiuse svelta il quaderno:"Magari un altro giorno...", disse, mentre si alzava, tenendo gli occhi bassi, imbarazzata.
La osservai mentre si allontanava per andare a prendere la sua borsa. Amava la musica, come me. Niente unisce come la musica. La sentivo sempre più vicina a me, sentivo il cuore riempirsi e quello era decisamente un bene per me. Non provavo alcun altro desiderio, se non per lei. Non sentivo niente, se non lei. Non volevo guardare niente, se non lei. Ero incantato. I suoi occhi mi disarmavano. Le sue labbra mi chiamavano. Provavo rispetto per lei. Infinito rispetto.
"Resta qui, stanotte", le dissi, non appena notai che stava indossando il cappotto.
Alzò lo sguardo al suono della mia voce, che sembrava quasi supplicarla, poi lo abbassò svelta:"Ian...", mormorò insicura. Mi avvicinai e le presi il viso tra le mani, per poterla guardare negli occhi. Quegli occhi sempre un po' macchiati di paura.
Le sorrisi, per infonderle fiducia. Doveva fidarsi di me, come aveva fatto la notte precedente. Accarezzai piano le sue guance con i pollici, erano rosse, un po' per il caldo, un po' per l'imbarazzo:"Voglio solo dormire con te, ancora", le dissi piano. "Resta".
Quell'ultima parola risuonò nella mia testa come un'eco. Volevo che restasse e non solo quella notte.

Il suono della sveglia arrivò penetrante alle mie orecchie. Grugnii. Era ancora troppo presto. Mi allungai per spegnerla, cercando di evadere dalla presa del braccio di Elena intorno al mio ventre. Spenta la sveglia, rimase il leggero brusio della radio che iniziava a dare le prime notizie del mattino. Tornai poi con la testa sul cuscino, poco sopra quella di Elena che, in quel momento, aveva iniziato stropicciarsi gli occhi e a mugugnare qualcosa, infastidita dal rumore della sveglia. Si strinse ancora di più a me, nascondendo il viso vicino alla mia spalla.
"Che ore sono?", biascicò, la voce ancora impastata dal sonno.
"Le sette", mormorai in risposta, sentendo gli occhi che continuavano ad appesantirsi.
Avevamo passato praticamente anche tutta quella notte a parlare, fuori nella terrazza, insieme a Bonnie, che le raccontò come andò il primo incontro tra di noi.
"Dobbiamo andare al Campus", disse dopo un po' Elena, sempre con gli occhi chiusi e la voce stanca.
Mugugnai qualcosa che doveva sembrare un sì, ma non mi mossi e lo stesso fece lei. Risi sommessamente di quella scena così patetica.
"Non ridere", continuò lei, dandomi un leggero colpetto sotto il mento.
"Sei molto divertente quando sei stordita", sussurrai, prima di stringerla a me e stamparle un innocente bacio a fior di labbra. Lei sorrise ed aprì piano gli occhi. Si stiracchiò e poi si tirò su a sedere.
"Forza Somerhalder!", esclamò, dandomi una pacca sul ventre. "Il lavoro ci chiama".
Sbuffai e mi alzai anche io, per poi ricadere a peso morto sul letto, facendo sobbalzare Elena. Lei si voltò e mi fulminò con lo sguardo, fallendo nel tentativo di non sorridermi, prima di prendere i vestiti che le aveva prestato Bonnie e dirigersi in bagno. Io occupai l'altro e in meno di dieci minuti ero in cucina davanti alla macchina del caffè. Tirai fuori dei biscotti dalla dispensa e ne sistemai alcuni su un piattino. Preparai due cappuccini e li sistemai sul ripiano, nello stesso istante in cui Elena fece il suo ingresso nella stanza, con indosso una delle magliette di David Bowie di Bonnie.
Le sorrisi, mentre si sedeva accanto a me e prendeva tra le mani la tazza. Erano mesi che l'immaginavo seduta lì, a guardarmi e a sorridere. E adesso che c'era, non potevo che sentirmi pieno, felice, realizzato. Potevo guardarla davvero, con gli occhi non di chi apprezza, ma di chi ama. Sì, perché quel che provavo per lei era di più, più di qualsiasi cosa potesse venirmi in mente.
"Ti sta bene", le dissi, indicando la t-shirt.
Lei arrossì e nascose il viso tra i capelli, imbarazzata. Sollevò un poco le spalle e si sistemò meglio sulla sedia, come se quel semplice complimento l'avesse destabilizzata. Finimmo svelti la nostra colazione e, silenziosamente per non rischiare di svegliare Bonnie, salii al piano di sopra per prendere i libri. Elena mi avrebbe aspettato al piano di sotto, offrendosi di sistemare quel poco disordine che avevamo creato in cucina. Feci per prendere i libri e gli appunti, ma l'occhio mi cadde sul libro di letteratura inglese, l'unico aperto sulla scrivania. Aperto ad una pagina ben precisa. Corrugai la fronte, io non avevo mai studiato quel capitolo, quindi tantomeno avevo fatto i segni a matita che avevano catturato la mia attenzione.
Lessi velocemente le poche righe di poesia, che mi erano state indicate, scritte da Elizabeth Barrett Browing.
"Se devi amarmi, per null'altro sia
se non che per amore.
Mai non dire:
t'amo per il sorriso,
per lo sguardo,
la gentilezza del parlare,
il modo di pensare così conforme al mio,
che mi rese sereno un giorno.
Queste son tutte cose
che possono mutare, amato,
in sé o per te, un amore
così sorto potrebbe poi morire.
E non amarmi per pietà di lacrime
che bagnino il mio volto.
Può scordare il pianto chi ebbe a lungo
il tuo conforto,
e perderti.
Soltanto per amore amami e per
sempre, per l'eternità".
Restai interdetto per un attimo, davanti a quelle parole. Rispecchiavano in tutto e per tutto Elena. Sorrisi e, tenendo un segno su quella pagina, richiusi il libro.

Elena's pov
La mia giornata era iniziata col piede giusto, nonostante la stanchezza, ma quella venne alleviata nell'arco della mattinata con i miei soliti caffè. Non potevo davvero farne a meno, come, in quel momento, non potevo fare a meno della presenza di Ian per affrontare quell'inconsueto vuoto in caffetteria. Si era seduto davanti a me, al bancone, ed io lo aiutavo a studiare per un esame imminente. I pochi occhi presenti in sala mensa erano puntati su di noi e sorridevano, per mascherare lo stupore. Ian aveva fatto il suo ingresso nel Campus tenendo stretta la mia mano. Quel gesto non creò parecchio scalpore, tutti sapevano che eravamo diventati buoni amici. Nonostante non fosse un comportamento da Somerhalder, ormai un po' tutti ci avevano fatto l'abitudine. Qualche sospetto probabilmente lo destò il fatto che indossavo la felpa della squadra, ma non tutti ci fecero particolarmente caso. Il motivo del tanto stupore intorno a noi, fu causato proprio da Ian. Quella mattina, appena ebbi un momento libero, andai al campo per assistere all'allenamento. Arrivai poco prima che terminasse. Prima di Ian, si accorsero della mia presenza alcuni suoi compagni si squadra, tra cui Paul, che mi salutò con un semplice gesto della mano ed un sorriso forzato. Fu Nick, un ragazzo esageratamente alto, dai folti riccioli neri e la pelle olivastra, a destare Ian, esclamando il mio nome in segno di saluto. Ricambiai svelta il suo saluto, oltrepassando il cancelletto in ferro. Era uno dei migliori amici di Ian, avevo avuto occasione di conoscerlo una delle tante volte che avevamo studiato insieme. Un ragazzo simpatico e alla mano, sempre col sorriso sulle labbra. L'anima della festa, insomma. Ian mi aveva da poco confessato che era letteralmente perso per Caroline. Prima o poi, avrei dovuto fare qualcosa per combinare loro un incontro. Caroline stava già iniziando a guardarsi intorno, dopo la rottura con Matt, e avrei scommesso di tutto sul fatto che qualche scappatella con qualche suo amico di Malibù non fosse mancata.
Non appena Ian si accorse di me, mi rivolse un sorriso a trentadue denti. Si sistemò meglio che poté e mi venne incontro. Ero preparata ad uno dei suoi soliti gesti, così gli porsi la guancia destra per far sì che vi posasse le sue labbra. Ma tutte le mie aspettative vennero ridotte in frantumi, quando afferrò con delicatezza il mio mento con una mano e mi lasciò un bacio, non proprio svelto ed innocente, sulle labbra. Tutto ciò non passò inosservato agli occhi dei suoi compagni di squadra, che fecero partire un coro di fischi e gridolini. Tutti men che Paul che, alzando gli occhi al cielo, ci superò velocemente per uscire dal campo.
Probabilmente, in quel momento, la voce stava girando per tutto il Campus e, presto, avremmo avuto molti più occhi puntati addosso. Ian Somerhalder con quella che poteva essere definita a tutti gli effetti la sua ragazza, non era una notizia da tutti i giorni.
"Detesto questa roba!", esclamò improvvisamente Ian, facendomi sobbalzare.
Gli sorrisi comprensiva, mentre chiudeva i libri e li metteva nello zaino, prima di portarselo sulle spalle. Fece il giro del bancone, sotto il mio sguardo curioso, e venne a pochi centimetri da me, che tenevo in mano il suo caffè da portar via. Mi sorrise e, posando una mano sui miei fianchi per avvicinarmi a lui, mi diede un veloce bacio.
"Cerco un posto più silenzioso", mormorò sulle mie labbra. "A più tardi".
Lo osservai uscire dalla sala, ignorando tutti gli altri sguardi posati su di me, e, dentro di me, sperai che il tempo che ci separava passasse il più velocemente possibile.

"Adoro il roast beef di Bonnie!", esclamai sazia, lanciandomi di peso sul letto di Ian, mentre lui se la rideva sotto i baffi. Ero talmente presa dai miei pensieri su quella cena deliziosa, che non mi accorsi che Ian continuava a fissarmi con insistenza e con uno strano sorriso sulle labbra. Sembrava volesse dirmi qualcosa, ma rimase in silenzio. Mi alzai dal letto e gli andai incontro.
"A cosa pensi?", gli chiesi, facendo girare le mie braccia intorno al suo collo.
I suoi occhi non si staccarono dai miei, neanche per un secondo, quando parlò:"Sai... sto cominciando ad apprezzare le figure femminili della letteratura inglese".
Lo guardai stupita e sorrisi, allontanandomi di poco:"Davvero?".
Continuò a guardarmi, con quel sorriso che mi faceva tremare le ginocchia.
"Una certa Elizabeth Barrett Browing mi ha fatto ricredere", sussurrò con voce suadente, mentre mi riavvicinava a sé. Le sue parole mi paralizzarono per qualche secondo, prima di farmi aprire in un sorriso radioso. L'aveva letta. Le sue braccia circondavano i miei fianchi, facendo aderire il mio corpo al suo, mentre le mie mani giocherellavano con la catenina che portava al collo. Stavo per replicare, quando lui parlò ancora, lasciandomi davvero senza parole.
"Voglio fare l'amore con te, Elena"

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro