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18. Un clandestino a bordo

Era passata un'ora, da quando il vecchio imperatore era morto.

Nessuno aveva osato trasferire il suo corpo, per non sottrarlo ai figli che erano rimasti soli al suo capezzale.

Solo Mida era rimasto con loro.

Yan si era andato ad occupare dei feriti, che erano molti ed avevano bisogno di cure immediate.

L'infermeria della nave ribelle era sovraffollata. Qui, Yan aveva trovato numerosi aiutanti, e si era messo al lavoro.

Avrebbe voluto curare anche le ferite di Adalwin, di Evander e di Mida, ma non aveva osato interrompere il loro cordoglio. Tuttavia, si era ripromesso di andare da loro il prima possibile: soprattutto Adalwin necessitava di cure e i bendaggi improvvisati che gli aveva fatto appena salito sull'aeronave potevano tenere ancora poco.

Nel frattempo, Allen e Kaleb erano andati a ringraziare il capitano dell'aeronave e a dargli manforte per uscire da Edresia senza danni sotto il fuoco nemico. Non era affatto facile, atterrare o decollare sul pianeta rosso: la polvere rendeva quasi nulla la visualità. Kaleb, il più esperto in materia, pensò che l'unico posto dove poteva rendersi utile fosse la plancia, e vi si recò per scoprire che il capitano non aveva alcuna intenzione di farsi aiutare da lui. Il capitano si muoveva freneticamente per tutta la cabina di pilotaggio dando ordini a destra e a manca in un linguaggio tutto suo, che lui non riusciva a comprendere. Kaleb era sconcertato da quanto le cose fossero diverse su quella nave ribelle rispetto alle navi imperiali di Tridia.

Cassian era andato con loro, per incontrare i monaci che credeva fossero a capo di quella spedizione di salvataggio, ma non aveva incontrato nessuno dei monaci superiori. Cercava con gli occhi Lady Rowena o Lady Medora, ma non riusciva a vederle.

Jayden, dal canto suo, era stata fatta allontanare dal capezzale dell'imperatore contro la sua volontà proprio da Lady Medora, che desiderava parlarle urgentemente e in privato. Jayden avrebbe voluto rimanere a fianco a Evander e a Zora, per confortarli del loro lutto, ma non poté non accettare la richiesta della monaca superiore.

Dopo circa un'ora, Adalwin comprese che le forze gli venivano a mancare e che, se non si fosse recato subito in infermeria, poi non sarebbe più riuscito ad andarvi con le sue gambe. Si alzò con grande fatica, con la testa che gli girava e la vista annebbiata, reggendosi al muro: «Vado dal capitano, e poi... in infermeria».

Mida seguì il suo esempio e, barcollando, si alzò in piedi, ma, con un tono severo che non ammetteva repliche, gli ordinò: «Adalwin, non andrete da nessun capitano. Faremo venire il capitano da voi, se la cosa vi preme tanto. Andiamo dritti in infiermeria, tutti e due!».

Adalwin si rimise al parere del medico. Annuì rassegnato e seguì Mida.

Evander e Zora rimasero da soli.

Zora aveva smesso di piangere. Dopo un po', si staccò debolmente dall'abbraccio di Evander per guardarlo negli occhi, mormorando: «Se ne è andato troppo in fretta: abbiamo appena fatto in tempo a ritrovarlo, per perderlo di nuovo. E per sempre».

Evander annuì e non rispose.

«Ma io non dovrei venire a dire questo a te: io ho avuto la fortuna di vivere con lui quando ero bambina e di ricordarmi molti giorni felici al suo fianco. Mi dispiace che tu abbia avuto così poco tempo da passare con lui».

«Almeno, lo ho avuto».

«É la seconda volta che piango la sua morte, ma, almeno, questa volta, so che è morto felice: felice di aver ritrovato il figlio che aveva perduto».

«Ho potuto chiamarlo padre almeno una volta, prima che morisse».

«Hai sofferto molto, nella tua vita, Evander. Mi dispiace tanto».

«Sai, è la seconda volta che un uomo che chiamo 'padre' muore fra le mie braccia guardandomi negli occhi».

«Il tuo patrigno?! Oh, Evander...!».

«Ma non dispiacertene, Zora. Così almeno ricorderò per sempre le loro ultime parole».

«Quali furono le ultime parole del tuo patrigno?».

«È passato molto tempo: avevo quindici anni. Fu il giorno prima dell'esame di Tridia, ma lo ricordo come fosse ieri. Mi aveva appena rivelato la mia vera identità, sulla quale io non avevo mai voluto aprire gli occhi e che, anche in quel momento, continuavo a rifiutare. Ma lui voleva che glielo promettessi. Che gli promettessi che mi sarei ripreso il trono ed avrei liberato il mondo dal dominio degli endar. Mi disse: "Promettimelo, Evander! Lascia che io muoia in pace"».

«Stai facendo del tuo meglio, per mantenere quella promessa. Il tuo patrigno sarebbe fiero di te, se potesse vederti adesso. E nostro padre... Le sue ultime parole sono state proprio queste: "Sono fiero di voi"». Dopo qualche secondo di silenzio, lo guardò negli occhi sorridendo amaramente e aggiunse: «Evander, ho perso mio padre, ma ho trovato mio fratello. Un grande dolore ed una grande felicità in qualche modo si compensano».

Evander, sorpreso da quelle parole, la ringraziò tacitamente.

Lei aggiunse: «Ma voglio che tu sappia che per me lo sei sempre stato. Ti ho sempre voluto bene come ad un fratello e sono sempre stata fiera di te anche quando eravamo all'accademia».

«Grazie, Zora, questo conta molto per me. Io... avrei voluto dirtelo sin dal primo giorno che ti ho incontrata... Avrei voluto venire da te e dirti tutto. Avrei dovuto farlo, ma non ne ho avuto il coraggio. Spero che troverai il modo di perdonarmi, per averti mentito fino ad oggi».

«Non ho nulla da perdonarti, Evander. Non ti porto alcun rancore per non avermi rivelato il tuo segreto. Hai agito come ritenevi giusto. Ma...sì, avrei preferito che tu ti fossi rivelato almeno a me e a Jayden. Non per noi, ma per te: avrei voluto che tu ti fossi lasciato aiutare da noi. Sei sempre stato convinto di dover portare il peso dell'impero da solo, ma non è così. Tu non sei solo. Forse lo sei stato, in passato, ma ora non lo sei più».

Evander non rispose subito. Quelle parole lo avevano commosso e, per quanto si fosse sforzato di trattenere le lacrime, alcune sgorgavano ribelli dai suoi occhi e, suo malgrado, incominciò a sentirsi meglio. Si sentiva sollevato di un peso, più leggero.

«Ho sempre creduto...» fece una pausa, per cercare le parole: «Ho sempre creduto di essere solo: solo con il mio segreto, solo con il mio destino e con il mio dolore. Sei la prima persona che mi abbia fatto sentire quanto avessi torto. Ti ringrazio, Zora».

I due fratelli rimasero ancora un momento in silenzio, poi Zora si alzò e disse: «Andrò dal capitano per organizzare... il funerale di nostro padre».

Evander annuì.

Dopo una mezz'ora il corpo dell'imperatore era stato portato via per preparalo per il funerale, che si sarebbe tenuto quella sera stessa.

Evander pensò fosse giunto il momento di medicare la ferita al braccio destro.

Si recò lentamente in infermeria, lasciandosi stupire dal design selvaggio ed arretrato della nave che era venuta in loro soccorso e della quale non aveva ancora conosciuto il capitano.

Non restava che attendere il suo arrivo in infermeria, facendosi medicare il braccio.

Aveva ricevuto istruzioni per raggiungerla da un membro dell'equipaggio che, mentre gli spiegava la strada, lo guardava con occhi sgranati come stesse parlando ad Yvnhal o Vlastamir in persona.

Evander aveva cercato di non farvi caso, ma quello sguardo lo aveva demoralizzato: il popolo non lo conosceva, se non come End Zadok, La Fenice o il successore del capitano degli Endar.

Mentre svoltava l'angolo dietro il quale gli era stato detto trovarsi l'infermeria, Evander si fermò, sorpreso dalle parole che sentì. Riconobbe la voce di Mida che, in tono acceso, esclamava: «Ma lui ha il diritto di sapere!».

E, mentre si interrogava silenziosamente su cosa avesse agitato a tal punto il medico endar, Evander sentì la voce di Jayden che, determinata, ma rotta dalle lacrime, rispondeva: «Lasciate che sia io a deciderlo, Mida».

Preoccupato da quelle lacrime, Evander svoltò l'angolo, per raggiungerla. Nel vederlo, i due si irrigidirono e tacquero all'istante.

Evander non se ne curò, esclamando invece: «Jayden, qualcosa non va?! Stai bene?».

Jayden si asciugò velocemente le lacrime, e gli rispose freddamente: «Sì, principe, sto benissimo, grazie».

Evander, ferito da quel tono e da quell'epiteto, tacque. Ricordò la lite della sera precedente, e pensò che Jayden fosse ancora arrabbiata con lui. Si trattenne dal farle altre domande: voleva lasciarle il tempo di accettare la sua identità di Alekym.

Lei gli passò accanto veloce, per superarlo ed allontanarsi lungo lo stretto corridoio. Ma, prima di svoltare per quell'angolo dal quale era venuto Evander, si girò e, con tono più basso, gli disse: «Sono molto addolorata, per la tua perdita, Evander».

Poi, se ne andò.

Evander stette un momento a guardarla, immobile e muto, poi si girò lentamente verso Mida. Una parte di lui voleva chiedergli spiegazioni e negli occhi del medico leggeva che anch'egli era ansioso di dargliene.

Aprì bocca per fargli la domanda che gli bruciava sulla punta della lingua, ma tacque.

Voleva rispettare la decisione di Jayden: se lei voleva avere dei segreti, la cosa lo feriva, ma non era certo lui a poter scagliare la prima pietra. Dopo tutte le volte che le aveva mentito, o che le aveva omesso la verità, aveva perso il diritto di pretendere sincerità e schiettezza da parte sua.

Chiese soltanto: «Mida, mi assicurate che, qualsiasi cosa Jayden voglia tenermi nascosta, non si tratta di problemi di salute?».

«Jayden è in ottima salute, ma...!» disse Mida, in fretta, quasi volesse dirgli tutto prima che Evander potesse farlo tacere.

Ma quest'ultimo gli fece segno di non dire altro: «No Mida, se Jayden ha deciso di non dirmelo, io non voglio saperlo».

Mida volle obiettare, con evidente disapprovazione: «Ciò che Jayden vi nasconde non è un segreto suo: interessa da vicino anche voi!».

«Non importa, mi affido a lei, come lei si è affidata a me».

«Sono i segreti che voi le avete taciuto ad avervi tenuti lontani: volete che ora i segreti di Jayden vi allontanino di nuovo?!».

«Mida, io e Jayden siamo lontani anche adesso. I miei segreti ci hanno allontanati e continuano a farlo. Non saranno di certo i suoi a peggiorare le cose. Quale segreto può nascondermi peggiore di quello che io le ho tenuto nascosto sin dal primo giorno che ci siamo conosciuti?».

Mida parve voler ribattere, ma poi, con un gesto brusco della mano, esclamò: «Ah, lo avete voluto voi, Evander! Vi meritate a vicenda, nella vostra cocciutaggine!».

Evander sorrise, divertito da quello scatto di rabbia del medico. Poi, gli chiese: «Come sta la vostra gamba, Mida?».

«La mia gamba sta bene! E dovrei essere io a chiedervi come sta il vostro braccio, non voi a chiedermi della mia gamba! Quando pensavate di fare un salto a farvi medicare? È una brutta ferita! Volevate perdere l'uso del braccio? Sarebbe stata una vera stupidaggine da parte vostra, soprattutto ora che ci aspettano così tante guerre: perdere la vostra valenza in battaglia sarebbe davvero un peccato!».

Evander entrò in infermeria, sottoponendosi alle cure di Mida che non voleva perdere neppure un altro minuto per mettersi all'opera.

Per tutto il tempo in cui gli medicò la ferita e la fasciò, Mida, ancora arrabbiato, non smise mai di parlare.

Evander comprese che c'era un motivo più forte dietro quella rabbia e quella improvvisa parlantina: Mida non poteva perdonarsi di non essere riuscito a salvare l'imperatore.

«Anche Adalwin è stato proprio uno sciocco a non venire prima! E, se non lo trascinavo io in infermeria, se ne andava in giro perdendo sangue per tutta la plancia alla ricerca del suo capitano! Possibile che nella nostra famiglia non ce ne sia uno, che prenda a cuore la propria vita? Eccetto Vlastamir, naturalmente, ma io non lo considero più parte della famiglia da molto tempo. Quasi mi stupisce che Zora non si sia procurata una ferita da sola, pur di andarsene in giro invece di farsi medicare! Come posso starvi dietro, a tutti voi, e salvarvi la vita, se voi vi ostinate a buttarla al vento? Come pensate che possa mantenere fede alla promessa che ho fatto a vostra madre, che avrei vegliato su di voi fino all'ultimo? E ora anche l'imperatore...ha voluto camminare! Si è alzato e...! E si è messo a camminare!».

Mida tacque.

«Mida, non è stata colpa vostra. Voi avete fatto tutto quello che potevate».

Mida annuì senza convinzione, e riprese a parlare.

«Certo, che quest'infermeria è alquanto sfornita! Mi sembra di essere tornato all'età della pietra! Sono dei selvaggi, questi monaci. E pensare, invece, che sono così avanti in tutto ciò che non riguarda la tecnologia!».

In quel momento, Yan comparve dalla porta: «Allora, il nostro principe ha deciso finalmente di venire a farsi fasciare il braccio?!».

Mida gli batté una mano sulla spalla, in segno di approvazione: «Esattamente! Diteglielo anche voi, visto che a me non mi ascolta!».

Evander rise di quella situazione: «Ben due medici tutti per me a farmi la paternale! Non avete altro di meglio da fare?!».

Yan sorrise, mentre Mida finse di offendersi: «Perché ridete, principe? É una cosa seria».

Tuttavia, si unì alla sua risata, scaricando così la tensione di quella giornata.

Evander però non si concesse molto tempo prima di tornar serio.

Mutò espressione e chiese:

«Yan, quanti feriti abbiamo a bordo?».

«Quarantacinque, di cui tre gravi, trenta di media gravità, gli altri leggeri».

«E i morti?».

«Non so farne una stima: i corpi degli endar che sono morti combattendo per noi sono rimasti sul campo. Ma Goryn è uno di loro e anche due degli arcieri del tuo amico Reymond».

«Quanti endar abbiamo a bordo?».

«Sono circa duecento, forse un po' di più».

Evander lo guardò senza rispondere. Non sapeva se essere felice di quel numero alto per le aspettative o essere demoralizzato da quel numero basso rispetto alle speranze. Abbassò gli occhi sul braccio appenabfasciato: era umano, dopotutto. Aveva commesso molti errori, e ne avrebbe commesso altrettanti. Quella guerra era più grande di lui, ma, nonostante la paura ed il senso di inadeguatezza, doveva farsi forza e mostrarsi sicuro e determinato, per dare coraggio e fiducia a tutti coloro che contavano su di lui e che lo consideravano come il loro salvatore.

Yan attese qualche secondo, prima di aggiungere:

«Li ho fatti iscrivere nell'albo dell'infermeria».

Evander annuì di nuovo.

«Vuoi che te lo porti?».

«Sì, grazie, Yan. Voglio parlare a tu per tu con ognuno di loro. Non voglio avere nessuna sorpresa».

Yan annuì ed uscì.

Evander lo guardò uscire perso nei suoi pensieri. Prima che tornasse, con un po' di reticenza, chiese: «Mida...»

Non voleva dare voce a quella speranza.

«Sì, Evander?».

«Credete che anche altri abbiano subito una crisi di coscienza, ma non siano riusciti a passare dalla nostra parte altrettanto tempestivamente?» chiese infine.

Mida annuì, pensieroso, come registrando quella domanda per dargli una risposta in futuro.

Evander lo guardò con insistenza: aveva paura che quel silenzio nascondesse una risposta negativa.

Mida non distolse gli occhi dal tatuaggio di Evander che finalmente appariva alla luce senza bisogno di essere nascosto.

«Non è da escludere» disse infine.

Evander intuì che Mida non ci contava. Rimase in silenzio finché Yan non fu di ritorno con il registro.

Yannon arrivò solo: Adalwin, Zora, Reymond, Kaleb, Vork, Allen, Cassian, Logan e Khan erano dietro di lui e non vollero attendere fuori. Venivano a chiedergli come stava e a fargli le condoglianze.

L'ultimo a parlare fu Vork che, inchinandosi, disse: «Sono fiero di aver combattuto al vostro fianco, mio imperatore. Oso chiedere il vostro perdono per non aver voluto obbedire al vostro ordine di mettermi a difesa dell'imperatore vostro padre».

Nell'ascoltarlo, Evander sussultò: Vork lo aveva chiamato "mio imperatore", e questo lo mise in agitazione.

Quell'epiteto gli ricordava il suo dolore e la sua responsabilità tutte in una volta.

«Vork, vi prego...» disse, senza guardarlo. «Io non sono il vostro imperatore».

Vork lo guardò con aria interrogativa, spiazzato.

Adalwin cercò di far passare inosservato quel momento di debolezza di Evander, dicendo: «È presto per accettare la morte di nostro padre. Per ora, Evander non è il nostro imperatore, ma presto lo sarà».

Evander non confermò e non negò neppure le parole di suo fratello. Questo era quello che si aspettavano da lui, e lui doveva stare al gioco, come aveva sempre fatto anche quando aveva creduto di essere libero di scegliere del proprio destino.

Poiché Mida aveva terminato il suo lavoro, Evander si alzò in piedi, attirandosi le sue occhiate di disapprovazione, e prese la camicia per coprirsi: per coprire quel tatuaggio argento che odiava in quelmomento più di quanto l'avesse odiato in passato. Cercò di non far notare la fitta di dolore che provò nello sforzare il braccio appena medicato nell'infilarlo nella manica della camicia. Era felice, dopotutto, di poter indossare quella camicia bianca, simbolo, almeno per lui, di essersi liberato del nero mantello degli endar.

Yan attese che si fosse allacciato la camicia, poi gli diede il registro con i nomi degli endar che erano a bordo.

Evander lo prese senza una parola. Dette una letta veloce a quei nomi e, poi, alzò lo sguardo su Yan, per ordinargli: «Voglio parlare con loro uno ad uno. Convocali in... ».

Ma non finì la frase. Qualcosa aveva attirato il suo interesse. Evander abbassò lo sguardo sul registro mutando espressione.

Adalwin, preoccupato, gli chiese: «Evander, cosa succede?».

Quest'ultimobnon rispose subito. Stava cercando di darsi una risposta per la presenza a bordo di un endar che mai avrebbe voluto avere al fianco in una battaglia.

Dopo un momento di silenzio, in cui tutti lo guardarono tesi e preoccupati, mormorò a denti stretti:

«Sept».

Quel nome fece l'effetto di un fulmine: tutti coloro che lo avevano conosciuto assunsero un'espressione preoccupata quanto Evander.

Yan, che non sapeva chi fosse, chiese: «Che cosa significa?».

«End Sept è a bordo di questa nave» disse Evander, come se questo gli dovesse far intuire ogni cosa.

«Davvero?!» esclamò Mida.

«É sul registro. È la sua firma» rispose Evander, continuando a fissarlo come se volesse leggere tra le lettere di quel nome ciò che non riusciva a comprendere.

«Come diavolo ha fatto a salire senza che nessuno di noi se ne accorgesse?!» chiese di nuovo Mida, sapendo benissimo la risposta.

Evander, con rabbia, mormorò: «Nella confusione della battaglia, non mi sono accorto neppure che vi occorreva aiuto per salvare mio padre... Come potevo accorgermi che End Sept stava tramando di salire a bordo? Quell'endar è veloce come un fulmine».

«É sicuramente una spia di Yvnhal» disse Vork.

«Che cosa ne facciamo?» chiese Adalwin.

«Dobbiamo gettarlo fuori bordo» rispose Mida.

«No» dichiarò Evander. «Voglio parlare con lui. Yan, convocalo con urgenza in infermeria».

Quella decisione sembrò riscuotere molta disapprovazione e nessun sostenitore.

«Evander, lo sai, che non può essere davvero dalla nostra!» disse Reymond.

«Il vostro arciere ha ragione, principe: End Sept è un viscido serpente che trova piacere solo nella violenza» aggiunse Cassian.

«Capitano, End Sept non è uomo da cambiare natura. È un endar, e tale rimarrà per sempre» disse Logan.

«Eun endar della peggior specie» aggiunse Vork. «Capitano, preferirei mille volte avere Yvnhal alle spalle, piuttosto che End Sept».

«Non fidatevi di lui, Evander: conosco la sua mente contorta e perversa. Lo ho più volte sottoposto a cure per attenuare la sua ferocia e impedirgli di abusare del potere degli endar» disse Mida.

Ma Evander sapeva bene che tipo di uomo era End Sept. Fece segno agli altri di tacere: nella loro preoccupazione, avevano parlato tutti contemporaneamente.

Quando tacquero, a denti stretti per la rabbia repressa che aveva nei suoi confronti, disse: «Credete che non lo sappia? Fra me e il serpente bianco non corre affatto buon sangue, potete starne certi. Nessuno più di me in questa stanza conosce fino in fondo l'anima nera di quel viscido albino».

«E allora perché...?!» chiese Mida.

«Perché voglio essere clemente e salvargli la vita? No, non lo faccio per clemenza. Ma, per quanto l'idea di averlo al mio fianco mi ripugni, non posso gettarlo fuori bordo».

«Non capisco...».

«Voi sapete quale reazione a catena potrei innescare fra gli endar che mi hanno dato fiducia rischiando la loro vita per me, se facessi gettare fuori bordo uno di loro per il solo sospetto che mi stia tradendo? Non posso farlo».

Nessuno osò ribattere a quelle parole troppo logiche.

«Tuttavia,» aggiunse Evander: «Intendo tenerlo costantemente d'occhio. Voglio vederlo subito, prima che possa causarci problemi».

«D'accordo, Evander, lo convocherò. Ma, se le cose stanno così, fa' molta attenzione».

«Voglio parlargli da solo. Vedendosi accerchiato, potrebbe mettersi sulla difensiva, mentre io voglio che dia libero sfogo alle sue armi di persuasione con me per capire cosa nasconde».

«La sua lingua è biforcuta e piena di veleno» disse Cassian: «Potrebbe riuscire a persuadervi di essere davvero dalla nostra parte, principe. Non gli credete, qualsiasi cosa esca dalle sue labbra!».

«Quanto a questo, non dovete temere. Non potrei mai credergli se dovesse inchinarsi a me e giurarmi fedeltà assoluta: quel serpente è sempre stato in competizione con me e mi ha dimostrato più volte quanto mio diasse. Il suo è un odio troppo manifesto per metterlo a tacere in modo convincente».

«Ma potrebbe essere salito a bordo al solo scopo di uccidervi, capitano!» disse End Vork.

«Che ci provi» disse Evander, «Quasi spero che lo faccia!».

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