26. Incontro col Passato
Jayden
Jayden riconosceva quel profumo.
Era il profumo di un sogno infranto.
Di un amore perduto.
Di un passato a lungo rimpianto.
Lentamente, chiudendo gli occhi e respirando a fondo, si volse a cercarne la fonte.
Il cuore le batté veloce, due lacrime le scesero sulle guance, il respiro le si bloccò.
Aprì gli occhi.
Il profilo di un uomo si stagliava contro il sole rosso di Edresia.
Il suo sguardo si perdeva in quel deserto che aveva il suo stesso colore.
Jayden non aveva alcun dubbio.
Era lui, l'uomo che amava.
Era Evander.
Ora che lo vedeva da vicino, riconosceva ogni tratto somatico.
Il volto di Evander era lì, sotto i tatuaggi tribali dell'endar, oltre quel taglio di capelli marziale e quegli occhi dalle iridi in fiamme.
Era più alto e più muscoloso, ma era lui.
Sì, non c'erano dubbi.
Quel corpo apparteneva a Evander, e le faceva ancora battere il cuore come se il tempo non fosse mai passato.
Come se le loro labbra fossero ancora unite, in quel bacio durato un attimo, dal quale Jayden si era staccata con rabbia, senza sapere che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe potuto parlare con lui. Quante volte aveva sognato quel momento. Quante.
Dopo sette anni, il caso aveva voluto farli rincontrare, alloggiandoli in due cabine attigue sul traghetto per Edresia: solamente un sottile divisorio separava i due balconi.
Erano così vicini che Jayden avrebbe potuto abbracciarlo.
E, per poco, non lo fece davvero.
Ma l'emozione la paralizzò.
Era talmente felice che non riusciva neppure a parlare.
Le lacrime erano sgorgate dai suoi occhi e, per la prima volta da anni, erano lacrime di felicità.
Scosse la testa, chiuse gli occhi e, quando li riaprì, lui era ancora lì, a meno di un metro da lei, e non la vedeva.
Avrebbe potuto rimanere così, a guardarlo per sempre.
Cercò di trarre un profondo respiro per calmarsi, ma l'emozione le impediva di respirare.
«Evander» mormorò.
L'uomo che aveva così chiamato, perso in chissà quali pensieri, fissava il deserto rosso di fronte a sé stringendo forte la balaustra.
A sentire la sua voce, si girò a guardarla, con uno scatto improvviso del capo.
«Evander! Tu sei tornato!» esclamò Jayden.
Ogni parola era interrotta da un singhiozzo. Scosse ancora la testa: «Non riesco a credere che stia accadendo veramente!».
Ma l'uomo la guardò con una sorpresa ed una perplessità così ben simulate, che per un momento Jayden credette che fosse un'allucinazione.
Si aggrappò al parapetto della nave con entrambe le mani.
«Evander, non mi riconosci?» esclamò, senza riuscire a smettere di sorridere di gioia: «Sono io, Jayden!».
«Scusate, signora, state parlando con me?» chiese l'uomo, che, a giudicare dall'espressione, sembrava piuttosto seccato dalla scena, e pareva prenderla per una pazza.
Ferita, Jayden chiuse gli occhi e scosse la testa, stringendo le mani al parapetto della nave. Cercò di calmare la rabbia, prese un respiro e, con gli occhi chiusi, fra i denti, disse: «Non farmi questo, Evander, non fingere di non riconoscermi! O ti giuro che mi getto da questo ponte immediatamente!».
L'uomo parve ancora più innervosito, ma rispose calmo: «Invece, vi prego di non farlo. Non voglio la morte di una donna sulla coscienza».
Di nuovo gli occhi di Jayden, colti da un lampo di comprensione, si bagnarono di lacrime, ma non più di felicità.
Dopo qualche istante, mormorò: «Evander! Mi fai morire così!».
«Signora, vi ho già detto che non voglio la vostra morte. Cosa volete da me? Perché vi ostinate a chiamarmi con quel nome? Vi dico che non sono io, l'uomo che cercate».
«Oh sì, che lo sei!» gridò Jayden con rabbia. «Tu sei Evander, io ti riconosco! E tu hai riconosciuto me, ma fingi di non ricordarti!».
«Voi dovete essere pazza» esclamò l'uomo con una mezza risata metallica. «Saprò ben io chi sono!».
«E chi siete, se non siete Evander? Chi siete?! Ditemelo!».
«Sono End Zadok, al servizio del capitano Yvnhal. Ed ora vi prego di piantarla con quest'inutile farsa, perché incominciate a mettere a dura prova la mia pazienza».
Jayden chiuse gli occhi e strinse le dita a pugno.
Poi ebbe un'illuminazione e sussurrò: «Ah, ma certo! Che stupida sono stata! Non sei solo, non è così? C'è qualcuno, con te: un altro endar!».
«Signora, sono solo nella mia cabina, e vorrei tornare ad esserlo, se non vi spiace. Dimenticherò quest'episodio, perché è chiaro che non siete in voi e che siete colta da qualche improvvisa follia. Ma non sono tenuto a sopportare oltre, vi prego di andarvene».
Jayden non rispose. Lo fissò.
Passarono lunghi secondi di silenzio.
Annuì.
«Voi non siete Evander» dichiarò, con voce sepolcrale.
L'uomo rimase in silenzio.
Senza staccare il suo sguardo affilato dagli occhi di End Zadok, Jayden riprese: «Evander è morto, e io non lo rivedrò mai più. Forse è meglio così».
«Vedo che state tornando in voi» disse End Zadok: «Bene, così non dovrò temere un atto di follia suicida da parte vostra. Ed ora addio, signora».
Jayden lo fissò in silenzio, con odio e disprezzo.
Zadok aspettò qualche istante, come pensieroso, poi, senza più guardarla, le diede le spalle e rientrò nella cabina, richiudendosi la porta dietro di sé.
Jayden vide il suo ampio mantello nero scomparire oltre la porta della cabina. Sulle spalle dell'endar una fenice ricamata in rosso ardeva tra le fiamme. Le ampie ali infuocate della fenice disegnavano un ovale, e si univano in alto, a sorreggere il dodecaedro argenteo di Triplania in equilibrio. La coda della fenice, le cui piume erano in realtà fiamme, disegnava un triangolo acuto, che sembrava nascere in un punto debole e sottile per poi esplodere con forza, aprendosi verso l'alto: sembrava una scintilla che faccia appena in tempo ad accendersi, per poi scomparire l'istante successivo.
Jayden rimase immobile, lo sguardo fisso, i muscoli tesi.
Quando si scosse, il cielo era ormai totalmente nero. Allora, una profonda disperazione si impadronì di lei, e si gettò a terra, senza più riuscire a piangere né a gridare.
***
Zadok
Il Monastero delle Dune sorgeva nel centro del deserto, dentro a quella grande bolla bianca che veniva chiamata "Oasi delle Cascate".
Era un'oasi fittissima di vegetazione, la più ricca e vasta oasi che potesse sorgere su tutta la superficie del pianeta. La tonalità dominante sulla terra era il verde e quella nel cielo il bianco, a differenza della città di Edresia, dove c'era un'unica tonalità per tutto: il rosso.
I due colori facevano risaltare la bellezza delle piante, delle cascate, dei laghetti che abbondavano in questo piccolo paradiso sperduto nel deserto.
A differenza degli altri monasteri, quello delle Dune non era un unico edificio isolato, ma, anzi, un caseggiato basso ed esteso circondato da case e piccoli mercati, con i quali comunicava direttamente.
Ovunque si girasse, Yvnhal non faceva che ripetere quanto tutto quel ben di dio fosse stato così platealmente rubato all'Impero e quanto fosse assolutamente fuori da ogni legge.
Il Monastero era un edificio largo e basso, totalmente bianco, molto grande, simile a un gigantesco igloo del deserto.
Era all'ombra di enormi arbusti di un'alta cascata che sgorgava da una roccia rossa. L'acqua, cadendo, si tingeva appena di rosso per la polvere delle rocce e del vento che, sebbene giungesse in quell'oasi filtrato e purificato dalle numerose piante, aveva ancora una leggera componente rossastra.
Zadok, Yvnhal ed End Sept vennero fatti entrare.
All'interno, i monaci, vestiti di bianco ed avvolti in splendidi turbanti e in scialli decorati, fecero su Zadok un effetto molto diverso dai monaci del pianeta Veradria, che vivevano nelle privazioni e nella scomodità. Quelli delle Dune sembravano più ricchi e più felici.
Quell'ostentata opulenza diede fastidio a Zadok: confermava ciò che sapeva già dei monaci e cioè che erano riusciti a prendere per sé una gran parte delle risorse prime restanti del pianeta.
Infatti, non solo i monaci, ma soprattutto le case, i mercati e la gente attorno al monastero apparivano prosperi e sereni. Non vi era un eccesso, in tutta quella ricchezza: era una ricchezza naturale, il giusto sfruttamento di quell'oasi che sembrava così generosa con i suoi abitanti.
Ma a Zadok appariva come un paradiso rubato.
I monaci in turbante furono molto ospitali. Tuttavia, non si mostrarono in alcun modo intimiditi alla vista del capitano degli endar e dalle sue intimazioni.
Non si sarebbero lasciati piegare in alcun modo, né si consideravano affatto dei fuorilegge, ma piuttosto difensori di una qualche moralità alternativa a quella degli endar, che non tentavano neppure di spiegar loro, quasi sapessero già in partenza che un endar non avrebbe mai potuto comprendere la loro serenità.
Nella loro civile dichiarazione di guerra, Zadok riscontrò anche una tacita dichiarazione di superiorità e un senso dell'onore che, seppure non riusciva a comprendere, non poteva far a meno di ammirare.
Ciò che più di ogni altra cosa lo sconvolse fu proprio quell'ospitalità così cordiale e cortese, nonostante tutto ciò che lui e Yvnhal avevano fatto negli ultimi mesi per gettare sui sei Monasteri ogni infamia possibile.
I tre endar vennero fatti accomodare su alcuni sofà decorati, di fronte a un buffet.
Il portavoce dei monaci, un giovane che era stato chiamato Silver per i capelli grigi nonostante l'etnia edresiana, disse loro senza mezzi termini: «Ci avete dichiarato guerra, aspettatevi un contrattacco».
Ma il modo in cui lo disse riempì Zadok di una cocente umiliazione perché quelle parole pronunciate con quel tono significavano: «I vostri attacchi sono vili e degni di voi, i nostri contrattacchi saranno degni d'onore perché noi, a differenza degli endar, sappiamo cosa vuol dire combattere rispettando il nemico e non coinvolgere i civili innocenti».
Uscendo da quel luogo così sfarzoso e semplice al tempo stesso, Zadok pensò che quei monaci avrebbero dovuto pagare, per quello che avevano preso con la forza all'Impero.
«Capitano, perché secondo voi ci hanno accolto così bene? Dopo tutto... siamo in guerra».
Yvnhal non si scompose: «La falsità dei monaci col turbante è nota a tutti, Zadok. Quella gente è tutta sorrisi e strette di mano, ma, appena gli dai le spalle, si vendicano con la più nera crudeltà. Dobbiamo aspettarci colpi molto bassi, dalla loro parte».
Zadok si lasciò convincere.
Era stanco di quel viaggio: ne aveva abbastanza di monaci e di monasteri, e non sopportava di incontrare gente che sembrava conoscerlo meglio di quanto lui conoscesse sé stesso.
La donna che aveva pianto per lui sul traghetto lo aveva infastidito più ancora di quanto non avessero già fatto la monaca delle acque che lo aveva adorato come un dio, il sommo monaco delle aquile che aveva predetto la sua morte, la monaca delle cave che aveva detto di conoscere tutto di lui, o la monaca delle fiamme che gli aveva rinfacciato un torto che lui non sapeva d'aver commesso nei suoi confronti.
Ora, Zadok voleva solo rinchiudersi in una stanza buia e silenziosa, dove non avesse dovuto parlare con nessuno o sentir parlare nessuno.
Non vedeva l'ora di salire sul traghetto e chiudersi nella sua cabina.
Ma il suo desiderio venne frustrato.
Questa volta, tuttavia, fu colpa della natura: una forte tempesta di sabbia fece ritardare di qualche ora la partenza del traghetto. E, quando riuscirono finalmente a partire, il ponte era pieno di gente: tutti avevano preso il loro traghetto, perché era il primo a partire.
Zadok desiderava solamente andare nella sua cabina, ma Yvnhal ed End Sept lo trattennero sul ponte, dove, a quanto sembrava, avevano incontrato qualcuno che dovevano tenere sotto controllo per motivi di grande importanza per la sicurezza dell'Impero.
E, quando Zadok vide di chi si trattava, rimase sconcertato.
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