11. Il pianeta blu
Jayden non aveva mai visto gli alti alberi di cui leggeva nei suoi documentari; li conosceva attraverso dipinti, che nulla rendevano della loro imponenza naturale.
Era molto affezionata al suo paesaggio natio, ma sentiva l'eccitazione e la curiosità di vivere qualcosa di nuovo e sconosciuto.
Sapeva che si sarebbe sentita a casa, ovunque sarebbe andata.
Il deserto, l'oceano e lo Spazio avevano qualcosa in comune: l'immenso; ed era proprio questo qualcosa a farla sentire a casa. L'immenso non le faceva paura: l'inospitale, oscuro e vuoto Spazio era più vero, più vivo, più affascinante dei grandi centri urbani in cui la gente sembrava felice di affogare sé stessa fra piazze gremite di bancarelle.
L'accademia aeronavale non le avrebbe fatto venire nostalgia della sua città.
Aprì la porta di casa, che presto avrebbe varcato per non fare ritorno per tre anni e, con ogni speranza, anche di più.
Si ritrovò in una splendida piazza bianca, con una tettoia di pietre decorate turchesi, rosse e verde smeraldo.
Jayden uscì dai portici, e mise piede sul sabbioso terreno desertico. Ogni strada o piazza che collegava gli edifici abitati era delimitata ai lati da portici e coperta in alto da una tettoia decorata, per ripararsi dal cocente sole rosso. Per il loro caratteristico colore, esse venivano chiamate le Strade Bianche di Edresia. Al di fuori di esse, la città era immersa in una gigantesca nuvola di polvere rossa: tutto aveva un aspetto terroso e secco.
Jayden affondò il piede nella sabbia, ed alzò coraggiosamente gli occhi verso il cielo.
La luce intensa dell'alba desertica le feriva gli occhi: fu costretta a ripararsi con una mano.
Era stanca di quella luce rossastra e di quel paesaggio troppo familiare. Non voleva trascorrere lì anche quei pochi anni di libertà di cui poteva godere, perché, quando si fosse dovuta sposare, sarebbe tornata a vivere nella capitale e non avrebbe più avuto scampo dal rosso deserto per il resto della vita. Aveva bisogno di cambiare contesto: di sentirsi trapiantata in un paesaggio completamente straniero.
Jayden non si curò dei numerosi divieti, seminati ovunque appena fuori delle Strade Bianche. Quei cartelli gridavano a caratteri giganteschi: "Attenzione, non allontanarsi dalla città!".
Capiva quei divieti: se si fosse inoltrata troppo nel deserto, non l'avrebbero più ritrovata, dal momento che era impossibile vedere qualcosa in quella infinita massa di polvere. Se avesse perduto la strada, il ritorno a casa sarebbe stato un'utopia. Sin da quando era bambina, le era stato insegnato che lasciare le Strade Bianche di Edresia e porre piede sulla sabbia desertica era assolutamente vietato.
Ma, nonostante ciò, sentì il bisogno di infrangere quella regola, e di andare incontro a quel pericolo come se, per una volta in vita sua, fosse libera di decidere di sé stessa.
Fece qualche passo in direzione del nulla. Poteva vedere solo fino a qualche metro da lei, perché più oltre la nebbia era troppo fitta.
Improvvisamente, le parve di intravedere una grossa sagoma bianca prendere forma in quella nebbia rossa e diventare sempre più grande man mano che si avvicinava alla città. Probabilmente era il Traghetto del Deserto.
Quando il traghetto si fu avvicinato abbastanza, d'improvviso la nebbia si diradò ai suoi lati come il Mar Rosso di fronte a Mosé.
La gigantesca sagoma bianca divenne riconoscibile e ben visibile, come una lama che fende la gelatina di polvere. Jayden lo guardava affascinata dai ricordi che quella vista destava nella sua memoria. Presenziare all'arrivo o alla partenza del traghetto le faceva sempre un certo effetto: forse qualcuno giungeva dai confini remoti dell'impero dopo aver visto paesi e città che Jayden poteva solo immaginare.
Oppure era gente che se ne andava da
Edresia e partiva per esplorare lo Spazio. Proprio come avrebbe voluto fare anche Jayden, il prima possibile.
Era anche per questo, che aveva fatto domanda all'Accademia di Tridia.
Si credeva che l'Accademia avrebbe costituito la salvezza dell'Impero, ma Jayden sapeva che la situazione era ben più negativa di quello che si diceva: l'accademia aveva solamente tremila navi e, sebbene fossero tutte sparse per l'Universo in cerca di una
salvezza - eccetto alcune che servivano per gli addestramenti -,
ancora non avevano avuto la minima fortuna. Tremila navi erano troppo poche, e, per di più, l'accademia non aveva le risorse necessarie per esplorare l'immenso Spazio: ogni nave aveva un'autonomia di soli tre mesi, passati i quali doveva tornare a terra per fare rifornimento. In tre mesi non ci si poteva spingere abbastanza lontano da esplorare lo Spazio più esterno, e ormai lo Spazio confinante era conosciuto a menadito: non esisteva niente, tutto
era morto e sterile.
La vita era possibile solo su Amaria e su Veradria; e lo sarebbe stata ancora per poco. Le risorse prime bastavano ad assicurare la sopravvivenza di due-tre generazioni, ma dopo? Cosa avrebbero fatto i loro nipoti? Come avrebbero vissuto? Sarebbero sopravvissuti abbastanza da trovare la vita su un altro pianeta o sarebbero morti prima, per stenti e per fame?
Jayden sapeva la risposta: non avrebbero avuto materie prime sufficienti per spingersi più oltre di quanto non avessero già fatto le navi imperiali, e così sarebbero morti tutti.
Jayden voleva cambiare tutto questo, e donare un lungo, prospero e sereno futuro alla specie umana, che se lo meritasse oppure no.
In tutta Triplania c'era una sola accademia, ed era a Tridia, capitale del pianeta Veradria. Bisognava, infatti, che il monopolio delle navi spaziali fosse concentrato in un unico organo imperiale, per evitare sprechi che non ci si poteva permettere. Costruire nuove navi avrebbe richiesto materie prime che non si aveva.
E poiché l'accademia era una sola, le navi erano poche e la responsabilità era grande, i test di ingresso erano famosi per l'estrema difficoltà: per ciascun corso accademico c'era un numero massimo di iscritti, ed era un numero massimo molto ristretto.
Jayden aveva scelto il corso di Pilota Esploratore, ovvero uno di quelli in cui era più difficile entrare.
Si era preparata per quel corso da quando aveva undici anni, ma l'agitazione non è inversamente proporzionale al grado di preparazione. Anzi, proprio perché Jayden aveva speso una vita a prepararsi per quell'esame e perché aveva desiderato entrarvi da quando era piccola, l'agitazione era cresciuta negli anni fino a diventare insopportabile.
Tremava dalla punta dei piedi alla radice dei capelli. La cosa peggiore era il viaggio di circa dieci ore per raggiungere il pianeta Veradria, dove si trovava la città di Tridia. L'attesa era snervante, e l'ansia si moltiplicava di minuto in minuto.
Oltretutto, all'ansia del test d'ammissione, si aggiungeva l'eccitazione di scoprire un nuovo pianeta, Veradria, su cui era stata una sola volta, quando ancora non era abbastanza grande da memorizzare ciò che aveva visto e vissuto.
Veradria era blu, quanto Amaria era rossa. Era umida, quanto l'altra era arida. Era fredda, quanto l'altra era calda.
Il sole blu di Veradria aveva reso diafane ed argentate le carnagioni dei suoi popoli, mentre Amaria aveva arrossato ed abbronzato quelle dei suoi.
«Sono felice» disse suo padre, apparendole accanto senza che lei se ne accorgesse. «Sono felice, Jayden, che tu abbia fatto domanda all'accademia di Tridia».
Cassian si sentiva responsabile della libertà mutilata della figlia, perché era stato proprio lui a prometterla in sposa al futuro imperatore e, di conseguenza, a Vlastamir.
«Grazie papà, lo so» rispose Jayden.
Era impaziente di partire e detestava dovergli dire addio. Preferiva partire fingendo che lo avrebbe rivisto presto.
«Insegui il tuo sogno, Jayden! Con tutte le tue forze. E ricorda sempre il motto della famiglia dei Fang: "Il destino..."!».
«"Il destino non si piega alle regole degli uomini". Si, lo so» concluse lei, sorridendo per quella sua uscita tragico-epica.
Suo padre la fissò agitato per qualche secondo, trattenendo il respiro. Poi sospirò e disse: «Scrivimi, quando ti sarai ambientata».
«Certo che lo farò, ma è inutile fare piani: non ho ancora passato l'esame!».
Lui sorrise con indulgenza. Non aveva dubbi che sarebbe stata promossa.
Jayden non gli lasciò il tempo di esprimere a voce la sua fiducia, perché il suo desiderio di passare l'esame di ingresso era così forte che si sentiva un po' scaramantica. Lo salutò di nuovo, allegramente, e si diresse verso la metropolitana pubblica. Nonostante la sua nobiltà di nascita, era costretta a muoversi per la città con quel mezzo pubblico, come tutti gli abitanti di Edresia.
L'alternativa era ben peggiore: se lo avesse chiesto, le avrebbero certamente concesso un passaggio per le Strade Nere con la scorta di un endar, ma era l'ultima cosa che voleva.
In una mezz'oretta, si ritrovò di fronte alle porte della città, oltre le quali c'era il molo degli shuttle. Non aveva voluto nessuno, ad accompagnarla in quel tragitto.
Scesa dalla metropolitana, senza neppure accorgersi degli sguardi curiosi della gente, aveva fissato i suoi occhi sulle porte di spessa pietra bianca che si aprirono automaticamente di fronte a lei. Jayden era conosciuta in tutta la città, e non aveva alcun bisogno di un permesso per uscire od entrare dalle mura. Una volta fuori, si guardò attorno, in cerca dello shuttle, irriconoscibile in quella foschia rossa.
«Milady, se volete salire, è tutto pronto per la partenza. Allen Kilik è già a bordo che vi aspetta».
La voce della sua balia la fece sussultare, ma Jayden si voltò con un sorriso: «Grazie, Tatia!».
Tatia le mostrò la strada per lo shuttle e, quando furono di fronte all'entrata, fece una riverenza, in segno di saluto.
«Arrivederci, Tatia! Ci rivedremo fra tre anni!» disse Jayden con un sorriso, rispondendo a quel saluto.
«Arrivederci, milady. Buona fortuna».
Tatia si era sempre comportata con distacco nei suoi confronti, pur avendo fatto le veci di sua madre sin dal suo primo giorno di vita. Trattava Jayden come la futura imperatrice, non come una figlia. Come, d'altronde, faceva la gran parte dei suoi conoscenti.
Dopo aver dato il tempo alla sua vecchia balia di salutarla, salì in un balzo le scalette dello shuttle privato dei Fang.
Lo shuttle la avrebbe portata alla base spaziale, dalla quale sarebbe poi partita su un'astronave diretta a Tridia. Jayden non vedeva l'ora di mettere piede sulla sua prima astronave.
Entrata nel piccolo abitacolo scarsamente illuminato dello shuttle, improvvisamente si sentì in trappola. Le pareti erano metalliche e odoravano di chiuso. Le finestre erano poche e piccole, dai vetri spessi e le cortine pesanti. Tutto sapeva di antico, maltenuto e decadente. Quegli shuttle privati erano un'eredità del secolo passato, e ogni volta che vi entrava, le sembrava di tornare indietro nel tempo: in un tempo che non le ispirava alcuna allegria.
Ovunque volgesse il proprio sguardo, Jayden vedeva il simbolo dell'Impero.
Il vasto territorio su cui si estendeva il dominio dell'imperatore era simboleggiato da un dodecaedro, a volte semplificato in un cerchio, contenente al centro un triskell. Sia il triskell che il dodecaedro avevano piccole sfere ad ogni angolo, ma quelle del triskell erano di dimensioni doppie rispetto a quelle del dodecaedro. Le dodici sfere del dodecaedro erano la raffigurazione simbolica delle dodici galassie dell'Impero, mentre le tre sfere ai vertici del triskell raffiguravano i tre pianeti: Terra, Amaria e Veradria. I lati che collegavano ciascuna sfera all'altra rappresentavano linee di contatto o di scambio fra i diversi snodi imperiali, ovvero le linee lungo le quali il governo centrale poteva svolgere il proprio controllo su quel territorio immenso, in modo da mantenerlo unito in un tutt'uno.
Il simbolo non era mai stato modificato, da quando quegli shuttle erano stati costruiti, e questo ricordava a Jayden che in tutti quegli anni non si era ancora riusciti a trovare un altro pianeta da colonizzare. I pianeti abitabili erano rimasti due, senza contare la Terra, che era stata sfruttata ormai al punto limite ed evacuata da parecchi anni. Le galassie erano rimaste dodici, ma non tutti i pianeti in esse contenuti erano stati esplorati dalle navi imperiali.
«Eccoti, finalmente!» disse Allen, rimanendo stravaccato sulla piccola poltrona marrone, senza affatto andarle incontro, anche se erano più di due mesi che non si vedevano.
«Certo! Ne dubitavi, forse?» disse lei, con un'ironia in cui forse c'era una punta di malumore.
«Le donne non sono fatte per andar lontano, e certo non per lasciarsi tutto indietro» le disse l'amico.
«Che stupidaggini!».
Se c'era una cosa certa sul suo futuro più prossimo, pensò Jayden, era che il suo malumore non sarebbe migliorato affatto durante quel viaggio.
Sei ore e mezza rintanata nel ventre di un cubicolo di vecchio metallo marrone in compagnia di Allen!
Per rincuorarsi, si disse che quel cubicolo non era neanche lontanamente simile ai suoi nipoti - le astronavi spaziali -, e che Allen non sarebbe stato l'unico ragazzo che avrebbe frequentato nella sua nuova vita.
Oltre alle astronavi, il pensiero di vivere una vita normale, fra ragazzi normali, la esaltava infinitamente. Avrebbe incontrato la gente del popolo, e non più soltanto nobili e figli di nobili!
Avrebbe potuto avere amici veri, con cui parlare liberamente e di qualsiasi cosa, che non si sarebbero rivolti a lei come alla futura imperatrice, ma come ad una loro semplice compagna di accademia! Sarebbe stata una ragazza come tutte le altre. Una ragazza libera di scegliere chi essere nella vita.
A quel pensiero, la sua combattività si risvegliò e si presentò sotto forma di acido femminismo: «Le ragazze sono in grado di sopportare sacrifici dieci volte maggiori di quelli che schiacciano la volontà del più forte degli uomini. E presto, ne avrai la prova!».
Allen alzò le spalle. Annoiato, tamburellò con le dita sul vetro del finestrino ed esclamò: «Che noia! Ancora con questa storia! Lo sai che l'imperatore non sceglierà mai Vlastamir come suo successore, così tu non sarai mai costretta a sposarlo».
A che cosa le serviva essere tanto sfortunata, se non poteva neppure lamentarsene con il suo migliore amico?
Incrociando le braccia sul petto, stizzita, rispose: «L'imperatore è malato e presto morirà. Quando sarà morto, Vlastamir prenderà il suo posto, sia che sia stato nominato successore, sia che non lo sia stato. E quando Vlastamir sarà imperatore, io diventerò sua moglie. É un fatto».
«Sembra che tu te ne stia vantando».
Forse era vero, se ne vantava: come ci si vanta alcune volte delle proprie sventure quando le si crede più grandi di quelle degli altri. Ma, se se ne vantava, era solo perché in quel momento la sua mente era tutta presa da un altro pensiero, molto più piacevole, e molto più adatto ad una quindicenne. Se avesse davvero pensato ciò che diceva, non avrebbe mai avuto quel tono sereno.
«Non voglio parlare di questo» concluse. Poi, entusiasta, esclamò: «Domani i nostri sogni si realizzeranno!».
«I tuoi sogni, forse» mormorò Allen, smettendo di tamburellare, ma continuando a fissare il vetro: «I miei no di sicuro. Le mie ultime speranze di realizzarli sono finite nella spazzatura, dopo il Mese del Raccolto».
Jayden sentì che nella sua voce c'era davvero una nota di amarezza e ne fu sorpresa: Allen era sempre stato un ragazzo arrogante, irascibile, sicuro di sé e di ciò che voleva dalla vita. Aveva sempre preteso, più che sperare: ed aveva sempre ottenuto tutto ciò che diceva di aver voluto. Ma, in quel momento, gli parve triste e malinconico. Si sentì un po' in pena per lui: «Che cosa intendi dire? Quali sogni hai più grandi di quelli di entrare all'accademia?».
«Ne ho uno» rispose Allen, senza guardarla, con una falsa noncuranza a cui nessuno avrebbe creduto.
«Ah, vuoi fare il prezioso e non me lo vuoi dire, eh? Non è giusto: tu conosci il mio!» scherzò Jayden, per convincerlo a parlare.
«Beh, il tuo sogno non è mica un gran segreto! Lo sanno tutti. Hanno persino dato un ricevimento a corte per augurarti buona fortuna!» sbottò Allen, con il suo solito sangue caldo pronto a bollire. «E pensare che, quando io l'ho detto a mio nonno, mi ha riso in faccia e mi ha gridato che ero un buono a nulla».
Alcuni anziani consideravano ancora l'accademia come il posto giusto per coloro che non avevano doti: gli Esploratori erano come i contadini dello Spazio.
Ma così come la vita dell'uomo primitivo era stata possibile grazie agli agricoltori, la vita dell'uomo futuro sarebbe stata possibile grazie agli Esploratori.
La considerazione in cui era tenuta l'accademia aeronavale si era completamente ribaltata, rispetto al secolo precedente.
Ormai, persino Jayden, pur essendo figlia di Lord Fang, pur essendo promessa al futuro imperatore delle dodici galassie e pur essendo la "ragazza della profezia", poteva fare domanda all'accademia senza che questo venisse considerato sconveniente o degradante.
Nell'ultimo secolo, andare all'accademia era diventato il più grande onore dopo l'essere scelto per la strada dell'Endar.
Fra questi due destini, entrambi ricchi di prestigio e di fama, c'era una differenza sostanziale: per l'uno si poteva scegliere, per l'altro non ci si poteva neppure rifiutare. Jayden avrebbe dato la sua vita per entrare all'accademia, ma avrebbe preferito morire piuttosto che diventare Endar.
«Tuo nonno non voleva che tu seguissi le orme di tuo padre, Allen. É solo per questo, che ti ha detto quelle cose. Sarà costretto a rimangiarsele quando daranno il tuo nome al pianeta sul quale ci trasferiremo tra 300 anni!» disse Jayden, cercando di consolarlo.
«Jayden, là fuori non c'è niente!Abbiamo visitato milioni di pianeti senza trovare niente! La specie umana è finita. Rassegnati».
«Ma che dici?! Perché hai deciso di venire all'accademia, se pensi che non si possa fare più niente?!».
Jayden era offesa con lui per quel cinismo che raggelava il suo entusiasmo.
«Te l'ho detto, Jayden. Il mio sogno è tutt'altro che andare all'accademia!».
«Ma allora perché non insegui quello?!» gli gridò Jayden, stanca di sentirlo lamentarsi senza prendere alcuna decisione.
Allen attese un secondo. Poi sospirò:
«Perché io non posso inseguirlo, è lui che deve inseguire me».
A quelle parole, Jayden sentì un brivido scorrerle per la schiena.
«Che... che cosa vuoi dire?» chiese, sperando che la sua intuizione fosse errata.
«Che non posso scegliere quel destino, è lui che deve scegliere me» ripeté Allen, quasi con rabbia.
Lei lo guardò fisso, con occhi e bocca spalancati per l'orrore. Poi scattò in piedi, con qualche secondo di ritardo. Alla fine, ritrovando la voce, gridò:
«Non puoi essere serio!».
«E invece, lo sono».
«Non sai quello che dici!».
«No, sei tu che non lo sai!».
«Mi stai prendendo in giro, è così? Volevi farmi un brutto scherzo, vero?!» agganciandosi ad un'ultima speranza.
«No, è tutto vero. Voglio essere scelto».
«No» disse ancora lei, scuotendo la testa. Era incapace di dire altro.
«Voglio diventare un endar» ripeté Allen.
"Non è serio: Allen non è mai serio" si ripeteva Jayden. Ma capì che quella volta doveva esserlo, perché aveva negli occhi e nella voce un vago senso di paura, oltre la sua solita rabbia. Era tutto vero: Allen voleva davvero diventare endar.
Quella sua determinazione sconcertò Jayden e la fece ricadere, angosciata, sulla poltrona.
«Ma è... terribile!» mormorò.
«Beh, tanto non c'è rischio: la scelta non dipende da me. Sono loro che devono scegliere chi fare entrare. E ormai io ho già fatto entrambe le selezioni e non sono passato in nessuna delle due. Il mese scorso, ho ricevuto a casa i risultati della selezione dei quindici anni, e dicevano che "non avevano riscontrato nei miei esami le capacità che stanno cercando". Ormai non ho più speranza: nessuno è mai stato selezionato dopo aver compiuto quindici anni».
Jayden poteva leggere la delusione sul suo volto.
Non disse niente.
«Ne sei felice, è così?» le disse lui, con uno sguardo cattivo.
«Non posso non esserlo, Allen. L'addestramento endar ti cambia dentro, non ne esci mai uguale a prima... Avrei perso per sempre il mio migliore amico».
«Le donne non capiscono niente».
«Capiscono eccome! L'addestramento endar è un'esperienza angosciante e terribile. É come sottoporsi ad un lavaggio di cervello, dopo il quale non sei più te stesso, ma un mostro!».
Allen scoppiò a ridere.
«Lavaggio di cervello! Ma non farmi ridere, Jayden! Questa è davvero bella!».
«Non ridere, Allen! Io sono perfettamente seria. E so bene cosa dico. Mio padre conosce gli endar molto meglio di te. Io mi sto solo preoccupando per il tuo bene!».
«E allora smettila di preoccuparti. Io partirei oggi stesso per la Fortezza di Confine, se sentissi quelle benedette parole: "Allen Kilik, siete stato scelto per servire l'imperatore. Da questo momento in avanti, voi intraprenderete la strada dell'Endar"! Ma ci pensi, Jayden, alla gloria?! All'onore?! A tutti i privilegi di cui
godrei?! Di fronte ad un endar, sei come di fronte all'imperatore in persona: tutti si inchinano, ti temono e ti adorano...! È fantastico!».
«È orribile».
«Orribile?! Orribile, eh? Ecco perché le donne non possono essere scelte! Siete ottuse, e stupide!».
«Allen Kilik, lo stupido sei tu» disse Jayden, alzandosi in piedi e
mettendo le mani sui fianchi. «Mi vergogno di te!».
«Ah, ma sentitela!» scoppiò a ridere lui: «Sua signoria, la futura imperatrice, si vergogna del suo amico di infanzia! Tu diventerai imperatrice, Jayden! E io? Io invece che cosa diventerò? Niente! Il massimo a cui posso aspirare è diventare generale dell'esercito aeronavale!».
«Generale dell'esercito aeronavale! Ecco, sarebbe perfetto per te!».
Non si rese conto di averlo umiliato, con quelle parole: credeva davvero ciò che diceva.
«Perfetto per me, dici? Certo! Come se ci fossero alieni da sconfiggere in uno qualsiasi di quei freddi e sterili pianeti! Perché io non posso aspirare a qualcosa di più, no? Questo è il massimo a cui posso puntare: a diventare uno stupido generale!».
«Io non lo considero affatto un grado poco onorevole! Anzi, c'è molto più onore in questo, che nel diventare capitano degli endar! Un endar è una creatura mostruosa...».
«Ma non capisci? Gli endar sono esseri superiori. Non si inchinano neppure di fronte all'imperatore in persona!».
«Cosa c'è di superiore, nel non doversi inchinare di fronte ad un uomo che si ammira? E ti sbagli a credere che un endar non si piega di fronte all'imperatore: gli endar sono asserviti al reggente Vlastamir. Hanno messo il popolo in ginocchio solo per rispondere ai suoi ordini. Gli endar sono esseri senza cuore!».
«E cosa mi importa a me del cuore? I sentimenti ti rendono debole, dipendente dagli altri».
«Cosa c'è di male nel dipendere da qualcuno? Kilik, sei tu che non capisci: se tu diventi un endar, non potremo mai più essere amici. Anzi, poi tu non ti ricorderesti neppure come mi chiamo!».
«Beh, allora è esattamente quello che voglio!».
Jayden si zittì. Inutile rispondere a quella crudeltà gratuita.
Rassegnandosi a passare sei ore di teso silenzio, rimise le frecce nel fodero. Non voleva ferirlo come lui aveva appena fatto con lei.
Aveva da mesi l'impressione che Allen avesse una specie di cotta per lei, cosa che la indisponeva nei suoi confronti: ora ne aveva una conferma. Allen aveva fatto domanda all'Accademia solo per seguirla. Era certa che fosse una cosa poco seria: presto avrebbe davvero perso la testa per qualcun'altra. Lei doveva solo aspettare paziente che questo accadesse, senza ferire troppo il suo orgoglio nel frattempo. Lui non era il ragazzo per lei: un ragazzo che voleva diventare endar era fuori considerazione. In più, era spesso ottuso, a volte prepotente, sempre indisponente. Lei voleva tutt'altro. Voleva di più.
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