10.1 La navicella per Tridia
Evander non provava alcuna rabbia per essere stato "perso" dal padre all'età di tre anni, non provava invidia per il fratello maggiore Vlastamir che presto sarebbe stato nominato Imperatore di Triplania al posto suo, non provava alcun desiderio di vendicarsi su di lui per il tentato fratricidio, né di riprendersi quell'identità perduta. Per la verità, non provava alcun senso di appartenenza per quella stessa identità.
Evander era solo e solamente Evander, e non aveva alcuna intenzione di lottare per un trono che non voleva, e di cui anzi aveva una paura folle.
Non aveva mai chiesto a Jonathan perché lo avesse portato via dalla famiglia. Non gli interessava saperlo.
Facendolo scomparire dal regno all'età di tre anni, la sorte lo aveva liberato di quel nome odioso: gli aveva fatto un insperato regalo e lui ne era felice e sollevato.
Non poteva provare affetto per un padre che non conosceva. Nella sua mente, egli era un essere maestoso e grandioso, impossibile da raggiungere. Non avrebbe mai potuto chiamare l'imperatore col nome di "padre".
Non poteva neppure provare compassione per la donna che lo aveva messo al mondo. Non le era di certo grato per aver fatto un sogno su di lui, un sogno che era stato chiamato "profezia". Anzi, preferiva non provare nei suoi confronti alcuna emozione, perché, se avesse dovuto provarne una, sarebbe stata di rancore.
Cassarah lo aveva messo al mondo, per poi gettarlo nelle fauci di quello stesso mondo crudele: la gratitudine per la prima compensava la rabbia per la seconda, e questo era tutto.
Si augurava che Vlastamir diventasse un buon imperatore, migliore di quanto lo sarebbe mai stato lui, e che al popolo andasse più che bene rimanere sotto al suo comando.
Se davvero lui era Alekym, il principe scomparso, il bambino della profezia, l'erede legittimo al trono... allora la cosa migliore da fare era dimenticarsene.
Ed era esattamente quello che Evander voleva fare.
Quando era bambino, non capiva perché Jonathan gli intimasse di non far vedere a nessuno il tatuaggio. Non avrebbe mai dimenticato di quando, a sei anni, era stato sul punto di mostrarlo a Jacopo, e Jonathan glielo aveva bruscamente impedito. Evander non aveva mai visto il suo maestro più arrabbiato che in quell'istante: la paura lo aveva completamente trasfigurato. Jonathan si era erto in tutta la sua persona: alto, forte, spalle larghe e petto ampio. Visto con gli occhi di un bambino, egli era sembrato molto più che un uomo, un gigante. Appariva come un essere sovrumano. E Evander aveva in effetti scoperto che Jonathan era stato, in una vita passata, molto più che un uomo.
L'amico, terrorizzato, era fuggito via e non si era più riavvicinato a Evander.
Più volte, Evander, aveva sfogato la propria rabbia, mostrando alla foresta il suo segreto, e si era chiesto perché mai uno stupido cerchio con uno stupido triskell nel mezzo dovessero avere un valore così grande da non poter essere mostrati a nessuno, a rischio della vita.
«Devi nasconderlo a tutti, Evander, a tutti! Se qualcuno lo vedesse, io non potrei più proteggerti. Ci sono uomini che odiano quel tatuaggio, Evander, e che farebbero di tutto per toglierlo di mezzo, anche ucciderti» gli aveva detto Jonathan, quando era solo un bambino.
«Ma... è solo un tatuaggio! Tutti ne hanno uno».
«Molti hanno un tatuaggio, ma nessuno ce l'ha come il tuo. Tu sei l'unico che ce l'ha così!».
«Ma perché ce l'ho? Io non lo voglio!».
«Ci sono tante cose che io non voglio, ma che devo accettare. Tu devi accettare questa. Ma, mi raccomando, nascondilo sempre, a chiunque».
«Perché tutti mi odiano?».
«Non è vero, Evander. Non tutti ti odiano. Anzi, moltissime persone ti amano!».
«Ma odiano il mio tatuaggio, e quindi odiano me perché ho questo tatuaggio. Anch'io lo odio!».
La sua opinione a riguardo di quel tatuaggio non era cambiata affatto col passare del tempo. A otto anni, dopo aver sentito in giro voci sul simbolo del re, sulla profezia e sul principe scomparso, Evander aveva continuato ad odiare quel tatuaggio proprio come quando aveva cinque anni e non aveva ancora idea di cosa fosse.
Evander non voleva quel nome, non voleva quel tatuaggio, e non voleva quel trono. Non li aveva mai voluti.
Anzi, Evander si sentiva libero, libero di perseguire il suo unico e più grande sogno: diventare capitano di un'aeronave d'esplorazione.
Era libero perché non doveva più accudire Jonathan, che negli ultimi mesi era stato troppo malato per lavorare.
Era libero perché la cosiddetta "profezia" era talmente assurda, che nessuno poteva più crederla possibile.
Era libero, perché la sorte stessa, facendolo scomparire all'età di tre anni, lo aveva liberato da un destino pesante e cupo come quello di diventare imperatore.
Era libero, perché nulla poteva impedirgli di pensare solo ed esclusivamente a sé stesso.
Ormai, l'unica persona che sapeva il suo vero nome, Jonathan, non esisteva più, quindi Evander poteva continuare a essere Evander. Jonathan si aspettava che lui lottasse per riprendersi il trono, ma questo era impossibile. Evander non avrebbe saputo neppure da dove incominciare. Non aveva soldi, non aveva prospettive, non aveva neppure un cognome. Evander non era nessuno, ed era ben lontano dall'essere un principe ereditario.
Nessuno poteva aspettarsi qualcosa di così impossibile da un ragazzo di quindici anni.
E fu proprio questa improvvisa consapevolezza a far sì che nella mente di Evander andasse prendendo forma il suo vero ed unico sogno: diventare Capitano di un'astronave d'esplorazione.
Ecco ciò per cui avrebbe lottato.
Sarebbe diventato Esploratore Capitano, dimenticandosi per sempre che altri lo avevano chiamato "luce nelle tenebre".
Appena aveva preso questa decisione, Evander aveva raccolto tutto ciò che possedeva ed era partito per metterla in pratica. Non c'era tempo da perdere, perché l'esame di Tridia si poteva tentare una sola volta e solamente all'età di quindici anni. Lui aveva quindici anni, e l'esame sarebbe iniziato la mattina dopo, il 5, all'alba.
Jonathan era spirato poco prima di mezzogiorno. Tridia si trovava a sole tre ore di distanza da Porto Grande, se si prendeva la navicella pubblica.
Purtroppo, la navicella faceva una sola corsa la mattina alle 10, e lui la aveva persa per due ore. Se avesse atteso la mattina dopo, non sarebbe arrivato a Tridia in orario per l'esame di ammissione.
Per fortuna, lavorando alla stazione degli shuttle, Evander conosceva a memoria tutti gli orari delle partenze e sapeva di avere ancora una possibilità: la navicella per Tridia faceva tappa nelle città vicine, costeggiando Lungofiume ed arrivando infine nella città di Andez alle nove di sera per poi partire definitivamente per Tridia.
Lui avrebbe potuto batterla sul tempo perché, passando per le colline invece che per la costa, avrebbe potuto raggiungere la città di Andez in otto ore a piedi: partendo immediatamente e mantenendo il passo, avrebbe ancora fatto in tempo.
Non pensò neppure per un secondo di domandare un passaggio a qualcuno: non aveva confidenza con nessuno del luogo, e odiava chiedere aiuto quando poteva evitarlo. In più, non voleva che nessuno sapesse che stava andando a Tridia, per paura di essere deriso. In fondo, camminare gli sarebbe servito per distrarsi e rilassarsi, scacciando per un momento il passato dalla mente e riempiendosi dei progetti per il futuro.
Così, invece di pagarsi un viaggio motorizzato con i pochi risparmi, era partito, da solo, a piedi, sapendo cosa aveva alle spalle e non cosa aveva di fronte, con lo stomaco vuoto e la mente piena di un unico pensiero: l'accademia di Tridia.
Aveva lo stomaco vuoto perché l'ansia del futuro e l'angoscia del passato gli avevano impedito di mangiare. Sapeva che le forze gli sarebbero presto mancate. Così si era portato dietro qualcosa da mettere sotto i denti quando avesse incominciato a sentire i morsi della fame.
Tuttavia, arrivato in città con un'ora di anticipo, dopo aver camminato per sette ore di seguito senza mai rallentare il passo, fradicio per la pioggia che aveva incominciato a cadere a metà del tragitto, ancora non aveva mangiato né tantomeno dormito, perché lo spazio nella sua mente era troppo occupato da altri pensieri, che non i bisogni più naturali.
I suoi sforzi di dimenticare momentaneamente il passato si rivelarono vani, perché, per aver vissuto come un contadino, aveva avuto un passato piuttosto difficile.
Fu forse per questo, o per trovare un riparo dalla pioggia e dal freddo, che, appena arrivato nella fangosa città di Andez alle sette di sera, fu talmente affascinato dal tempio dell'imperatrice Cassarah, che fu costretto ad entrarvi ed a perderci tutto il tempo che aveva ancora a disposizione prima che la navicella per Tridia partisse.
Il tempio era un palazzo affascinante: un porticato di marmo bianco venato di rosa, di pianta ottagonale, aperto verso l'esterno su tutti i lati, ma coperto sul soffitto da una volta affrescata. Era una struttura che ricordava molto quelle classiche dei più vecchi imperi terrestri: Evander non aveva mai visto nulla di simile, se non nei libri. Ma se ne sarebbe presto stancato, se il suo sguardo non fosse caduto su qualcos'altro: al centro, infatti, c'era una statua che raffigurava l'imperatrice.
Ed era proprio questa statua che Evander stava fissando così affascinato, quando fu raggiunto da una voce:
«Tu! Che ci fai qui?! Fuori! Fuori immediatamente!».
Lui non si mosse. Mormorò invece: «Chi è?», continuando a fissare l'effige di fronte a lui con un'espressione al tempo stesso turbata ed affascinata.
Passi pesanti risuonarono per tutta la lunghezza della navata, percuotendo il pavimento con tonfi sempre più forti e veloci.
«Mi hai sentito, ragazzo?! Fuori di qui! Questo tempio è sacro, e tu hai gli stivali sporchi di fango!».
Non capiva cosa centrasse il fango con il fatto che il tempio fosse sacro.
«È l'imperatrice, non è vero?» chiese, senza voltarsi a guardare l'uomo che lo stava cacciando dal tempio.
Il custode non si accorse della nota cupa nella sua voce.
«Ma certo che è l'imperatrice!» disse, ansimando, prima di fermarsi accanto al ragazzo a riprendere fiato, con le pesanti mani sulle ginocchia piegate.
«Quest'immagine... quest'immagine raffigura l'imperatrice?» gli chiese Evander, vedendoselo accanto.
«Te... l'ho già detto, ragazzo... é l'imperatrice» rispose il custode, ancora ansimante, prendendo fiato tra una parola e l'altra. Evander notò che era particolarmente grosso ed anziano.
«Cassarah?» chiese ancora.
«Cassarah, ovvio. Conosci forse qualche altra imperatrice?» esclamò il custode con una risata, alzando gli occhi al cielo.
«E chi è il bambino che tiene in braccio?».
Ora, il custode incominciava a credere che il ragazzo avesse qualche problema. Sgranò gli occhi e rispose:
«Ma che razza di domanda è questa, si può sapere?! É il principe scomparso! Ovvio».
«L'imperatrice... Come è morta?».
«Di parto, ovviamente! Diavolo, ragazzo, com'è che mi fai tutte queste domande? Ma da dove vieni, che sai così poco della famiglia imperiale?!».
Evander non rispose subito. Aveva tante domande senza risposta che gli vorticavano nella mente. Se c'era una cosa di cui Jonathan non gli aveva mai davvero parlato era proprio la morte di sua madre.
Dopo un momento, mormorò: «È vero, so molto poco sulla famiglia imperiale. I miei genitori non hanno ritenuto necessario...».
Tornò a guardare l'immagine raffigurata di fronte a lui: «Non ritenevano necessario che io sapessi come morì la nostra imperatrice».
«Vuoi dirmi che lo hai scoperto da me oggi?!» esclamò il custode, incapace di credere una cosa che non poteva neppure concepire. «Sono io il primo a dirti di questa storia?».
«Ho ascoltato qualche voce in giro, ma non ho scoperto molto. Vi prego, ditemi tutto quello che sapete!».
Il vecchio rimase colpito da quella richiesta, e sorrise compiaciuto: «Sei un bravo ragazzo, dopotutto. I tuoi genitori dovevano essere dei contadini analfabeti per averti taciuto questa storia!».
«Erano contadini, sì. Ora sono morti».
Il custode lo guardò con compassione.
«Sono morti anche loro?! Povero ragazzo! Allora, se non c'è nessun altro a cui tu possa chiedere, ti racconterò io la storia della nostra imperatrice. Non deve esistere nessuno in tutto l'impero, che non la conosca».
Evander annuì ed attese che il custode incominciasse. Non voleva parlare, per paura di ritardare di altri minuti la spiegazione.
«Allora, devi sapere che l'imperatrice era una creatura bellissima e amata da tutti. Anche l'imperatore l'amava con tutto il cuore: non lasciò il suo letto di dolore neppure un istante».
«Non era un letto di dolore! Vi è... nato un bambino» esclamò Evander.
«Hai ragione, ragazzo! Proprio ragione! Non si può chiamare letto di dolore il letto dove il piccolo principe Alekym ha visto la luce per la prima volta! Volesse il cielo che fosse ancora vivo!» disse il custode, mettendosi una mano sul cuore e scuotendo la testa con rassegnazione.
«Perché pensate che sia ancora vivo?!» mormorò Evander, senza guardarlo.
«Perché il suo piccolo corpo non fu mai trovato! L'imperatore stesso lo fece cercare per ben due anni, fino ai più remoti angoli dell'impero! Non volle mai darsi pace della sua morte, ecco perché ormai è suo figlio Vlastamir a governare: l'imperatore non ne è più in grado, troppo dolore nel suo cuore di padre. E poi... perché io credo in quella profezia!» mormorò infine il custode, con gli occhi accesi di una speranza che fece passare un'ombra in quelli di Evander.
«La profezia» ripeté Evander.
«Mi sembri perplesso, ragazzo. I tuoi genitori adottivi non ti hanno raccontato neppure di questa profezia, non è vero?».
Evander scosse appena la testa, in silenzio, senza guardare il suo informatore negli occhi.
«Ebbene,» continuò il custode: «Secondo la profezia, il bambino che scomparve nell'ombra tornerà per riportare la luce sul suo regno».
Il custode parve soddisfatto di questa breve frase, poetica ed evocativa, ma che non spiegava nulla.
Evander lo guardò secco. Poi rispose: «Il nostro regno ha già abbastanza luce. Un Sole enorme per Amaria, e ben due soli per Veradria».
«Ragazzo ignorante! Non s'intende mica luce nel senso di luce, ma nel senso di prosperità, libertà e felicità: tutte cose che non vedremo mai finché il principe Vlastamir sarà al trono».
«Il reggente Vlastamir sarà un buon imperatore» affermò Evander, con una nota di rabbia nella voce.
«Eh, sei solo un ragazzo. Capisco che tu voglia ancora credere nella giustizia della corona! Ma il reggente è un usurpatore, che governa il popolo nella paura dei Mantelli Neri. Comunque, per tornare all'imperatrice, ella diede alla luce il piccolo principe, sapendo che non avrebbe potuto vederlo crescere. Riuscì, nonostante la morte che voleva prenderla, a portare a termine il parto e, quando il bambino fu nato, volle parlare col nostro imperatore. Gli disse che quel bambino doveva essere nominato erede al trono al posto del primogenito, che doveva venirgli impresso sul petto l'antico marchio dell'erede al trono - una pratica ormai in disuso -, e che doveva essere chiamato Alekym. E sai perché Alekym, ragazzo?».
«No, perché?».
«No, che stupido, è ovvio che non lo sai: sei figlio di due contadini... Alekym, nell'antica lingua degli Ara, i primi coloni del pianeta Amaria, significa: "Colui che ha scelto"».
«E perché?! Perché "colui che ha scelto"?» insistette Evander.
«Ragazzo, è un nome! Significa: "colui che ha preso una decisione"!» disse seccato il custode, convinto di aver a che fare con un ragazzo di scarsa intelligenza e cultura inesistente.
«Sì,» disse Evander, con un sforzo per mantenersi calmo: «Sì, ma quale decisione?! Di quale scelta parla?».
«Ma del trono, ovviamente!».
Evander era piuttosto contrariato.
Avrebbe voluto esclamare: «Ma che cosa state dicendo?!».
Invece, disse: «Ma è l'imperatrice che ha scelto il trono per il figlio, non il bambino che ha scelto di divenire imperatore! E allora dovrebbe essere "colui che è stato scelto" o "figlio di colei che ha scelto", non "colui che ha scelto"!».
«Non essere stupido, ragazzo! Come vuoi che un bambino potesse scegliere il trono? Che razza di stupidaggini ti saltano in testa?!».
«Scusatemi...» rispose Evander, pronto. Poi aggiunse, quasi a sé stesso: «È che non riesco a capire...!».
«Ma certo, che non capisci: sei solo un ragazzo ignorante».
«Sì, ma vi prego, ditemi di lei! Dell'imperatrice Cassarah! Non avete terminato la vostra storia».
«Sei proprio un ragazzo insistente, eh? Ma sono contento che anche la nuova generazione si interessi di questa storia. Allora, dove ero rimasto?».
«Che l'imperatrice chiese al marito, l'imperatore, di chiamare... di chiamare il bambino con quel nome che non ricordo».
«Alekym! Il nostro principe ereditario si chiama Alekym. Ebbene, l'imperatrice Cassarah raccontò al marito di un sogno che aveva fatto durante il parto...».
«Che cosa sognò?».
«Sognò il futuro imperatore e la futura imperatrice».
«La futura imperatrice?!» gridò Evander, sorpreso. Non aveva mai saputo di questa parte della profezia.
«Eh, sì. Sognò il principe Alekym seduto sul trono dell'impero di suo padre, con accanto la sua amata sposa. E si dice anche che questa sposa fosse in dolce attesa, ma queste potrebbero essere infiorettature di qualche matrona».
Evander sentì un groppo in gola. Non gli piaceva, questa parte della profezia. Tutto il suo futuro sembrava prefissato e non gli lasciava neppure la libertà necessaria per scegliere una moglie. E poi, era troppo giovane per pensare ad un figlio!
Deglutendo, a fatica, chiese:
«E chi era questa sposa?».
«La figlia di Lady Ester Shal, la più fidata fra le dame di corte dell'imperatrice Cassarah. Le due donne sono morte di parto lo stesso giorno».
«E, quindi, è soltanto per questo sogno che il principe Alekym ha ricevuto il titolo di principe ereditario?», convincendosi di non aver alcun vero diritto al trono.
«Sì, ragazzo, é proprio per questo. L'imperatore Leandros diede ascolto alla sua amata moglie morente, le giurò che il principe Alekym sarebbe divenuto imperatore. E così, il piccolo principe ricevette subito la cerimonia di vestizione».
«E voi credete che il bambino sarebbe ancora vivo se non fosse stato nominato erede al trono?». Evander voleva sapere che idea si era fatta la gente comune della scomparsa di Alekym.
«Che cosa vuoi insinuare ragazzo?!» esclamò il custode, facendosi pallido: «Che abbiano tolto di mezzo un bambino di soli tre anni perché era stato scelto come erede al trono?! E chi mai avrebbe potuto farlo?! Tu non sai quello che dici!».
«Io... Io non insinuo niente. Io non so niente».
«E allora, stai bene attento a quello che dici! Il principe Alekym non è stato assassinato, il principe Alekym è scomparso. Punto e basta. E ora, vattene, e lasciami lavorare. Ti ho detto quello che dovevo!».
Ma Evander aveva ben visto la paura negli occhi del custode. E non gli era sfuggito il tentativo frettoloso di togliersi dall'impiccio. Il custode credeva che Alekym fosse stato assassinato.
«Grazie. Io vi ringrazio molto» disse Evander al custode, chinando la testa, in segno di gratitudine. Diede un ultimo sguardo all'effigie dell'imperatrice Cassarah, poi percorse lentamente il corridoio del tempio, fino a che non fu fuori.
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