Capitolo tre
«Guardate. Ho la pelle abbronzata. Oh, Ally ci ha fatto la grazia.» Constatò ammaliata ed estasiata Dinah, sfiorando adorante l'epidermide brunita.
Camila scosse la testa e si alzò dal tavolo della colazione per riempiere il piatto vuoto. Scelse pane, burro e marmellata, una tazza di latte caldo e un po' di caffè. Meno latte, più caffè.
«Stavo pensando,» Jessie l'affiancò inaspettatamente, «che devo ancora riscattare la vittoria della scommessa. Le promesse si mantengono, Camila.» Le scagliò uno sguardo franco ma bonario, staccando un morso di pane inzuppato nel caffellatte.
«Lo so, è che sono stata impegnata.» Mentì la cubana, che ormai aveva fatta di quello slogan un mantra. Jessie lo aveva ascoltato così tante volte che le pareva di essere sotto ipnopedia.
Camila fece per avanzare, ma la donna le sbarrò la strada flettendo un braccio sul tavolo come transenna. La cubana, accigliata, alzò lo sguardo su di lei, notando come il petto si gonfiasse e il respiro fuoriuscisse gravemente.
«Quand'è che cambierai bugia?» Fu schietta Jessie, stufa delle circonvoluzioni della cubana.
Camila aprì bocca per replicare, ma lo sguardo rassegnato e spento della donna le fece rimangiare il flusso di menzogne, racchiudendola tutte in un sospiro. In fondo non stava mentendo a Jessie perché voleva mentire a Jessie. Stava mentendo a Jessie perché voleva mentire a se stessa.
«Io non sono il tipo che si siede a tavola.» Le regalò una mezza verità, sapendo bene che tutta la verità era un lusso che non poteva permettersi di sdoganare.
Certi segreti ci appartengono fino alla fine, e per quanto pensato siano, sono la parte più reale di noi stessi.
«E io non sono il tipo che va dietro a nessuno, eppure eccoci qua.» Ribatté Jessie, facendo scattare le sopracciglia all'unisono con le labbra.
Camila inclinò la testa all'indietro in un gesto rotatorio, trattenendo il respiro. «È diverso, Jes,» Concluse, espirando forzatamente, e surclassando la donna sull'altro fianco, ancora libero.
Jessie passò la lingua sull'arcata superiore, alzò gli occhi al cielo mentre volteggiava nella direzione della cubana, cambiando lato ma non posizione. «Non così tanto. Tu evidentemente non sei pronta, io sì. E va benissimo, Mila. Basterebbe sentirselo dire.» Mormorò infine, abbassando solo per un secondo lo sguardo, spiando nel cassetto dentro di lei per poi chiuderlo in un tonfo.
«Jes.» esordì la cubana disinibita, ma quando il suo sguardo cadde sul volto abbattuto della donna tutta la sua determinazione si squagliò.
Mordicchiò il labbro inferiore «Ci devo pensare,» allungò una mano per artigliare una confezione di marmellata, e le girò le spalle, incamminandosi verso il tavolo.
Piombò nel mezzo di una discussione pacifica ma tesa fra Ally e Dinah. A quanto pareva la biondina aveva definito l'abbronzatura di Dinah "ad aragosta", e lei aveva rimbeccato facendole notare che era perfettamente brunita. Contravvenire Dinah era come andare a sbattere ripetutamente contro un muro.
Dopo la colazione, Dinah e Camila si approntarono per la gara, che si sarebbe tenuta quel pomeriggio.
I piloti avevano volato su un altro volo, lo stesso giorno, e avevano pernottato insieme al team in un hotel molto più vicino al loro, così si erano accampati nell'autodromo già agli albori di quella mattina, sfruttando la pista per qualche giro di prova. Camila aveva ricevuto notizie che stava filando tutto liscio, ma si era svegliata con una sensazione negativa allo stomaco. Era come se la sua trachea fosse stretta da un nodo.
La cubana non ci pensò. Era normale essere nervosi-ansiosi in una giornata essenziale come quella. In più, non si recava a competizioni automobilistiche americane da un bel po', e aveva il timore di essere riconosciuta da qualcuno o di riconoscere qualcuno. Comunque, essendo un concorso di livello medio-basso, non si aspettava di incappare in nomi illustri, al massimo qualche amico di vecchia data, qualche vecchio collega come spettatore amatoriale. Niente di più.
Niente di cui preoccuparsi. Respirò, portando una mano prima sullo stomaco, ancora in subbuglio, poi sul petto, ancora compresso.
Indossò un abito semplice, tendente al marrone, ma primaverile. In realtà doveva essere una camicia, ma le stava abbastanza lunga da fungere da vestito. La legò in vita con una cintura fine, modello intrecciato. Completò il tutto con l'aggiunta di uno stivaletto basso con le frange. Per sincerarsi che tutto fosse perfettamente in ordine, ricontattò il suo staff, chiedendo come stesse procedendo. "Tutto bene, signora. È meravigliosa quest'auto," le disse Jeff, il capo-meccanico. "Lo so," pensò la cubana spiritosamente "l'ho ideata io".
Camila fece un veloce pip-stop nella camera di Jessie, la quale non sarebbe stata presente all'inaugurazione della gara perché quella stessa mattina, accidentalmente e senza rendersene conto, aveva mangiato un dolce al cioccolato riempito di scaglie di mandarle. Lei era allergica alle mandorle. Fortunatamente l'albergo custodiva il materiale medico per qualsiasi evenienza, e il problema si era risolto relativamente in breve. Però gli occhi erano ancora arrossati e le guance enfie, al che era stata la stessa Jessie a decidere di non presentarsi. La trovò distesa sul letto a "guardare" la tv. "È come se fossi appena uscita dall'oculista, piena di collirio dilatatore," dichiarò Jessie, abbozzando un sorriso. Camila le disse che avrebbe filmato tutto e che avrebbero potuto rivederlo presto. L'altra la ringraziò con un sorriso.
Dinah era già scalpitante quando Camila giunse alla hall. Anche lei indossava un vestito molto semplice, blusante, intessuto di colori più sgargianti e di motivi floreali, però in linea con il suo umore perennemente florido (tranne in Norvegia. In Norvegia no).
Ally non si era potuta aggregare perché doveva lavorare. Il business delle chiamate erotiche online procedeva di gran carriera. A quanto pareva le persone chiamavano soprattutto perché si sentivano sole. Ally aveva fatto un grafico, e la statistica dimostrava che il 40% erano state persone "arrapate", mentre l'altro 60% le aveva parlato della morte del gatto, della vicina odiosa, della suocera odiosa, dell'ex moglie traditrice, della ragazza impossibile... e via dicendo. Un meleange particolareggiato e pittoresco, e sì, anche eccitato, ma in netto svantaggio. Ally aveva anche confidato che era più semplice lavorare con il testosterone maschile, che con i pianti.
Tirando le somme, solo Camila e Dinah sarebbero state presenti quel giorno. Chiamarono un taxi e si fecero scortare all'autodromo. A Camila mancava guidare, guidare soprattutto la sua macchina, ma quel giorno aveva talmente madide e tremule che fu un bene non dover governare alcun volante.
Dinah era rilassata e tranquilla. Forse perché non le importava così tanto, o perché invece fosse sicura della buona riuscita dell'amica. Comunque sia, la sua calma venne emanata anche ai ricettori di Camila, che si distese un po'.
Quando arrivarono davanti all'autodromo, la cubana diede venti dollari di mancia al tassista senza accorgersene. Non che fossero un problema per lei i soldi, era la sua disattenzione il problema attuale. Doveva star concentrata, pensare solamente alla gara. Non poteva e non doveva deconcentrarsi in alcun modo.
«Andiamo prima a valutare come sta andando alla squadra.» Parlò come un automa, con lo sguardo fisso sul profilo festante dell'edificio, che per l'occasione aveva innalzato tutte le bandiere.
«Chissà contento Trump.» Celiò Dinah, ma Camila aveva già iniziato la sua marcia, e la polinesiana di ritrovò a ridere da sola.
L'interno era gremito di persone, soprattutto amanti della categoria che si erano messi in coda in ore antelucane. Camila e Dinah vennero condotte attraverso un corridoio secondario, e invece di sbucare da destra, dove affluivano tutti gli avventori, uscirono dalla parte destra dell'autodromo assieme ad altri manager o CEO delle loro rispettive aziende. Erano stati allestiti due stand: uno sulla parte sinistra e uno sulla parte destra. Occupavano uno spazio enorme, perché la pista era davvero mastodontica, e anche il prato attorno ad essa propiziava un'area colossale. Entrambi gli stand erano speculari: dieci tendoni bianchi che offrivano cibo, bevande, zuccheri e quant'altro. Impiegavi più tempo a percorrere tutti gli stand che andare in tribuna.
«Okay, da che parte adesso?» Domandò la polinesiana, notando che diverse squadre bivaccano sulla falce est del prato, e altre su quella ovest.
La cubana notò che ogni squadra era contraddistinta da una bandiera raffigurante il nome dell'azienda. Synchrony, stanò la cubana, e senza soggiungere altro si avviò verso di essa, seguita da un'ignara e quanto più stordita Dinah.
Per raggiungere la loro postazione impiegarono più di qualche minuto. Era davvero una pista monumentale. Quando soggiunsero, Jeff stava impartendo ordini a tutto lo staff, che stava facendo del suo meglio per star dietro al vociare roboante dell'uomo.
«Jeff, tutto bene?» Domandò schiettamente Camila, oggettivandosi alle spalle del pover uomo.
«Oh, salve signora Camila. Tutto benissimo.» Sorrise smagliante Jeff, ma sotto i baffi sale e pepe si celava un piccolo segreto che tornò a stringersi attorno alla trachea di Camila.
«Ne siamo sicuri?» Investigò la cubana, occhieggiando anche gli altri meccanici. Tutti ad occhi bassi.
«Ecco...» Jeff si guardò attorno, cercando sostegno dai suoi colleghi. «Signora, è che la macchina va benissimo, ma manca il pilota.»
«Che vuol dire manca il pilota?» Si corrucciò Camila, avvertendo il nodo diventare lentamente un cappio.
«Carlos si è allontanato qualche tempo fa. Non è più tornato. Lo abbiamo cercato in ogni dove, ma non c'è.» Ammise sfrontatamente Jeff, mordendo il labbro inferiore mentre la cubana lo scrutava inespressiva.
Nessuno disse niente per un po'. Furono minuti di silenzio tremendo, sterile. Non si udivano volare una mosca.
«Io e Dinah andremo a cercarlo all'esterno, altri due di voi lo cercheranno all'interno. Vediamo di darci una mossa.» Comandò a bacchetta Camila, ottenendo subitanea la risposta affermativa del team che oltre a nutrire una grande stima per la cubana, era anche molto preoccupato di fare una figura pessima di fronte ad un pubblico vasto.
Camila fece retrofront e si incamminò assieme alla polinesiana verso gli stand da dov'era venuta.
«Io controllo quello degli spettatori, tu puoi perlustrare quello adibito alle squadre?» Domandò Camila, e Dinah annuì energicamente.
«Tiene il telefono alla mano.» Indicò Dinah, avviandosi celere verso l'allestimento bianco e brulicante.
Camila sentiva il cuore batterle nel petto ad un'accelerazione pericolosa. Le toglieva il respiro. Per quanto potesse ripetersi di star bene, di essere tranquilla, non riusciva a smettere di massaggiarsi il petto, ottuso da quella zavorra di sentimenti.
La cubana si mimetizzò fra la folla. Chiese cautamente scusa a più persone, passando fra di loro in maniera forse un po' brusca è imponente. Quando riuscì a svincolarsi dalla formazione serrata, poté camminare liberamente nel prato, dirigendosi verso gli altri stand.
Devi essere qui, Carlos. Non sapeva se la sua voce interiore fosse arrabbiata, ansiosa, incrinata o smaniosa.
Arrivò fino in fondo agli stand, ma di Carlos nessuna traccia. Si passò una mano nei capelli. Consultò il telefono. Niente. Neanche Dinah doveva essere stata così fortunata.
Fece inversione e si diresse nuovamente verso il suo staff, sperando che almeno loro non avessero nessuna nuova buona nuova.
Mentre ripercorreva a ritroso i suoi passi, un bambino dovette riconoscerla e chiederle un autografo, al che anche qualche altra persona le domandò di fare una foto assieme. Ovviamente non disse di no a nessuno. Quando la relativa calca si smaltì, Camila tornò a marciare rapidamente verso la sua postazione, con lo sguardo indirizzato perennemente verso l'altra ala del prato o sul telefono.
E fu proprio a causa del suo smarrimento che non vide la figura di fronte a se.
Camila inciampò nella donna, abbastanza violentemente a causa del passo sostenuto.
«Mi dispiace, è colpa mia.» Farfugliò, alzando lo sguardo.
«No, è colpa...» La voce della donna si assottigliò, fino a divenire un sussurro.
Camila avvertiva il sangue alle tempie. Anche l'altra era paralizzata e palpitante.
«Camila.. Ma che.. che ci fai tu qui?» Deglutì faticosamente. «Insomma, è bello rivederti.. Come.. come stai? Insomma, ciao.» Balbettò la sua interlocutrice.
«Sto bene, Normani. E tu?» La sua voce apparve totalmente atona, ma asciutta.
Camila aveva imparato a sopportare tutto, tenendolo chiuso sotto chiave. Ed era ciò che stava facendo. Si astraeva.
«Anche io sto bene, sono wow.. Cioè, è passato tanto tempo. Io..» Aveva le labbra aduste, e come biasimarla. Camila conosceva l'intera storia, sapeva che anche Normani aveva avuto la sua parte. Come comportarsi in queste situazioni? Era difficile, veramente difficile bilanciare lo spasmo interiore, almeno che non lo si mettesse a tacere.
Fu il telefono della cubana a salvarla da quello strazio. Era Dinah. Per un momento si accese una lampadina nella mente di Camila "Non devono incontrarsi". Paradossalmente, era la stessa lampadina che si era accesa a Dinah, dall'altra parte del prato. Anche lei si era imbattuta in un incontro fortuito...
«Ehiii, mi sa che qualcuno del tuo staff ha trovato Carlos. Ci vediamo davanti al box, chiaro?» Specificò la polinesiana, chiaramente nervosa.
«Ok, arrivo, grazie.» Chiuse rapidamente la conversazione, premurandosi di non mostrare il nome a Normani.
«Tutto bene?» Domandò quest'ultima, quasi sfacciatamente.
«Si, devo scappare però. C'è stato un problema al, al mio box.» Sottolineò, prendendo le distanze fisiche.
«Al tuo box?» Puntualizzò Normani.
Camila la salutò con la mano e si avviò a capo basso verso la direzione segnalata da Dinah. La cubana stava tremando. Ogni arto del suo corpo era divenuto argilla. Le mani erano imperlate di sudore freddo. Si guardava indietro come per accertarsi che non fosse stata un'allucinazione a colpirla in testa. Dentro di se era partito un motore incoercibile. Si alimentava di rabbia e sgomento. Aveva la testa che girava, forse... forse doveva sedersi.
La ressa stipata non la stava aiutando affatto. Doveva trovare un modo alternativo per raggiungere il box, altrimenti sarebbe davvero svenuta in diretta Internazionale.
La cubana non poteva sgusciare oltre la transenna, perché le auto stavano facendo gli ultimi giri di prova, ed era impossibile intralciarle. Continuò ad annaspare fino alla porta da dove si riversavano gli spettatori, pagaiando controcorrente. Un uomo in giacca e cravatta, troneggiante davanti ad una seconda uscita, fu la sua salvezza. Camila mostrò il badge, anche se lui l'aveva già riconosciuta, e l'uomo la scortò all'interno di una stanza abbastanza angusta, ma privata. Le indicò gentilmente la strada che avrebbe dovuto percorrere dall'interno per raggiungere il suo box, poi tornò alla sua postazione.
Camila si lasciò cadere contro la parete, sedendosi sul pavimento lindo. Inspirò profondamente ed espirò ancora con più forza. Fuori... dentro. Si ordinò di darsi un contegno, subito. Va tutto bene, va tutto bene. Serrò le palpebre, strizzandole con forza, dopodiché prese un ultimo respiro e rimase inerme lì per svariato tempo, prima che il cellulare squillasse di nuovo.
Camila si sorresse allo scaffale nei dintorni per ergersi. Le girava ancora la testa, ma poteva camminare, ne era sicura. Imboccò l'uscita e Rispose.
«Dove sei?» Squittì Dinah, sormontata da un rumore roboante di motori.
«Sto arrivando.» La rassicurò Camila. «Tu resta lì,» si raccomandò.
«Troppo tardi, sto venendo a cercarti. Indicami lo stand dove ti trovi.» Sospirò Dinah, alzandosi sulle punte dei piedi per osservare la folla.
«No, Dinah! Torna indietro, per favore,» Camila svoltò l'angolo, il corridoio era abbastanza largo, anche se le forme si sdoppiavano sdoppiavano ai suoi occhi.
«Vorrei solo sapere dove...» La voce di Dinah si strozzò all'improvviso.
«Pronto?» Cazzo, cazzo, cazzo. Ecco che rimontava quella sensazione allo stomaco, che saliva lentamente verso la trachea. Allora era quello, il vero motivo per cui si era svegliata con quel magone. Era Normani il motivo per cui...
Normani? Improvvisamente una voce le risuonò in testa. Sembrava quasi che le sinapsi si fossero rallentate per affrontare il momento dell'incontro, ma che ora realizzassero.
Normani. Camila trasse un respiro profondo. La linea era caduta.
Normani. Continuò a dirsi, perché l'altro nome non le usciva proprio dalle labbra.
Continuò a camminare verso il suo box, ancora intontita. Focalizzando il nocciolo della questione aveva aguzzato i sensi, affinato la vista dapprima ballerina.
Digitò nuovamente il numero di Dinah. Ormai era quasi arrivata al box.
«Andiamo, andiamo...» Pregò Camila.
La telefonata andò a vuoto.
Ritentò.
Portò il telefono all'orecchio.
Fece un passo.
Tu... tu...
Svoltò l'angolo.
Tu... tu...
Il corridoio riecheggiava dei suoi passi sordi.
Tu... tu...
Mentre le sue orecchi rimbombavano il suono metallico e ascetico dell'attesa.
Tu...
Camila imprecò ad alta voce, attirando l'attenzione dell'unica persona accanitamente nervosa che stava tentando di percorrere l'intero anello per raggiungere l'altra parte e avvertire la sua amica, Normani, che Dinah era lì.
Si voltò proprio nel momento in cui Camila stava abbassando il telefono, sconfitta.
Gli smeraldi della corvina di illuminarono. Camila digitò ancora il numero; virò la testa verso l'altra direzione e poi verso di lei.
Tu... tu...
Il nodo allo stomaco si strinse all'estremo. Il suo stomaco si chiuse e il cuore sprofondò.
Tu... tu...
Lauren la fissava senza muovere un muscolo, e Camila faceva lo stesso. Era in trance.
A volte il destino sa giocare bene gli assi nella manica.
Tu...
Tu...
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