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Quinta Prova

Ricordo ancora quello che accadde quella sera.

Ricordo con nitidezza di come, seduta sul piccolo sgabello foderato, muovevo la spazzola lungo i miei capelli dorati, sospirando per la noia, di fronte al lucido specchio. Ricordo di come li accarezzavo e loro, morbidi, ricambiavano quel tocco lieve sul mio palmo celeste. Indossavo un lungo abito turchese, tanto lungo che le punte delle dita spuntavano appena dalle maniche ricamate. Tuttavia, non si poteva di certo dire che fossi bassa, anzi. Erano semplicemente i miei sarti che erano degli incapaci. Lanciai uno sguardo all'armadio dietro di me, controllando che le ante fossero chiuse. Tutto era a posto. Tutto era, almeno apparentemente, in regola. Mi alzai e mossi pochi piccoli passi verso il balcone, giusto per arrivare a potersi sporgere dalla ringhiera. Sopra la città di Màcronos, illuminata dalle imposte aperte degli abitanti più notturni, la volta stellata riluceva come suo solito. E, forse, quella sera più che mai. Tra le luci della sera, all'orizzonte intravidi le altre stelle blu, più grandi perché più vicine alla nostra Galassia. M110 sarebbe stata ancora immersa nel buio se al suo centro mio padre, il Re Astolan De Sissa, non avesse fatto costruire un centro di produzione stellare. Aveva rovinato praticamente l'intera Galassia di Andromeda, al cui interno M110 era situata, soltanto per avere un po' di luce. Mia madre, la Regina Narcissa De Sissa, lo avrebbe appoggiato fin dal principio in tutto ciò che avesse fatto. Io non avevo mai capito come lei facesse a sopportarlo, ma evidentemente la bellezza della corona superava tutti i confini. Oh, ma non per me.

Lanciai un ultimo sguardo al cielo, salutando la sua silenziosa essenza con un sorriso. Dal basso della dimora reale, due file di guardie stavano entrando di corsa all'interno. Ghignai, voltandomi verso la porta. Li sentii salire freneticamente le scalinate, finché non giunsero qui e sfondarono la porta in legno, riducendola in mille pezzi. Una schiera di dodici uomini si dispose intorno a me, accerchiandomi. Mi puntarono le lance elettrificate al petto e un omino, basso e paffutello, con un gran paio di baffi neri e senza l'ombra di un capello in testa, si schiarì la gola e si avvicinò a me passando tra le gambe dei soldati.

-La Principessa Sassissira Serafissa Lissa De Sissa, figlia del Re Astolan De Sissa e della Regina Narcissa De Sissa, è chiamata, su ordine del Tribunale Intergalattico, a rispondere dei crimini da lei commessi. Dovrà pertanto seguirci per essere scortata nel carcere di massima sicurezza dove vivrà per il resto dei suoi giorni -

La piccola figura prese fiato e arretrò, nascondendosi, come intimorito, dietro le gambe di una delle guardie, che alzò gli occhi al cielo. Mi feci scappare una risatina e tutti iniziarono a guardarmi male.

-Molto bene, portatemi. Ma, per favore, non aprite il mio armadio. Ve ne supplico - dissi, aspettandomi esattamente quello che successe. L'ometto diede ordine che l'armadio fosse aperto. Una delle guardie, senza troppa cautela, si avvicinò ad una delle due ante. Dapprima sembrò studiarla dall'esterno, poi, dopo aver appurato che dall'esterno tutto sembrava in regola, si decise a girare la chiave. Non appena l'armadio fu spalancato, un'ascia affissa alla sua parete posteriore si abbassò sulla guardia, tranciandola di netto a metà. L'armatura in argento celeste emanava fili di fumo, mentre il cuore scandiva il suo ultimo battito, quasi come un riflesso. Quasi come un tentativo, vano, di ritornare indietro. Le altre guardie, attonite, fissavano la macchia rosso sangue che quel corpo mozzato stava lasciando sul pavimento bianco, con occhi appannati dal pianto. Approfittai della distrazione di tutti per sgusciare tra le guardie e scappare, ma non ci volle molto perché tutto ciò si trasformasse in un vero e proprio inseguimento. Scesi velocemente le scale, ma verso il fondo mi inciampai, facendo un volo di qualche metro e finendo distesa sul pavimento. Mi rialzai, le braccia doloranti per la caduta, e ricominciai a correre. Corsi lungo tutti i corridoi, lanciando in aria vassoi ricolmi di cibo su cui qualche guardia scivolava e gettando per terra la servitù che costrinse gli inseguitori a rallentare per evitare di schiacciare qualcuno. Dietro di me quell'omino correva gridando: "36! 36!". Sorrisi, un senso di libertà di nuovo in volto e...

- Sas? Saas?! Ci sei? - mi urlò Drenius in un orecchio, cercando di farmi disincantare.

-S...sì. Stavo solo pensando- risposi a voce bassa, leggermente stordita dalle urla del mio amico.

-Su, dai. Le partite a scacchi non si finiscono da sole...- mi rimproverò, stropicciandosi l'unico grande occhio che gli occupava gran parte della fronte. Guardai verso il basso. Niente vestito azzurro. Niente morbidi capelli biondi sulla spalla. Adesso ero diversa. La divisa grigia dei carcerati nascondeva le mie forme e i capelli erano stati tagliati poco dopo il mio arrivo. Successivamente ero stata io a decidere di tagliarli di nuovo, tingendoli di nero e rasandoli da un lato. Odiavo ammetterlo ma la vita di principessa mi mancava, e non poco. Il cibo qui era una schifezza fin dall'inizio e ho dovuto passare le pene dell'inferno per farmi rispettare. Guardai fuori dallo sportello accanto a cui ci eravamo seduti e iniziai a sorridere. Quella parte della prigione era la mia preferita perché era l'unica in cui non si vedevano le alte mura grigie. Al loro posto, invece, potevo ammirare il resto dell'universo. La terra rossa, che si articolava in piccole dune e avvallamenti, veniva spazzata, ogni tanto, da qualche folata di vento solare. Poco distante dall'orizzonte potevo ammirare gli altri pianeti, e in particolare uno, il più vicino all'interno della fascia di asteroidi. Era un pianeta azzurro, che il suo popolo chiamava Terra. Al di là di quella parete e di quella finestrella, il Sistema Solare prendeva forma nei suoi otto pianeti, ognuno dei quali ruotava, imperterrito, seguendo i moti di rotazione e rivoluzione, che tanto caratterizzavano la loro esistenza, attorno alla stella che i terrestri chiamavano Sole. Ci trovavamo nella Via Lattea, distanti anni luce dalla Galassia di Andromeda. La mia galassia. Ricordavo ancora quando, a scuola, ci fecero studiare la nascita del sistema solare e dei suoi componenti, e ancora oggi non mi capacito di come una semplice nube di gas e materia possa aver dato origine a tutto quello che stavo guardando da dietro la finestrella del carcere. A seguito dell'esplosione di una supernova, l'urto aveva iniziato ad avvicinare la materia e la massa era diventata così elevata che il calore aveva iniziato ad aumentare, formando così il Sole. Altre aggregazioni massicce iniziarono a rotearvi attorno seguendo delle orbite ellittiche, e fu così che nacquero i pianeti. Marte, il pianeta su cui la stazione aveva avuto origine, era, ed è tuttora, il quarto dei pianeti, chiamato anche Pianeta Rosso per l'elevata quantità di ferro contenuta nel suo terreno. Dovevo ammettere, però, che le ore passate in biblioteca a leggere avevano dato qualche frutto. La letteratura terrestre era scadente, priva di nesso logico. Gli atlanti planetari e universali invece erano qualcosa di magnifico. Ritornai alla realtà, guardando Drenius in volto. Lui, di rimando, iniziò a guardarmi, preoccupato.

-Va tutto bene?- mi chiese lui, spostando da un lato gli scacchi e avvicinandosi a me. Io mi voltai, appoggiandomi con la schiena al suo petto e guardando il soffitto ricoperto da cavi che davano scintille qua e là. La luce al neon tremolava nel corridoio e gettava ombre lugubri su tutto ciò che ci circondava. Alzai lo sguardo e incontrai quello di Drenius che mi scrutava con un senso di preoccupazione. Mi accoccolai contro di lui e sospirai, pensando.

-Non mi hai più raccontato il perché ti hanno trasferito sulla Mars1...- dissi, guardando distrattamente la polvere rossa che lambiva il vetro. Lo sentii lievemente a disagio, perciò mi rimproverai per aver fatto quella domanda. Sentii i suoi muscoli tendersi mentre si metteva a sedere. Mi accarezzò una ciocca di capelli con una delle sue enormi mani e sembrò perdersi con lo sguardo in quel groviglio scuro.

-Avvenne molti anni fa... sul mio pianeta, Zakros. Un piccolo corpo celeste, circondato da asteroidi, nella galassia di Hoag. Non godevo certamente di una gran fama nella mia città, tanto che finii due o tre volte nella prigione di massima sicurezza del pianeta. Non vi rimanevo mai più di tanto, dato che mio padre è il migliore avvocato che c'è in circolazione e tra una cosa e l'altra trovava sempre il tempo di tirarmi fuori da lì. Ero spensierato, non mi facevo troppe domande o troppi problemi, così, qualche anno fa, arrivai al punto di uccidere il Cancelliere. Venni inviato immediatamente all'interno del carcere e chiuso in una delle celle di massima sicurezza. Blindata e ricoperta di telecamere per vedere ogni mio movimento. Ricordo di come mi sedetti a terra, un sorrisino sfacciato in volto, ad aspettare. Passarono i giorni e quel sorriso si fece sempre più malinconico. Continuavo a fissare la porta, nella speranza che prima o poi si aprisse. Che la guardia mi guardasse con la sua aria schifata e mi conducesse di nuovo verso la luce. Ma questo, ahimè, non avvenne. Passai i mesi lì dentro. Impazzii. Continuavo a tirare pugni sui muri e questi neppure si scalfivano. Iniziai a contare i giorni, basandomi unicamente sulle razioni di cibo che mi venivano portate e da qualche guardia compassionevole che ogni tanto mi diceva che ore fossero. Per ogni giorno facevo un segno, scavato con le unghie, su un pezzo di pavimento scrostato in un angolo della stanza. Lì, nel momento in cui iniziai a scavare la prima linea, iniziò la mia pena, poiché mi ero abbandonato al fatto di essere, e di rimanere per sempre, un miserabile carcerato. - Drenius adesso era visibilmente turbato. Il viso contratto in un'espressione sofferente e i pugni stretti, tanto che le nocche stavano assumendo una colorazione biancastra. Dal suo unico occhio scendevano, lente, lacrime salate, portatrici di tutta la sofferenza che aveva causato e provato a sua volta. Mi voltai, sentendo i suoi singhiozzi, e gli accarezzai il viso, asciugando quelle calde gocce d'acqua che glielo rigavano. Lui alzò lo sguardo, mi sorrise e scostò una ciocca che mi cadeva davanti agli occhi. Prese la mia mano celeste e la appoggiò al suo cuore, in un disperato tentativo i provare la sua umanità. Sorrisi, sentendo il lieve battito che scandiva la sua triste vita.

- Non preoccuparti. Qua nessuno ti giudica. Sarai finalmente a casa- gli sussurrai, sporgendomi un poco per raggiungere il suo orecchio. Lui mi sorrise, abbassando lo sguardo verso i suoi piedi.

-Tu, invece, come mai sei qui? Nemmeno tu me lo hai mai raccontato- disse lui con un filo di rimorso nella voce. Lì per lì rimasi spiazzata da quella richiesta. Non pensavo alla causa di tutto quello che mi era successo da molto tempo...

-Ecco... ti basti sapere che ho... ho ucciso molte persone. Troppe per tenerne il conto- mentii. In realtà il conto lo avevo tenuto per ben dieci anni. Ogni anno l'ammontare aumentava, se non negli ultimi anni, da quando ero stata rinchiusa per ordine del Re, sotto consiglio dei suoi Consiglieri personali. Mia madre non si era opposta. No. Non aveva fatto nulla. Era rimasta a guardare, dall'alto della scalinata, affiancata dalla servitù. Non avevo mai potuto contare su nessuno. Mi alzai di scatto, ma nel farlo diedi una testata sul tettuccio della nicchia in cui ci eravamo sistemati e ripiombai a terra, tenendomi la testa con le mani e urlando di dolore. Drenius cercò di trattenersi ma scoppiò in una fragorosa risata che lo fece stendere al suolo, mentre con le mani si teneva lo stomaco come se stesse per esplodere. Si piegò su se stesso e rotolò da un lato e dall'altro, senza mai smettere di ridere. Massaggiandomi la testa con una mano, con l'altra gli tirai un pugno in pancia, tanto che rimase senza fiato. Dopo essersi ripreso, il mezzo ciclope si avvicinò a me e mi abbracciò da dietro, affondando la testa nel mio collo e inspirandone il profumo. Io mi lasciai un po' andare e mi ammorbidii al tocco di quella pelle ormai così familiare e lasciai andare la testa all'indietro, appoggiandola sulla sua spalla. Rimanemmo un po' così, immersi tra rumori metallici e sbuffi di vapore, con lo stesso solito ronzio nelle orecchie del condotto di areazione che pompava aria in tutta la stazione. Quando mi alzai di nuovo, questa volta facendo attenzione a non farmi male, Drenius si alzò con me. Mi cinse le spalle con un braccio e, non troppo velocemente, ci incamminammo verso il cortile interno.

Quando arrivammo, la grande scritta rossa "MARS2" sul muro color acciaio ci accolse in quel luogo angusto. Il ciclope si mosse accanto a me, accompagnandomi lungo la strada che costeggiava il campo da Airball. Diversi carcerati si trovavano lì in mezzo, intenti a tirarsi la Palla Antigravitazionale per fare punto nei rispettivi anelli. Tra di loro riconobbi Stefra, un centimano della Galassia di Andromeda. Durante uno dei miei soggiorni temporanei nella prigione galattica di Andromeda lo avevo intravisto mentre leggeva, seduto in un angolo, una rivista di modelle di Màcronos. Da quello che avevo sentito dire, lui si trovava lì per un'accusa di centuplice omicidio. Aveva piazzato una bomba nella Sala del Consiglio di Andromeda e l'aveva fatta esplodere durante una delle riunioni. Tutti morti. Nessun ferito. Provavo una certa stima nei suoi confronti, comunque sia adesso lui si stava dedicando all'Airball, anche a livelli molto elevati. Era stato chiamato a giocare in una delle squadre più forti della nostra galassia di origine, ma la prigione non glielo aveva permesso. E adesso era lì, in quel groviglio di mani e piedi, a correre, saltare e lanciare la palla negli anelli. E non sbagliava mai un colpo. Lasciai perdere il campo da gioco, sedendomi ai bordi della stanza e appoggiando la testa sulla spalla di Drenius, leggermente nostalgica e troppo silenziosa. Così silenziosa che lui mi guardò per un po', come per accertarsi che stessi bene. Scappai da quello sguardo rassicurante e tornai ai miei pensieri, abbracciandomi le gambe e appoggiandovi sopra il mento. Iniziai ad isolare i rumori. Prima le voci, facendo rimanere soltanto il suono sordo della palla che rimbalzava per terra, lo stridio delle scarpe sul terreno da gioco, lo schioccare delle pedine degli scacchi che venivano mangiate dall'avversario. Rimasi un attimo a pensare, poi eliminai anche quei rumori. Rimase soltanto la vista. Fredda, cupa, calcolatrice. Le iridi si muovevano da un angolo all'altro dell'occhio, scrutando chiunque accennasse a muoversi in quella stanza. Nell'angolo opposto al mio, una ragazza dai lunghi capelli biondi, raccolti in due grandi code legate con nastri argentati, e gli occhi scuri, come un buco nero nella notte. Era intenta ad accarezzarsi una ciocca distrattamente mentre, di fronte a lei, un omaccione continuava a parlarle del più e del meno. I due erano una sorta di "celebrità" della prigione. Lei era la bella di turno, quella spocchiosa e stupida, lui invece era quello forte e tonto. Un'accoppiata vincente, insomma. Voltai lo sguardo verso Drenius e non mi sorpresi a vederlo guardare in direzione della ragazza, ammaliato. Ridussi gli occhi a una fessura e aggrottai la fronte, tirando un ceffone al ciclope e voltandomi poi dall'altro lato, offesa. Voltai un minimo la testa quanto mi bastava per riuscire a vedere comunque la coppietta dall'altro lato. Cercai di fare mente locale. Drenius mi aveva raccontato il perché ognuno di loro fosse lì, dato che lui era in quella prigione da molto più tempo di me. Ricordo soltanto che la ragazza, Mesty, era stata catturata in seguito al suo decimo colpo alla banca Intergalattica. Era riuscita a rapinarla per nove volte, ma durante la decima si racconta che qualcosa sia andato storto. Lei non accenna mai a ciò, probabilmente per vergogna o magari per rabbia. Era sempre rimasta un po' nell'ombra, nascondendo le parti di sé che non voleva si sapessero. Lui invece, Brutus, si poteva quasi dire fosse un giocatore di Airball per la quantità di muscoli che gli ricoprivano braccia e gambe. L'unico problema era che si sarebbe dimostrato troppo scemo anche solo per tirare una palla normale, figuriamoci una Antigravitazionale. Se non ricordo male, Brutus andò in prigione perché con un'esplosione aveva raso al suolo quasi tutta la città, compresa la casa della sua famiglia. Probabilmente non gli era mai importato granché di questa, ma restava il fatto che la città l'aveva distrutta. Mi sentii scuotere leggermente e mi voltai verso Drenius. Vidi la sua bocca muoversi ma non riuscivo a sentire nulla. Ero ancora immersa nel silenzio più totale, così pian piano tornai a sentire i rumori del pallone, delle scarpe, degli scacchi... Prima era lieve, poi divenne quasi assordante. Aggiunsi anche il suono delle voci e tutto ritornò come prima. Mi tappai le orecchie con le mani e la testa iniziò a girarmi per qualche secondo. Quando riuscii a tirare di nuovo su la testa, le figure erano sfocate e le voci si mescolavano l'una all'altra. Sentii un corpo abbracciarmi mentre mi tenevo la testa tra le mani. Stavo impazzendo? Probabile.

Mi ci volle un po' prima che mi riuscissi a riprendere. Le voci si placarono e i suoni tornarono nitidi. La vista si spannò e mi ritrovai abbracciata a Drenius, con tutti gli occhi della stanza puntati su di me. Addirittura Mesty sembrò preoccupata per me, il che mi stupì non poco. Un alto parlante lì vicino disse, con voce metallica: "La matricola 38753.36 è stata convocata al reparto visite"

Matricola 38753.36

38753.36...

36

"36! 36!". Sorrisi, un senso di libertà di nuovo in volto e un sorriso largo qualche metro che assaporava già l'aria fresca. L'omino non sembrava demordere, dimostrandosi più agile di quello che mi sarei aspettata. Ero quasi arrivata al portone, quando la grata metallica iniziò scendere, tirata giù da due guardie ai due lati della porta. Mi sfilai le due scarpe mentre correvo e una la lanciai sull'elmo di una delle due, togliendoglielo e facendole sbattere la testa contro l'ingranaggio, incastrandola all'interno. Un rivolo di sangue macchiò la ruota dentata e la guardia cessò di muoversi.

"37" sussurrai in un sorriso.

L'altra scarpa la lanciai all'indietro, colpendo in testa l'ometto che mi stava inseguendo e facendogli perdere i sensi. Sembrava tutto a posto. Tutto stava andando secondo i piani. Sgusciai fuori dal palazzo e scesi la scalinata marmorea a piedi nudi, arrampicandomi poi su un muro ricoperto da piante rampicanti. Quando vi fui in cima, corsi su di esso fino al primo tetto, su cui saltai. Corsi di nuovo e saltai ancora qualche altro tetto, poi mi fermai. Il vento soffiava contro il mio abito, facendolo svolazzare. Mi guardai intorno. Nessuno. Non c'era nessuno, oltre a me. Mi sedetti su quelle tegole bluastre e mi sdraiai, guardando il cielo. Sapevo che da quel momento in poi sarebbe stato tutto diverso. Tutto sarebbe cambiato. Guardai gli altri pianeti della Galassia di Andromeda, pensando a come sarebbe stato vivere su quelli. Pensando a quale vita avrei potuto avere. Ma i miei pensieri si fermarono di colpo, interrotti da una fitta al braccio destro. La vista si stava appannando e le forze iniziavano a mancare. Voltai la testa verso il punto dolorante e scoprii un dardo verde conficcato nel mio avambraccio. Dall'ombra uscii un uomo. Alto, massiccio. I capelli, biondi, tirati indietro su cui poggiava una corona incastonata di Zaffiri e addosso una divisa bianca con appuntate molte medaglie, accompagnata sul retro da un elegante mantello blu. Lo vidi avvicinarsi a me lentamente, inginocchiarsi e accarezzarmi la nuca, in un gesto affettuoso decisamente fuori luogo.

-Lo voglio fare per il tuo bene...- disse mio padre, prima che tutti i sensi si affievolissero fino a sparire del tutto, facendomi sprofondare in un sonno che sarebbe durato qualche giorno. Ero stata tradita da lui... Mio padre...

-Sas? Sas, riprenditi! Tuo padre è qui. Vuole vederti- mi scrollò Drenius

-Ma... non può. Non... non può vedermi. Sono in esilio. Lo siamo tutti- farneticai, confusa. Perché mio padre voleva vedermi? Cosa voleva da me?

-Non saprei... forse il fatto di essere Re ha i suoi privilegi- aggiunse lui, accarezzandomi un braccio. Non sapevo cosa pensare. Non ne avevo la minima idea. Mi alzai, lo sguardo perso, e mi incamminai verso la guardia che mi stava aspettando per scortarmi da mio padre.

Quando entrammo nella stanza, notai subito gli strati di polvere che si erano depositati durante tutti gli anni. Negli angoli giacevano addirittura dei mucchietti di sabbia rossiccia, portati lì chissà quanto tempo fa. La luce dava segno di non essere stata accesa per secoli, così come quella porta blindata che appena fu aperta mandò un cigolio per nulla rassicurante. D'altronde la sala della visite era pressoché inutile in un carcere di esiliati, ma evidentemente il progettista non ne aveva tenuto conto. Seduto su una delle sedie, davanti ad un angusto tavolino, sedeva mio padre. Era visibilmente invecchiato, durante tutti quegli anni. La barba si era fatta grigia e i capelli erano molto più spenti di prima, quasi bianchi. La corona gli pendeva da un lato sulla testa smunta e la divisa bianca sembrava andargli stretta, come se fosse ingrassato parecchio ma non volesse darlo a vedere, portando quindi la stessa divisa di qualche anno fa. Le medaglie sul petto erano sempre le stesse: né una di più, né una di meno. Appena entrammo, la guardia si inginocchiò. Io, invece, rimasi in piedi, ferma, con lo sguardo fisso nei suoi occhi color ghiaccio. Mi avvicinai e mi sedetti di fronte a lui, immobile nel suo sguardo. Adesso che ero più vicina potevo vedere visibilmente i segni del tempo che aveva agito su di lui. Le rughe sul viso si erano fatte più accentuate e la bocca era piegata in un sorriso triste. Allungò una mano come per accarezzarmi il viso ma mi scostai, quasi disgustata. Lui, titubante, la ritirò, incrociandola con l'altra sotto al tavolo.

-Sei cresciuta...- esordì lui con le lacrime agli occhi. Scossi la testa.

-Cosa vuoi da me?- risposi, secca. Non avevo voglia di perdere tempo. Non con lui.

-Tutte le galassie sono in subbuglio. Andromeda in particolare. Il Consiglio si sta disgregando. Temiamo che un membro interno stia manipolando tutti gli altri per ottenere il comando. Il Concilio dei Regnanti mi ha inviato qui perché ero l'unico ad avere dei rapporti con un carcerato esiliato. Perciò eccomi qui, a chiedere a te a ai tuoi amici di aiutarci- Adesso il suo tono si era elevato. Non parlava più per bisbigli ma la sua voce era forte e chiara. Lo sguardo era tornato quello di una volta.

-Perché dovremmo aiutarvi?- risposi secca

-Per la libertà. Ho un mandato di liberazione per ognuno di voi nel caso decideste di aiutarci a scoprire chi possa essere costui e a ucciderlo - Mio padre tirò fuori da una borsa ai suoi piedi alcuni fogli che mi porse. Li presi con mano tremante e li lessi, uno per uno. C'erano tutti. Io, Drenius, Mesty, Brutus, Stefra e tutti gli altri.

-Non credo sia il caso di portare fuori Brutus. E' leggermente stupido- aggiunsi, sorridendo appena.

-Molto bene- disse mio padre, prendendo in mano il mandato di liberazione con il suo nome e strappandolo in mille pezzi.

-Adesso può andare. Riferirò tutto agli altri.- dissi, restituendo i mandati e alzandomi in piedi, voltandomi verso la porta. La guardia aprì il passaggio e mi incamminai verso l'uscita. Sulla soglia mio padre mi chiamò, facendomi voltare.

-Io... volevo solo dirti che... sei cresciuta, Sassira. Sei diventata forte, e bella. Come tua madre-

-Non osare nominare mia madre!- gli sbottai in faccia, allontanandomi a passi veloci su quel pavimento metallico, facendoli rimbombare per tutto il corridoio. Mi strinsi nelle braccia, rabbrividendo. La divisa era fatta apposta per tenere caldo, ma in quel momento mi sentivo come se fossi nuda. Nuda in una bufera di neve.

Entrai nella mensa, avvistando Drenius seduto ad un tavolo in fondo alla stanza. Lo raggiunsi di corsa, abbracciandolo appena fui vicina a lui. Lui lanciò in aria un cucchiaio per la sorpresa ma poi mi abbracciò a sua volta, accarezzandomi i capelli.

-Oddio ma sei gelata! Come è andata?- mi sussurrò ad un orecchio

Non risposi. Mi limitai ad abbracciarlo. E allora capii che non ero affatto sola. Non ero abbandonata in quella bufera di neve, e un po' di calore mi tornò in corpo. Lui sembrò accorgersi della mia agitazione e mi rassicurò, sussurrandomi parole che a stento capivo ma di cui capivo il significato. Mi sollevai da lui e annuii, raccontandogli tutto l'incontro con mio padre, per filo e per segno.

-E' incredibile...- disse lui, una volta che ebbi finito di raccontare. Le sue mani tamburellavano sul tavolo nervosamente. Nel frattempo anche Mesty si era avvicinata e pian piano la voce si era sparsa per tutta la prigione. Il gruppo che avrebbe voluto partecipare si accalcò attorno al mio tavolo, mentre gli altri rimasero seduti in disparte, a parlare tra loro.

-Quindi il Concilio vuole farci uscire in cambio di un semplice assassinio?- sbottò Mesty, divertita.

-Semplice mica tanto. Non possiamo uccidere tutto il Consiglio, bensì soltanto il membro responsabile. Dovremmo spiarli, capire chi vogliono che noi uccidiamo e ucciderlo- spiegai, tenendo lo sguardo basso sulle mie mani.

-Sembra facile...- disse qualcuno nel gruppo

Sospirai. Sembra. E' quello il punto. Sembra facile. Ma evidentemente non lo è. Hanno scelto noi perché siamo sacrificabili. Hanno scelto noi perché anche se moriamo non gliene importerà nulla a nessuno. E loro sperano proprio in quello. Sperano che riusciamo a portare a termine la missione ma che nel tragitto il gruppo venga decimato. Ma se andremo io non lo permetterò. Tutti saranno importanti allo stesso modo. Nessuno sarà lasciato indietro... Nessuno.

Nessuno...

-Nessuno potrà aiutarla, Astolan-

-Narcissa... ne abbiamo già parlato. E' nostra figlia!-

-E' un'assassina, ecco tutto. Mia figlia non è un'assassina! Lei sì!-

Aprii gli occhi. Non riuscii a riconoscere subito le forme, ma dopo un po' tutto si fece più nitido. Ero sdraiata su una specie di tavolo in legno, in una stanza che mai avevo visto prima. I miei genitori erano lì, a litigare. Riuscii ad afferrare soltanto le ultime frasi. Tentai di sollevare un braccio ma un laccio mi bloccava all'altezza del polso. Provai con l'altro, poi con le gambe, ma niente. Ero legata. Spostai la testa da un lato all'altro, per muovere lo sguardo attorno a me. Vidi mia madre, Narcissa. Mio padre accanto a lei. Sorrisi per un momento nel ricordarli il loro primo giorno di nozze. Io ero già nata da qualche anno, così i miei genitori furono costretti a sposarsi o mio padre avrebbe perso il trono e mia madre sarebbe stata fustigata nella piazza centrale della città, essendo una banale popolana. Mi tennero nascosta per qualche anno, dopodiché fecero sembrare che io fossi cresciuta così tanto in così poco tempo. La vita a palazzo era troppo monotona, così me ne andavo sempre in giro per il paese a conoscere i bottegai o a giocare con gli altri bambini. I ricordi scivolarono lenti in quel momento che sembrava stare durando un'eternità, mentre i miei genitori decidevano. Decidevano cosa fare di me, della mia vita, del mio futuro. Vidi mio padre arretrare, sconfitto. Mia madre, vittoriosa, si avvicinò alla grata della porta e chiamò due guardie. Queste entrarono e mi portarono via. Via da loro. Via da quella vita. Credendo che così non avrei più potuto far del male a qualcuno. Ma evidentemente si sbagliavano...

Mi ripresi, questa volta da sola. Gli latri, attorno a me, stavano ancora discutendo su cosa fare. Mi alzai, ancora un po' frastornata, e feci un giro tra i tavoli, pensando. La mensa si era ormai svuotata da tutti gli altri, facendovi rimanere soltanto noi. Non sapevo cosa fare. Come farlo. Non sapevo se fosse giusto coinvolgere anche tutti gli altri. La posta in gioco era alta, ma valeva davvero le loro vite? Erano davvero consapevoli che molto probabilmente sarebbero morti, forse invano? Secondo me no, ed era proprio quello il problema. La mia coscienza mi diceva di non accettare, ma quando mai le avevo dato retta? Adesso era giunto il momento di ascoltare la mente. Mio padre aveva detto che assomigliavo a mia madre, e, forse, tutti i torti non li aveva. Era giunto il momento di uscire di lì.

Raggiunsi il tavolo, presi Drenius per mano e lo feci alzare. Richiamai l'attenzione di tutti e presi la parola, salendo su una delle sedie.

-Compagni, compagne. Cosa faremo adesso? Cosa farete, adesso? Io la mia scelta l'ho già presa. Ho scelto di provare a vivere. Ho scelto di inseguire la libertà. Perché nessuno di noi si merita di stare qui. Nessuno! Chi è con me??- sbraitai. Un urlo di approvazione si levò dal gruppo, che mi prese in braccio e mi portò in trionfo verso il corridoio. Drenius, dietro al gruppo, mi guardava, timoroso. Probabilmente non mi aveva riconosciuto, lì. Perché adesso vedeva cosa ero davvero. Vedeva quanto io fossi forte e tenace. Non mi sarei fatta abbattere, e non avrei fatto uccidere nessuno di loro. Sarebbero riusciti tutti a ritornare alla loro vita. Arrivammo all'entrata del cortile esterno, ancora sigillata. Mio padre, il Re Astolan, era in piedi di fronte al portellone. Le braccia incrociate, in attesa. Quando mi vide, un sorriso strano comparve sul suo viso. A vederlo, rimasi leggermente interdetta. Il resto del gruppo si inchinò, io ovviamente rimasi in piedi.

-Possiamo andare- dissi, avanzando verso di lui. Questo mi rivolse un sorriso, questa volta cordiale e benevolo. Non sapevo cosa pensare. Mi voltai verso gli latri, facendo cenno di avvicinarsi. Drenius mi affiancò, prendendomi per mano. Mio padre fece una faccia disgustata vedendo ciò, ma io lo fulminai con lo sguardo. Lui allora si voltò, impettito, e si avvicinò al portellone. Lo aprì con noncuranza e in poco tempo fummo fuori. Le scarpe toccavano finalmente il manto roccioso di Marte, cosa che ci era stata negata fin dal principio. Poco più avanti, una Navicella Reale, con il portellone posteriore aperto, era pronta a trasportarci fino alla Galassia di Andromeda. Stavo per tornare a casa. Stavo per tornare dove tutto era iniziato. Quando fummo tutti sulla navicella, questa partì, arrivando alla velocità della luce in pochi istanti. Le stelle diventarono un tutt'uno con l'oscurità dell'universo, mescolandosi in un dolce connubio di luce e tenebra. Strinsi la mano di Drenius, quasi istintivamente. Lui si voltò verso di me e mi sorrise, accarezzandomi la mano dolcemente. Mi avvicinai a lui e gli stampai un bacio sula guancia, facendolo arrossire. Mi voltai dall'altro lato, sorridendo. Sarebbe stato un viaggio lungo. Molto lungo. Ma la meta ne valeva la pena.

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