Quarta Prova - Lego House
Parole : 3487
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Copenaghen, Danimarca
Cara madre,
ti scrivo perché voglio che tu sappia che sono tornato qui. Qui dove la vostra vita è stata tagliata e dove la mia si è rovinata.
Tuttavia, prima di parlarti di questo, vorrei raccontarti tutte le cose che mi sono successe in questi miei ultimi giorni, perciò partirò dal principio.
Tutto iniziò circa tre giorni fa, mentre dipingevo nel mio studio di Londra. La divisa da lavoro ancora addosso e un vago odore di pollo fritto sulla pelle. Anche dopo tutti questi anni, la pittura mi ha sempre aiutato a calmarmi. Facevo scorrere il pennello sulla tela vuota, macchiandola di colore e disegnando forme che lì per lì non avevano senso. Nel fondo della stanza, una radiolina suonava Chopin, Notturno Op.9 n°1. La mente era rilassata, non pensava. Dipingeva. Dipingeva e basta. Un poco di colore a olio verde mi cadde dalla tavolozza sul pavimento di marmo nero e cercai di levarlo con un panno, ma la macchia si allargava. Sentivo i muscoli del collo tendersi, la schiena si stava incurvando lentamente e la temperatura nell'abitacolo stava aumentando. Cercai di respirare a fondo, ma la pelle stava iniziando a diventare incandescente. Presi la tela e la lanciai contro la parete bianca, macchiandola e distruggendo il dipinto che si sfracellò al suolo con un rumore sordo. La divisa stava fumando e perdeva alcuni brandelli qua e là, che volteggiavano verso il suolo riducendosi poi a semplice cenere. Attraversai a grandi falcate la stanza e afferrai la radiolina, scaraventando Chopin fuori dalla finestra. Tra i vetri rotti dell'imposta aveva iniziato ad entrare un forte vento che stava facendo svolazzare i quadri alle pareti. Molti di questi cadevano rumorosamente a terra e il vento fischiava. Tutto intorno a me era un rumore. Un fastidiosissimo rumore. E io volevo soltanto farlo smettere. Sentivo la pelle che era ormai diventata ustionante e i vestiti che avevo addosso si erano ormai inceneriti. Il mio corpo nudo iniziò ad avvolgersi nelle fiamme e l'intera stanza prese fuoco. Dalle mani iniziai a lanciare sfere infuocate per tutto lo studio e feci anche esplodere i tubetti di tempera. Tutto attorno a me era caos. Il fuoco lambiva le pareti e strappava la tappezzeria, riducendo la stanza a un insieme di cenere e fiamme.
Da lontano sentii il rumore delle sirene avvicinarsi all'edificio. Il corpo ancora in fiamme. Spaccai con un pugno i restanti vetri della finestra e uscii nell'aria fredda di una Londra invernale. Si era fatto buio già da qualche ora e il palazzo in fiamme illuminava la strada sottostante. I passanti si fermavano sotto di esso, chi portandosi le mani alla bocca nel tentativo di trattenere un urlo e chi si affrettava a prestare soccorso. Chi guardava imbambolato la danza delle fiamme e chi mi indicava, chiamando gli altri. Inspirai a fondo quell'aria umida e iniziai a salire, arrampicandomi lungo le pareti del palazzo fino alla cima dello stesso. Quando arrivai in cima, alcuni elicotteri mi avevano accerchiato, puntandomi le loro luci addosso, in un vano tentativo di capire chi io fossi. Poveri illusi. Chi fossi, lo sapevo a malapena io. Soltanto un nome e un cognome. Ecco tutto quello che mi avevate lasciato, madre. Un nome e un cognome. William Burns.
Con ancora negli occhi l'orizzonte londinese, saltai giù dal palazzo ancora avvolto nelle fiamme e, accompagnato da esse, iniziai a librarmi al di sopra delle vie di Londra, avvolto in una sfera di fuoco che illuminava la città sottostante. Quanti nasi alzati, quanti diti levati ad indicarmi. Ma io andavo dritto per la mia strada. Quella sarebbe stata la mia ultima volta a Londra, perciò mi affidai alle fiamme per farmi portare dove esse volessero.
Non impiegai molto ad arrivare. Era quasi l'alba quando iniziai a vedere all'orizzonte alcune casette colorate, un porticciolo e delle strade, deserte, illuminate soltanto dalla luce fioca dei lampioni. All'angolo tra due strade, un vecchio stava seduto sul marciapiede a suonare una musica malinconica con la sua fisarmonica, avvolto in due coperte di lana, tremante. Il sole aveva iniziato ad albeggiare e i primi gatti sonnolenti si aggiravano per le strade vuote. Alcune imposte iniziavano ad aprirsi e gli sguardi assonnati degli inquilini filtravano tra le ombre delle zanzariere. La città iniziava a svegliarsi, e con essa anche il mio corpo. Ancora all'interno della sfera infuocata, stiracchiai le braccia e non appena fui al di sopra di un palazzo schioccai le dita, facendomi tornare normale. Dalla cenere ai miei piedi si materializzarono alcuni vestiti neri, che indossai all'istante. Non tardai a riconoscere quella città. Il luogo che mi aveva visto crescere e vivere le gioie e i dolori di quel tempo passato. Copenaghen si stava destando.
Vestitomi, scesi in strada ed entrai in un bar. Mi sedetti al bancone e ordinai da bere. L'odore di alcool lì dentro era insopportabile ma cercai di non farci troppo caso. Dal vetro vedevo i negozi che aprivano le saracinesche, che accendevano le vetrine e sistemavano i cartellini con i vari prezzi e le offerte. I ristoranti che iniziavano a sistemare i tavolini fuori e un viavai di gente aveva cominciato a scorrere per le strade. Sospirai, guardando tutti quei volti. Conosciuti e sconosciuti al tempo stesso, perché in realtà nessuno conosce davvero un altro. E allora si usa un nome per catturarne l'essenza. Si usa un nome per riconoscere. Un nome per chiamare.
Pagai il conto e mi avviai per uscire dal locale ma, non appena mi avvicinai all'uscio, una ragazza entrò di fretta, facendomi sbilanciare e cadere. Subito lei si avvicinò a me per aiutarmi ma io la scansai con il braccio. Alzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi color ghiaccio.
I capelli biondi le ricadevano sul volto con un'eleganza impressionante in piccole ciocche.
Le labbra erano rosee e carnose.
E Dio, mamma, quanto era bella.
Mi alzai, rimanendo incollato al suo sguardo che guardava in basso, imbarazzato. Arrossii e me ne andai, sussurrando un debole "Scusi" mentre le passavo accanto. Mi tirai su il bavero del cappotto per riparare il collo dal vento e mi incamminai per la via, mani in tasca e sguardo perso. Dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà per non guardare indietro. Anche perché non ne sarebbe valsa la pena. Avrei dovuto vivere distaccato dagli altri, al riparo nel mio dolore. Non avrei mai dovuto affezionarmi di nuovo a qualcuno, o avrei perso anche lui. Continuai la mia passeggiata senza una fissa meta e pensai. Pensai tanto. Mi tornarono alla mente molti ricordi, come lampi alla vista e tuoni all'udito. Come lame sulla pelle e sapore di sangue in bocca. I ciottoli umidi sgusciavano sotto i miei stivali, riuscendo tuttavia a tenermi in equilibrio. Iniziai ad arrancare, quando la strada lastricata lasciò il posto ad uno sterrato che conduceva alla campagna. Riconoscevo quegli alberi. Le rocce che costeggiavano la via.
Ti ricordi, mamma? Ricordi quando, quel giorno, corsi a perdifiato lungo quella strada così lunga ma altrettanto familiare? Ricordi come tu mi abbracciasti appena fui sulla soglia di casa? Ricordi quando entrai in casa nostra, al caldo del caminetto, con le dita intorpidite? E tu allora mi facevi sedere lì accanto. Mi consolavi per i brutti voti a scuola e mi aiutavi nei compiti del giorno dopo. Mi portavi la cena in un piattino di legno e ti sedevi insieme a me, a guardare le fiamme che danzavano. Poi mi mandavi a letto, dopo avermi raccontato una delle tue storie. E quando finalmente stavo per prendere sonno papà rientrava a casa, ubriaco fradicio. Tu mi facevi segno di tacere, di dormire. Ma avevo taciuto troppo. Avevo fatto finta di dormire troppe volte. Tu scendesti in salotto e lui iniziò ad urlarti di tutto. Ti insultò. Ti malmenò. E io, tra gli spiragli della porta, stavo guardando tutto. Ricordi come uscii, allora? Ricordi come guardai papà, e come tu mi guardasti? Ricordi di come papà provò ad alzarmi le mani e di come io lo respinsi con una fiammata dal palmo sinistro? E forse ricorderai anche di come, quel fuoco che tu chiamavi "dono del diavolo" mi circondò. Ricorderai di come la casa prese fuoco e di come le travi di legno che sorreggevano il tetto ti crollarono addosso. A te come a papà.
Strinsi i pugni. Le nocche ormai bianche.
Le lacrime mi offuscarono gli occhi, e con essi la vista della vecchia catapecchia annerita, su cui la vegetazione era cresciuta nel corso degli anni. Anni che avevo passato a scappare. A scappare da me stesso. Dalle responsabilità del me stesso da ragazzo. A scappare dal mondo intero, perché nessun altro si facesse del male.
Un rumore di passi sulla strada sterrata annunciarono la presenza di qualcuno alle mie spalle. Non mi voltai. Quel qualcuno invece si schiarì la gola e parlò:
-Ehm... buongiorno. Salve sono Lily, la ragazza di prima, del bar. Volevo soltanto chiederle scusa per quanto è avvenuto e... ecco, mi chiedevo se le andasse di prendere un caffè, per farmi perdonare.
Mi asciugai il volto con la manica e ruotai appena la testa per guardare chi avesse parlato. Appena riuscii a mettere a fuoco, rincontrai quello sguardo color ghiaccio che prima mi aveva colpito. Mi voltai di nuovo, lo sguardo fisso sulla casa diroccata.
-Non ce n'è bisogno. Vada pure- risposi con la voce rotta dalle lacrime. Mi avvicinai alla rovina e accarezzai il muro di ingresso. Sentii in quel tocco anni e anni di infanzia. Anni della mia vita. Altre lacrime, scesero stavolta più copiose.
La ragazza però non sembrava volersene andare. Rimaneva lì, immobile. E mi guardava. Lo sguardo preoccupato puntato su di me. Le mani stavano giocherellando tra loro in un intreccio continuo di dita e dalla sua bocca non usciva un fiato. Mi inginocchiai, piangendo. Accarezzai quel muro, come se in un certo senso potessi accarezzare te. Te, che tra quelle mura ci eri vissuta. La ragazza allora si avvicinò a me, si inginocchiò accanto a me e mi appoggiò una mano sulla spalla. Io mi alzai di scatto. Mi voltai e la vidi arretrare un poco. Sentivo i muscoli irrigidirsi e la pelle scaldarsi. Mi tolsi il cappello, mostrando i capelli neri che stavano fumando. Lo sguardo della ragazza cambiò in un istante da preoccupazione a paura. E questo mi fece perdere il controllo. In pochi istanti ero completamente circondato da fuoco e la vecchia casa era di nuovo in fiamme. Troppi ricordi mi occupavano la mente. Tu, mamma. Papà. Io. E la casa, che cadeva a pezzi. Le travi che ti uccidevano. Travi bruciate dal fuoco. Dal mio fuoco.
Sentii il rumore dei passi che correvano sulla strada sterrata. Lily se ne era andata. Placai le fiamme con un gesto della mano e mi raggomitolai accanto al muretto della vecchia casa, tra la cenere delle sterpaglie che erano state bruciate in quell'attimo di ira. E proprio lì, come da bambino, le mie palpebre si chiusero. Come se tu fossi stata ancora lì, a dirmi di andare a dormire. E quella volta volevo darti ascolto.
Mi svegliai poche ore dopo. Il sole era alto nel cielo e le nuvole facevano a gara per coprirlo. Il mio volto venne illuminato da quella debole luce e le mie palpebre si aprirono. Mi ritrovai esattamente dove mi ero addormentato, ma dall'altra parte della stanza intravidi nella penombra un paio di ballerine azzurre, indossate da una delle donne più belle che io avessi mai visto. Lily se ne stava lì, appoggiata al muro, a scribacchiare qualcosa in un quadernino in pelle. Mi tirai su, cercando di fare il meno rumore possibile e iniziai a fissarla. Perché era tornata? Non aveva chiamato la polizia? I vigili del fuoco? Nessuno?
Mi appoggiai anche io a quelle pietre lisciate dal tempo e continuai a squadrare la ragazza.
-Spiega- disse lei, senza distogliere lo sguardo dal suo taccuino.
Io mi alzai, uscii dalla vecchia casa e mi incamminai per la strada. Dietro di me sentivo i suoi passi, ormai inconfondibili. Sempre lo stesso peso, gli stessi appoggi, l'andatura identica. Lily si era affiancata a me e non sembrava avere intenzione di lasciarmi andare senza risposte. Tuttavia io non sembravo trovare buoni motivi per dargliele.
Passò qualche ora e Lily mi aveva portato in un Bar per bere qualcosa. Ci sedemmo insieme a uno dei tavolini fuori dal locale e iniziammo a parlare. Lei mi raccontò della sua vita, del suo lavoro alla locanda lì vicino e del suo gatto, Mr. Donk. Ti sorprenderai di sapere, mamma, che è più in gamba di quello che credessi. Anche suo padre maltrattava sua madre e il tutto finì con un tentato omicidio. La madre aveva deciso di ribellarsi, ma a quale prezzo? Il padre di lei non aveva lasciato prove tangibili di tali maltrattamenti, cosicché la madre venne arrestata per aver cercato di ucciderlo. Lei ha vissuto a lungo con i suoi nonni materni e anche lei ha viaggiato molto. Mi ha raccontato di aver visitato tutta la Germania, la Svizzera e l'Italia. Di quest'ultima me ne ha parlato benissimo. Raccontava di monumenti grandiosi e piccole vie popolari, piene di persone. Il profumo del cibo in ogni dove la attirava nelle più svariate locande e in ogni città, così dice lei, ha lasciato un pezzo del suo cuore.
Non credi faccia male, mamma? Affezionarsi troppo a qualcosa? O a qualcuno?
Beh, io mi ero affezionato a quella ragazza. Forse non nel modo che immagini tu, o forse sì. Sta di fatto che quella sera, ritiratomi nell'appartamento che avevo affittato, avevo ricominciato a dipingere. Il pennello si muoveva da solo, seguendo il ritmo della melodia di Beethoven che risuonava dal locale sotto la mia finestra, lasciata aperta. Alcune pennellate veloci, al buio di quella singola candela lasciata accesa. La tela era piena, e un volto dagli occhi color ghiaccio vi si era materializzato sopra, come per incanto.
E allora iniziai a capire, mamma. Capii che forse quello che avevo fatto fino ad allora era sempre stato sbagliato. Capii che forse in quel momento qualcosa poteva cambiare. Che qualcosa poteva scattare. E quel qualcosa era mosso da una sola cosa. O meglio, da una sola persona. E da un nome. Altrimenti come potrei chiamarla. Come potrei riconoscerla in ciò che è davvero. E quel nome è Lily.
L'indomani ci vedemmo di nuovo. La mattina mi svegliai, il quadro appeso alla parete mi guardava tra quelle ciocche bionde che ricadevano sul suo viso. Mi alzai, più felice del solito. Mosso da un'emozione a me estranea. Un'emozione pericolosa. Un'emozione che mi aveva cambiato il cuore. Lo aveva preso, capovolto e reso un po' migliore.
Scesi in strada e mi incamminai verso la locanda dove lei aveva lavorato la sera prima. Mi sedetti su un muretto lì vicino e attesi che qualcuno si facesse vivo. Passò una buona mezz'ora prima che il solito viso raggiante passasse davanti alla bottega accanto a cui mi ero seduto. Lily sembrava più rilassata, più felice, quasi. Mi alzai e le andai incontro. Lei non lo nascose ma non era affatto sorpresa nel vedermi. Mi stava aspettando, diceva. E allora io la seguii.
Il posto dove mi portò era bellissimo. Un immenso giardino, immerso tra pini ed abeti, tra cui svolazzavano gli uccellini. Un canto lieve si levava da un musico in lontananza mentre il sole si stava coprendo con le sue coperte di nuvola. Rabbrividii. Mi strinsi nel mio cappotto e vidi che nemmeno Lily era messa molto meglio. Anche lei tremava e aveva la punta del naso bluastra. Le nuvole rendevano tutto intorno molto più buio e il rumore di tuoni in lontananza annunciò un'imminente tempesta.
Di lì a breve iniziò a piovere, così strinsi a me Lily e la riparai dal vento e dalla pioggia.
Il contatto. Quel contatto. Fu come una scintilla. Di colpo tutto attorno a me iniziarono a roteare lingue di fuoco che pian piano mi avvolsero tutto. Cercai di allontanare Lily per non farle del male ma quel fuoco sembrava non nuocerle. Si stava riscaldando. Aveva smesso di tremare. Adesso mi guardava negli occhi, e io guardavo nei suoi, avvolti da una sfera di fuoco. Una sfera fatta di un fuoco diverso. Alimentato non più dalla rabbia, dall'odio e dal rancore. Era un fuoco calmo, dolce e rassicurante. Un fuoco alimentato dall'amore.
Con un colpo della mano scacciai la sfera che ci racchiudeva e rimanemmo soltanto noi due. Io ancora in fiamme. Lei ancora abbracciata a me. E fu un attimo prima che le nostre labbra si toccassero, esplodendo in una dolce passione che alimentò il mio fuoco. Che lo fece brillare sempre più forte. E tanto era il calore lì attorno che la pioggia evaporava ancora prima di toccarci. Ma nessuno dei due sembrava accorgersene.
Intrappolati entrambi in un infinito turbine di fiamme e ghiaccio, che facevano a lotta in un unico cuore.
La riportai a casa, spegnendo le fiamme prima che qualcuno potesse vedermi. L'ultimo pezzo di strada lo facemmo di corsa, sotto il diluvio, tenendoci per mano e ridendo come mai avevamo fatto. Ridendo una risata di gioia. Una risata che anche in quel freddo ci aveva riscaldato il cuore.
Dovemmo costeggiare il porto per raggiungere il suo portone e qualche metro prima dell'arrivo, Lily inciampò. Le nostre mani si sciolsero per un singolo momento di incertezza da quella presa e lei finì in mare. L'acqua era così fredda che lei non riuscì a nuotare e affondò piano piano sotto la superficie del mare. In quel momento non pensai. Non mi importava della mia vita. Quella era stata già rovinata e forse poteva migliorare soltanto grazie a lei. Perciò mi tuffai. Il corpo prese fuoco in un secondo e fui subito in acqua. Nuotai più a fondo che potevo, cercando di farmi luce con alcune fiammate che si spegnevano subito. E non sentivo più fuoco in corpo. Non sentivo più aria nei polmoni. Ma dovevo salvarla.
Ed ecco che la trovai. I capelli biondi le volteggiavano davanti al viso spento e i vestiti nuotavano su di lei accompagnati dalla corrente. La presi in braccio e la portai su, in superficie. Nel frattempo un po' di gente si era affollata lì intorno, perciò porsi a loro Lily, ancora svenuta.
Le ambulanze non tardarono ad arrivare. Lei fu portata d'urgenza in ospedale e io con lei, in ambulanza avvolto da coperte per riscaldarmi. Avevo temporaneamente finito il fuoco, perciò non potevo fare altro che accontentarmi.
La notte la passai insonne.
Mamma, secondo te cosa avrei dovuto fare se non camminare avanti e indietro davanti alla sua camera all'ospedale? Cosa se non chiedere ogni tanto ai medici se c'era qualche segno di miglioramento? Cosa potevo fare? Forse avevo ragione. Forse avevi ragione. Non dovevo affezionarmi. Perché lei adesso è in fin di vita. E quella parte di lei che è ancora nel mio cuore sta lottando. Sta lottando per non farmi dare per vinto. Perché nessuno è vinto o vincitore fino alla fine. E di certo io volevo essere il vincitore.
Il giorno seguente, mamma, passavo davanti alla sua stanza e i medici mi permisero di entrare. Appena la vidi non volevo crederci. Sentii un peso nello stomaco che mi portava giù, che mi faceva sprofondare. Vedevo il suo volto pallido, bianco come la neve, e i suoi occhi color ghiaccio coperti dalle palpebre chiuse. I capelli avevano perso lucentezza e il suo viso era smunto. Mi sedetti accanto al suo lettino, prendendola per mano. Scoppiai a piangere, infossando il volto tra le lenzuola azzurre che le coprivano il corpo e inumidendole. Dopo essermi sfogato, alzai lo sguardo e incontrai il suo taccuino appoggiato sul comodino accanto. Lo presi tra le mani e, con titubanza lo aprii. Ricordavo benissimo come, una delle prime volte che ci eravamo visti, si era appoggiata al muro di fronte a me e scribacchiava su di esso. No, anzi. Adesso potevo dire cosa stesse facendo. Quando aprii il quadernino lo ritrovai pieno di disegni di paesaggi, di tramonti, di fiori e... miei. Le ultime pagine erano interamente dedicate a me. Disegni su disegni del mio volto, i capelli neri scompigliati e lo sguardo scuro. Nell'ultima pagina soltanto tre parole.
Io ti amo.
Tre parole. E queste imperterrite risuonavano nella mia mente, con un solo pensiero di fondo: Lei.
Ecco, mamma, perché ti sto scrivendo. Ho deciso che il fuoco non è il "dono di satana" che tu hai sempre visto. Il fuoco è una parte di me. Il fuoco è una parte di tutti, ma in ognuno è più nascosto. In ognuno tranne che in me.
Un fuoco alimentato dall'odio, dalla rabbia e dal rancore, distrugge.
Un fuoco alimentato dall'amore, dalla dolcezza e dalla passione, risana.
E se questo fuoco fosse alimentato dalla vita? Cosa succederebbe?
Sì, mamma. Sono pronto. Ho deciso.
Questo mio fuoco può donarle la vita. La mia vita.
E io allora ti raggiungerò.
E tu sarai finalmente fiera di me.
Perché allora, finalmente, saprò amare un po' meglio.
Con affetto,
Tuo William
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