Capitolo VIII
Hyris, 6 gennaio 1997
Questo posto è introvabile.
Sono venti minuti che giro per le strade di Ardpatrick con l'indirizzo in testa.
La sua casa sembra non esistere: forse mi ha dato l'indirizzo sbagliato, bastardo.
Oltretutto, ogni volta che giro l'angolo mi ritrovo nel posto di prima, ossia davanti al centro di assisenza sociale: è impossibile orientarsi in questo labirinto di enormi palazzi grigi.
Dopo essere finalmente arrivata davanti all'entrata della palazzina 24, mi guardo in giro cercando il campanello, ma nulla. Solamente una cassetta delle lettere arruginita e la porta d'ingresso di legno marcio. Mi faccio coraggio e spingo la maniglia d'ottone.
Un ascensore che ho paura di chiamare perché so che ci rimarrei intrappolata dentro, delle scale buie trasudanti polvere.
Eppure non mi era sembrato tipo da posti così.
Decido di lasciar perdere i miei timori su questa struttura fatiscente, e mi avventuro nello scalare i quattro piani che mi separano dal suo appartamento.
***
Le scelte possibili sono tre: a destra, di fronte, a sinistra.
Ho già provato a bussare all'entrata ma nulla, perciò dato che tutte le porte in questa casa sono aperte farò per conto mio.
Allungo il collo oltre l'arco a sinistra, la sala. Nessuno.
Prima a destra, no, è il bagno.
Facciamo quella di fronte, anche se è al buio.
La apro lentamente e faccio un po'di passi a vuoto sulla moquette perché i miei occhi si abituino, ma ora riesco a vedere che questa è la sua camera. Guardo la finestra con le persiane abbassate e sposto lo sguardo su ciò che le fessure illuminano.
Riley è sul letto, sta dormendo su un fianco.
Prega di non inciamparti anche sulla moquette e di non far cadere cose, Hyris.
Non lo svegliare.
Le mie gambe gli arrivano accanto senza aver mosso alcun tipo di disastro, per fortuna.
Mi inginocchio vicino a lui senza delle chiare intenzioni.
Sembra un angelo, nel sonno perde la sua aria scazzata. Le mie dita si muovono da sole e scostano quel paio di ciocche che gli vanno sempre sulla fronte.
Sta sorridendo nel sonno.
Sfioro le sue mani percorrendo l'intreccio delle vene sul dorso.
Sorride di nuovo, accidenti, non gli ho mai visto fare due sorrisi in un giorno solo.
Le labbra tirate sono secche, dato che le lecca e le morde ogni secondo quando è nervoso; ha delle occhiaie violacee che sono troppo grandi, sembra si sia preso a pugni con qualcuno.
Il viso si completa in un secondo, non riesco nemmeno a rendermene conto che le ciglia lunghe si aprono sugli occhi e le lentiggini diventano rosse.
Il sorriso si spegne, come una lampadina rotta che brucia tutto il circuito.
Io ne tocco i fili prendendo la scossa.
Non dice nulla per molto. Si è solo seduto con movimenti lenti, come se avessi dovuto attaccarlo e stesse studiando le mie mosse.
Mi mette un po'di timore, ad essere sinceri, perché le sue sopracciglia sono aggrottate dando un'espressione estremamente impaurita e rabbiosa.
Avevo ragione a dire che sembra un'animale selvatico, non addomesticato.
Diffida dal farsi toccare, e pure se sei nel suo raggio d'azione ti ringhia contro. Non ti attacca, però, perché è terrorizzato dal fatto che tu lo possa ferire.
È continuamente combattuto tra scappare ed aggredirti.
Finalmente si decide ad aprire bocca, chiedendomi cosa ci faccio qui.
«Me l'hai chiesto tu di arrivare» affermo guardandolo dal basso.
«Sul serio?»
«Sì, poco fa ti ho chiamato chiedendoti perché non eri venuto a scuola e tu mi hai risposto che non...» incomincio a spiegargli, ma lui mi blocca biascicando un «ok, basta».
Subito dopo si accuccia in posizione fetale, parandosi gli occhi con i palmi delle mani mettendo i gomiti sulle ginocchia, come fa sempre quando non vuole che io gli parli.
Mi avvicino a lui.
Avrei tanta voglia di abbracciarlo e sentire com'è il suo profumo, ma appena lo tocco un brivido di paura mi attraversa tutta.
Come se la sua anima fosse un serpente che striscia sulla mia spina dorsale.
Alla fine non faccio nulla, eccetto mettere i polpastrelli tra i suoi capelli. Seta di raggi del sole.
Ogni volta che lo tocco sembra diventi di marmo, impassibile.
Dopo un po'che si è abituato al contatto si muove dalla sua posizione e mi guarda per un paio di secondi.
I suoi occhi risucchiano ogni emozione dal mio corpo, la analizzano e poi me la ritornano indietro.
Perché adesso si avvicina a me?
Che gli salta in mente?
La sua fronte è vicina alla mia. Incollata.
La gola si sta annodando così tanto che diventa un gomitolo.
Le labbra bruciano come se fossero scottate: mi chiedo se anche a lui pizzichino in questa maniera.
Poi la sua bocca si sposta verso l'alto toccando la mia fronte.
Rimanendo così, i secondi si calcolano con la capacità del fuoco di avanzare sul viso.
Posso sfiorare il suo collo con la punta del naso. Sa di cuoio, di rugiada e di aria dopo la pioggia.
Mi ha stretta a lui: non me n'ero neanche accorta.
I peli del suo braccio sono ritti e pungono dietro il mio collo, trasmettono brividi fino alle cosce.
Non lo vedo in viso, ma sento ogni minima reazione del suo corpo.
Il respiro, ad esempio, che ad un certo punto si blocca come se stesse per piangere ma poi torna alla sua velocità regolare.
I tendini del collo che si muovono ad ogni piccolo movimento, come dei nastri si raso scossi da folate di vento.
Il calore della guancia che ora preme sulla mia tempia, e fa circolare il sangue molto più velocemente: una sorta di scambio di flussi.
Un peso mi comprime il petto, quello di essere ferma vicino a lui senza poter fare nulla.
La sua distanza mi fa desiderare di riaverlo accanto, ma quando è ad un centimetro da me il desiderio raddoppia.
Vorrei essere razionale, trovare un modo affinchè l'istinto non prevalga sulla mente sana.
Dovrei ripetermi che Riley è cattivo con me, che non è giusto correre qui pur di ottenere uno stupido abbraccio.
Ma quando è vicino, e mi tocca, è impossibile non cedere al calore di un corpo umano con il mio.
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