Lost Girls
Los Angeles, 2016
Elena si stiracchiò nel letto: posò i suoi fogli nel posto vuoto vicino, quella parte di letto costantemente in ordine che non era mai stata stropicciata da anima viva che non fosse stata Stefan, ma solo qualche notte, non di più.
Si appoggiò, stanca, alla testiera del letto, e si tolse gli occhiali dal viso, quasi che non avesse più saputo da che parte sbattere la testa. C'erano notti come quella in cui avrebbe pagato qualunque cifra per ricominciare, firmato qualunque contratto col diavolo pur di riprendersi gli ultimi cinque anni della sua vita.
Poi si ricordava di Stefan e le passava tutto quanto.
Non avrebbe saputo spiegare la benedizione che era stata il suo ingresso nella sua vita. Aveva quasi trent'anni, Elena, una laurea in giurisprudenza presa a ventiquattro, e un lavoro in uno dei più famosi studi legali dello Stato, ma si sentiva sempre come se le mancasse qualcosa.
La sua amica Caroline diceva che le mancava semplicemente una relazione - o, ancora meglio, una scopata -, e non importava quanto provasse a spiegarle che non poteva mantenerne una, perché non sapeva come l'avrebbe presa Stefan, lei non voleva sentire ragioni.
Secondo lei avrebbe dovuto farsi una vita indipendentemente da lui.
È facile da dire, quando hai fatto voto di non avere una relazione più duratura di una notte, dopo che il tuo fidanzato ti ha tradito con la tua migliore amica.
Erano più di due anni che Bonnie e Caroline non si parlavano per quella ragione. Lei aveva cercato di sentirle un po' entrambe, anche se aveva preso senza mezzi termini le parti della bionda, soprattutto dopo quanto era accaduto nella sua vita per colpa di un uomo.
Forse era per questo, in fondo, che si era tenuta lontano da ogni possibile interesse amoroso negli ultimi cinque anni, forse Stefan non c'entrava niente con quella scelta.
Ed erano ancora le tre di notte, lei era ancora sveglia a studiare l'ennesimo caso, e nell'altra stanza dormiva il suo coinquilino.
Come capitava da quasi tutte le sere da che aveva avuto quel lavoro, si alzò per andare in cucina a prepararsi una tazza di latte e miele: aveva abolito l'alcool ormai da anni, da quando l'aveva aiutata a prendere la decisione più stupida della sua vita.
Quella che poi gliel'aveva anche rivoltata, scombussolata e restituita orribilmente diversa. E con un unico, solo lato positivo.
Controllò il telefono, e c'era solo un messaggio di suo fratello Jeremy che le ricordava di tenersi libera per i giorni in cui si sarebbe laureato. Mancavano ancora mesi, ma conoscendola le cose gliele diceva per tempo.
Nel frattempo aveva già messo su il latte, un po' di più per sicurezza, visto come andavano le cose ormai da mesi e tirò fuori il vasetto di miele, con quello sportello che cigolava tanto forte da sembrare un gatto che miagolava per la fame.
Aveva anche cambiato posto, ma in quella cucina era una situazione generalizzata.
A giudicare da come suonò la porta che girò sui cardini subito dopo, arrivò alla conclusione che doveva armarsi di olio e sistemare tutta la casa.
«Che ci fai sveglio a quest'ora?» chiese, già sapendo che lui era là, a guardarla coi suoi occhi verdi inquisitori.
Stefan, ormai beccato in flagrante, si fece avanti. «Ti ho sentita.» disse, solo, con voce assonnata. Si stava stropicciando un occhio con la mano libera.
Lo trovò lì, sulla soglia, tutto timido come sempre. I capelli biondini tutti spettinati, e il suo unicorno sotto al braccio, tra loro c'era incastrata una copertina azzurra.
Gli tese le braccia, intenerita. «Hai avuto paura, cucciolo mio?»
Lui e il suo unicorno non si fecero attendere, mentre la coperta strisciava sul pavimento rischiando di farli cadere entrambi. Elena lo afferrò e lo prese in braccio, il suo piccolino.
«Mamma, ma il tuo letto è tanto scomodo?» le chiese, appoggiando la testa nell'incavo tra la spalla e il collo della ragazza. «Perché dormi sempre sul divano?»
Elena rise, divertita. «No, non è scomodo.» ma non rispose alla domanda.
Come poteva spiegare che era lì, che alla fine si addormentava per sfinimento? Erano più le notti che passava in salotto che in camera, e nemmeno sapeva perché.
I primi tempi aveva avuto paura per il bambino, quando aveva cominciato ad abituarlo a dormire da solo, così passava più tempo ad assicurarsi che non stesse piangendo che a preoccuparsi di accumulare qualche ora di sonno.
Inaspettatamente, si era abituato senza fare storie.
«Zia Caroline ha detto che non ti piace dormire in camera perché non hai mai compagnia.» le disse il piccolo, facendole alzare le sopracciglia, perplessa. «Posso venire io a farti compagnia.»
Elena, dalla sua migliore amica, si era sempre aspettata di tutto. Si conoscevano da tutta la vita, dalla scuola elementare quando non si sopportavano e per dimostrarlo si tiravano sempre addosso i pastelli, e di certo non si era dimenticata di quando avevano scelto lo stesso vestito per il ballo di fine anno al liceo, di come aveva fatto carte false per averne subito uno più bello, ma di sicuro non si sarebbe mai aspettata che usasse un bambino di quasi quattro anni per farla sentire una vecchia zitella.
Sospirò sconsolata. «Ti prego, tesoro, ogni volta che zia Care ti dice cose del genere, tu tappati le orecchie.»
Sospettava che se aveva iniziato già ora a tentare di manipolarlo per convincerla a uscire con qualcuno che, molto probabilmente, si sarebbe rivelato un bastardo traditore, chissà che poteva fare la prossima volta.
Meglio scongiurare la possibilità che ce ne fosse una.
«Ha detto una bugia?» le chiese, dispiaciuto.
«No, non è questo.» lo tranquillizzò subito, perché mai avrebbe voluto minare la sua fiducia in una persona che amava. «È che la zia si preoccupa sempre troppo. Lei pensa che io mi senta sola, ma ho te, non potrei mai sentirmi sola.»
Lui e Jeremy erano gli unici uomini di cui intendeva circondarsi. Avrebbe detto anche suo padre, ma i suoi genitori erano morti molto prima che Stefan nascesse, in un incidente stradale.
Lei e i suoi fratelli erano stati solo degli adolescenti, allora, e la loro zia, Jenna, non troppo più grande di loro che si era dovuta ritrovare a gestirli mentre frequentava l'Università.
Era stato difficile per tutti, poi Elena si era diplomata e si era trasferita a Los Angeles per studiare legge, in modo da andarsene da quella cittadina soffocante e, insieme, ripercorrere le orme di sua madre, quella donna a cui somigliava tanto ma che non ricordava più abbastanza da poter sapere se sarebbe stata fiera di lei.
Si domandava spesso se quella era la persona che i suoi genitori avrebbero voluto diventasse. Non che avesse molta importanza, in fondo, lei ormai era così, e doveva concentrarsi solo sul suo lavoro e sul crescere il suo dolcissimo piccino.
Un dolcissimo piccino che con le sue coccole si era già riaddormentato tra le sue braccia. Elena sorrise, e gli diede un bacio leggero sulla fronte, attenta a non svegliarlo, a volte faceva davvero male guardarlo, bello come il sole, ma sempre più somigliante a suo padre.
Ogni tanto lo rivedeva nelle sue espressioni ed era come una coltellata nello stomaco.
Prima di lui c'era stato solo Matt, la sua prima esperienza, che poi non era stato altro che una cottarella adolescenziale, sopravvalutata e portata a step di relazione, che poi, per quanto era durata, non aveva significato nemmeno granché.
Dopo era arrivato lui: capelli neri come la notte d'inverno, occhi blu come il mare d'estate - un uomo pieno di contrasti già nell'aspetto fisico - affascinante come il peccato stesso, con quel sorriso accattivante, perfettamente in grado di far sembrare la più grande stronzata del secolo come l'idea migliore del millennio.
Aveva da subito capito che sarebbe stato meglio girargli alla larga, e poi era caduta nella rete, non sapeva nemmeno bene come.
Era stato lui, il suo primo, vero amore. Quello che ti alimenta come un fuoco, e tu sei la benzina. Sei così concentrato a godertelo, ad andare avanti che non ti rendi conto che, lentamente, ti sta consumando. Quando la benzina brucia del tutto, non ti è rimasto niente, nemmeno la cenere.
Ma a lei qualcosa era rimasto, e aveva degli splendidi occhi verdi, e quella stessa malizia, che adesso era tenera e birichina, ma quando sarebbe stato più grande, sarebbe diventata il più grande problema delle ragazze della sua età.
Poi ci era voluto anche il fidanzato di Caroline, che non aveva mai conosciuto, ma che evidentemente Bonnie sì, e allora al vero amore non ci aveva creduto più.
Gli uomini erano per la maggior parte dei bastardi traditori: avrebbe cresciuto Stefan in modo tale che potesse rispettare gli altri esseri umani, maschi o femmine che fossero.
Lo rimise nel letto con cautela, gli risistemò la coperta addosso e anche l'unicorno. Lui si sistemò meglio, nel sonno, per stare comodo e la testa del pupazzo finì sotto la sua ascella. Elena sorrise, e senza fare rumore, uscì dalla stanza del figlio.
«Sogni d'oro, amore mio.» mormorò, prima di chiudere la porta.
Sperava davvero che almeno lui, nella dinastia dei Gilbert, avesse una vita felice, per quanto gli sarebbe stato concesso quando si fosse reso conto che qualcosa di diverso da tutti gli altri bambini ce l'aveva davvero: invece di due genitori ne aveva soltanto uno.
Gli era già capitato di chiedere di suo padre, ma per ora lei era riuscita a sviare il discorso senza mentire. Come le spieghi certe cose a un bambino così piccolo?
Gliene avrebbe parlato quando sarebbe stato un po' più grande, anche se aveva questo peso sul cuore, anche se gli avrebbe fatto cambiare il modo di vedere le cose. Per adesso voleva che fosse un bambino felice, e con la speranza che le cose non sarebbero cambiate tanto presto, se ne andò a letto.
«Sì, sì!» sbottò Caroline, quando, appena finito di mettersi lo smalto rosa, fu costretta a rispondere al telefono. «Pronto? Studio legale Whitmore, come posso aiutarla?»
Tentò di non suonare scocciata: di tutti i momenti in cui qualcuno poteva aver bisogno di un avvocato era necessario che succedesse proprio quando doveva asciugarsi le unghie?
«Pronto, telefono dall'asilo Camelot Kids, mi è stato dato questo come contatto secondario, visto che il primario è irraggiungibile.» parlò dall'altra parte della cornetta, quella che sembrava una ragazza piuttosto giovane. «Parlo con la madre di Stefan Gilbert?»
La bionda spalancò gli occhi. «Sono la zia, che succede?» chiese, preoccupata.
Non era proprio la zia, ma che importanza poteva mai avere?
L'altra rispose con un sospiro. «Il bambino è scappato di nuovo.» sembrava più seccata che preoccupata. E per fortuna che avevano un servizio di sorveglianza intorno al perimetro, in modo tale che i bambini non potessero finire per strada. «Forse dovreste trovargli un luogo più consono alla sua... personalità.»
C'erano due cose che Caroline Forbes non riusciva a sopportare: una erano le ragazzine supponenti che le parlavano come se lei fosse una perfetta idiota, due, non poteva proprio soffrire le suddette ragazzine sottintendere qualcosa di male sul suo preziosissimo nipotino.
«Mi stia bene a sentire, signora.» fece, incapace di trattenersi. «Se in quel postaccio, ci fosse qualcuno di anche solo lontanamente preparato o professionale non ci sarebbe bisogno di mandare un poliziotto a cercare tutte le volte un bambino di tre anni che sfugge alla vostra attenta supervisione.»
Non diede il tempo all'altra di ribattere, anche se ci provò.
«Quindi apra bene le orecchie.» proseguì la bionda. «Non si preoccupi minimamente, perché oggi è l'ultimo giorno che è costretta a vedere Stefan, dato che siete incapaci di tenerlo d'occhio credo proprio che sua madre sarà d'accordo nello spostarlo in un posto dove lavorano professionisti. Buongiorno.»
Le riattaccò in faccia, senza aspettare che dicesse qualcosa per difendersi o per convincerla a cambiare idea. Sapeva già che avevano portato Stefan alla stazione di polizia più vicina in attesa che un familiare andasse a prenderlo.
Ormai scappava quasi tutti i giorni, era stata lei la causa per la quale Elena a non si era resa conto di nulla: aveva evitato di raccontarglielo un sacco di volte, per fortuna sua madre era il capo del dipartimento e non le faceva storie se andava a prendere in stazione il figlio della sua migliore amica.
«Ehi, April!» chiamò, sventolando una mano verso la loro ultima arrivata, una stagista dall'aria poco sveglia. «Io devo assentarmi per qualche minuto, resi tu al centralino?»
«Cosa?» fece lei, scornata. «Ma la dottoressa Gilbert mi aveva promesso che avrei potuto assistere a un colloquio per un cliente!»
Aveva l'aria di chi si aggrappa a quella promessa come un cane all'osso.
Ma Caroline non voleva sentire scuse, specialmente non quel giorno. «Senti.» si avvicinò con fare minaccioso. «Io devo assentarmi per al massimo venti minuti, non possiamo lasciare il centralino sguarnito, oppure la dottoressa Gilbert, e soprattutto il dottor Saltzman ci tagliano il collo, capisci?»
Quella annuì con riluttanza.
«Oggi arriva un importante avvocato da New York, dallo studio S&S, capisci? Uno dei più famosi degli Stati Uniti, per un caso che a quanto pare è di interesse congiunto, e se non c'è nessuno ad accoglierlo, coi tuoi tailleur potrai pulirci i pavimenti di una sala giochi.» proseguì la bionda, facendole incassare la testa nelle spalle a ogni parola. «Io vado a prendere mio nipote, dopo sarò qui.»
Sperò che non le facesse pentire di quei minuti di assenza, o avrebbe avuto più di un paio di cosette da spiegare alla sua migliore amica.
Si mise il cappotto in fretta e furia e afferrò la borsetta, gridando ad April di non dire assolutamente ad Elena o Alaric dove stesse andando, che passasse pure per quella che va a fare pausa al bar sfruttando la stagista, se questo doveva proteggere la sua migliore amica da ulteriori problemi.
Le cose non andavano bene da un po', da quando Stefan aveva accidentalmente confessato che lui non aveva un papà dopo aver litigato con uno degli altri bambini per dei pastelli. Questo aveva messo in giro la voce che chiunque gli fosse diventato amico avrebbe finito per essere senza papà come lui, quindi tutti gli stavano alla larga e non esitavano a prenderlo in giro.
Aveva atteso che fosse il bambino stesso a manifestare il disagio, ma dato che Elena non aveva mai fatto cenno di sapere cosa stesse succedendo, aveva il dubbio che non gliel'avesse raccontato nonostante la promessa che le aveva fatto di farlo.
«Sei qui.» commentò sua madre, senza nemmeno il bisogno di alzare gli occhi dal suo fascicolo. «Stefan è di là, sta riempiendo di domande le nuove reclute.»
Caroline si fece stupita: il bambino di solito non parlava molto con gli estranei, anche se era estremamente curioso. «Oh.» commentò, e senza dire altro si avviò verso la stanza in cui tenevano le lezioni per i nuovi arrivati.
Erano tutti intorno al bimbo, seduto dove di solito sarebbe stato il professore, alla cattedra, e gli stavano dietro per finire un disegno.
«Questa qui è la mia casa!» spiegava il bimbo, a un ragazzo che, evidentemente, non aveva capito granché, e in effetti, quando si affacciò sul foglio c'era solo qualche scarabocchio tipico dei bimbi della sua età. «E questa è la mia mammina!»
«Okay, okay...» mormorò il ragazzo, alzando le mani in difesa, per via dell'enfasi con cui Stefan l'aveva praticamente rimproverato di non averlo capito da solo.
«Scusate...» si intromise la ragazza, a quel punto, tirando su un dito per farsi notare meglio. «...posso riavere il bimbo?»
Lui si voltò a quella voce nota e sorrise. «Sei venuta a prendermi!» trillò, felice, sgambettando per scendere dalla sedia e buttarsi tra le braccia della zia.
Caroline lo prese al volo prima di riempirlo di baci. Non le erano mai piaciuti i bambini, ma non aveva potuto fare a meno di amare quello in particolare, forse perché era così simile ad Elena che le aveva reso impossibile il contrario.
Il ragazzo, che sulla divisa aveva scritto 'Tyler' la squadrò dalla testa ai piedi, chiaramente apprezzando. «Questa è la famosa mamma?» chiese, malizioso.
Lei gli restituì un'occhiata esplorativa. «No, sono la meno famosa zia.» rispose, senza aggiungere altro, per poi rivolgersi al piccino tra le sue braccia. «Vogliamo prendere il disegno, amore?»
Lui annuì, entusiasta. «Così lo facciamo vedere anche a mamma!»
Tutto felice, tra le braccia della sua zia preferita, Stefan si lasciò condurre senza proteste fino alla macchina, non senza aver salutato Liz con un bacino umido sulla sua guancia.
Lei amava Stefan come se davvero fosse stato suo nipote, dato che a sua volta aveva amato Elena come una figlia, e come tale l'aveva trattata dopo che aveva perso la sua vera madre. Lei e Caroline erano sempre state legate, erano cresciute l'una a casa dell'altra, sempre insieme.
Poi, alle medie, si era aggiunta Bonnie, e Liz ancora non l'aveva perdonata per quanto Caroline aveva sofferto a causa sua. Aveva passato tre anni a New York, lontano da lei e da Elena, e in quei tre anni aveva conosciuto quest'uomo che l'aveva rapita, di cui aveva saputo soltanto il nome.
E ad Elena non era andata tanto meglio, dopotutto, era uscita anche lei da una storia difficile e in più si era trovata con un bimbo da crescere.
«Non dire niente alla mamma.» Stefan pregò Caroline, una volta che si chiuse lo sportello alle spalle, dopo averlo assicurato al seggiolino.
La ragazza lo guardò dallo specchietto retrovisore. «Dovremmo.»
E avrebbe dovuto farlo lei, che sapeva. Ma come si poteva dire di no a quegli occhioni? Elena diceva che il modo di guardare l'aveva preso da suo padre, e lei non faticava a capire come avesse fatto a conquistarla, e come avesse fatto ad essere una catastrofe.
«Ma sarebbe triste.» ribatté il piccolo, tirando fuori il labbro inferiore. «E la mia mamma è sempre triste.»
«La tua mamma non è triste, Stefan.» gli disse, dolcemente. «Ha solo incontrato tante persone cattive che le hanno fatto cose cattive. Non è colpa tua, lei vuole che tu stia bene.»
«Gli altri bambini dicono che è colpa mia se non ho un papà.» confessò lui, anche se lei già se lo immaginava. Era diventato improvvisamente triste, si colpevolizzava di qualcosa su cui non aveva controllo.
Ed ecco perché a Caroline i bambini non erano mai piaciuti: non avevano peli sulla lingua perché nella stragrande maggioranza dei casi non hanno idea di cosa fosse giusto e cosa sbagliato, quindi possono diventare anche cattivi.
Invece di mettere in moto, si girò verso il sedile del passeggero, arrampicandosi sulle spalliere. «Tesoro, questo non è vero.» gli disse, seria. «Non hai un papà perché... a volte i papà non restano. Non restano nemmeno le mamme, altre volte, o nessuno dei due. Ci sono tanti bambini senza genitori, questo non significa che sia colpa loro.»
Il bimbo non sembrò tanto convinto, infatti la guardava indeciso. «E che cosa manda via i papà, allora?» le chiese, sperando che avesse una risposta anche per quello.
E Caroline sapeva che non era il suo posto, quello, che non avrebbe dovuto essere lei ad avere quella discussione col figlio di un'altra, ma Elena non c'era e a certe cose non ci pensava, credeva che nascondendole sotto il tappeto finché non fosse stata pronta a parlarne, illudendosi che Stefan fosse troppo piccolo per capire - era talmente sveglio che nessuno ci credeva, quando dicevano che aveva tre anni e mezzo -, sarebbero sparite, in realtà stava facendo solo peggio.
In qualche modo, lo faceva sentire rifiutato.
«Le circostanze.» rispose, senza rispondere affatto. «Non sempre si può restare, piccolino.»
Quella frase sembrò spaventarlo. «Vuoi dire che può andarsene anche la mamma?» volle sapere, allarmato.
Fu lì che Caroline capì perché aveva scartato da subito psicologia infantile, come specializzazione: ci volevano i guanti di velluto con i bambini, specialmente con le parole.
«La mamma ti porterà ovunque lei debba andare.» disse, quindi. «Stai tranquillo. Liz è la mia mamma ed è sempre con me.»
Conosceva Elena abbastanza da sapere che piuttosto che lasciare Stefan si sarebbe fatta strappare un braccio, quindi era completamente certa di stare dicendo la verità.
Stefan sembrò convincersene, quindi annuì, più tranquillo, anche se non sarebbe stato perfettamente calmo finché non avesse abbracciato la sua mamma.
Il viaggio fino all'ufficio fu relativamente silenzioso, se non per il leggero ticchettìo della pioggia sul parabrezza, anche se Caroline avrebbe tanto voluto dire qualcosa che le avrebbe permesso di capire lo stato d'animo del bambino, che guardava fuori dal finestrino con un broncio adorabile.
«Siamo arrivati, piccolo.» lo avvisò, prima di fermarsi nel suo parcheggio, proprio dietro lo studio.
Stefan, obbediente, si lasciò scendere, e insieme corsero fino alla porta senza bagnarsi troppo, con lei che gli aveva fatto scudo con la giacca per quanto poteva.
Si scrollò di dosso le gocce d'acqua, senza notare che Stefan si era nascosto dietro alle sue gambe.
Quando alzò lo sguardo, capì per quale motivo: ricci ben definiti, capelli scuri, troppo simile alla sua migliore amica.
Non ce la fece nemmeno a salutarla.
«Non me lo dire.» la precedette l'altra, alzando gli occhi al cielo in quel classico modo irritante che aveva solo lei. «È successo di nuovo.»
Caroline non era mai riuscita a capire come avesse fatto Elena ad avere una gemella come Katherine. Erano uguali nell'aspetto fisico ma caratterialmente agli antipodi.
«Credo che tu possa giudicare da te.» rispose, soltanto, già seccata dalla sua sola presenza.
Katherine sbuffò. «Forse sarebbe il caso di parlarne con mia sorella.» suggerì, come se lei non l'avesse capito da sé. «Prima che le tue teorie da psicologa alternativa rovinino l'infanzia a quella povera creatura.»
Stefan si strinse di più alla sua zia preferita, perché di quella naturale aveva sempre avuto timore. Katherine non gli aveva mai dimostrato granché affetto, e questo perché lei non lo faceva con nessuno. Dopo che erano morti i suoi genitori, si era trasferita in Canada da uno zio e non si era fatta più sentire nemmeno dai suoi fratelli.
Elena ci aveva riallacciato i rapporti da poco, quando lei si era fatta finalmente trovare, e aveva deciso di iniziare la sua carriera da investigatrice proprio per quello studio legale.
Caroline accarezzò la testa del bambino. «Stai zitta, Katherine.» le intimò, e accennò al bambino in modo abbastanza eloquente. «Pensa al tuo lavoro che io penso al mio.»
Lei arricciò semplicemente le labbra, prima di appoggiarsi alla scrivania di April con quel suo fare da femme fatale. «Già... dobbiamo ricevere quel pomposo avvocato di New York.» le ricordò, e mentre Caroline tornava al suo posto, accompagnata da Stefan, le rivolse uno sguardo stupito: avrebbe dovuto essere già arrivato. «Non guardarmi così, non è colpa mia se questi tipi si fanno desiderare.»
April era evaporata, probabilmente aveva seguito Elena nonostante le sue minacce, e adesso avevano un avvocato mancante, presunto in ritardo.
«Oh, adesso perfino gli uomini si fanno attendere!» borbottò, scuotendo le mani, esasperata.
Fece cenno al bimbo di sedersi accanto a lei, alla scrivania, e recuperò un pacco di fogli bianchi su cui poteva liberare la sua fantasia e la sua passione per il disegno.
Certo, per ora erano soltanto scarabocchi, ma almeno aveva come intrattenersi.
Katherine lanciò solo uno sguardo al nipotino. «Potrebbe anche essere una donna, sai? A proposito, dov'è mia sorella?»
L'aveva già cercata in ufficio e al telefono nemmeno si era disturbata di rispondere, quindi era occupata, anche se lei non sapeva in cosa, e ultimamente lo sapeva sempre, quindi la cosa le aveva fatto saltare i nervi.
La bionda sembrava goderne, ma non la fece rimanere nella sua ignoranza ancora per molto.
«So che doveva vedere un cliente, è finito in ospedale e voleva sporgere denuncia contro un tipo per avere un risarcimento.» le spiegò, con superiorità: per una volta sapeva una cosa che lei non sapeva.
Katherine scosse le spalle. «Allora vado nel mio ufficio, chiamami quando arriva il grande avvocato.» mimò quella parola con le virgolette, come se non credesse affatto che potesse essere chissà quale pezzo grosso. «E se Alaric esce dalla sua tana, digli che ho quella roba che gli serviva.»
Caroline era esterrefatta: «Potresti anche bussare e dirglielo da sola!» si lamentò, scioccata da tutte quelle pretese.
Quando c'era Katherine in ufficio lei, praticamente, non aveva vita.
L'altra la squadrò con aria supponente. «A cosa serve una segretaria se non fa la segretaria?» le chiese, in tono retorico. «Quindi, avvisami. Soprattutto per la storia del tipo di New York, c'è qualcosa che puzza.»
Anche lei aveva dei dubbi su quella storia dell'avvocato. Insomma, perché mai uno studio di New York, uno dei più famosi, tra le altre cose, avrebbe dovuto chiedere a loro aiuto o comunque una collaborazione su un caso?
Suonava così strano che non ci credeva nemmeno un po'.
«Non ti sta simpatica zia Kat, vero?» chiese, invece, Stefan, distraendola dai suoi ragionamenti, mentre l'argomento di conversazione si era chiuso nel suo ufficio, per fortuna.
Caroline si ritrovò a sbuffare. «E a chi sta simpatica quella vecchia bisbetica?» le sorse spontanea, come risposta.
Non si era mai trovata bene con lei, era sempre stata troppo diversa, troppo... troppo Katherine per piacerle, e non solo perché le soffiava sempre i ragazzi più carini a scuola, o perché anche se era capo cheerleader le ragazze facevano quasi sempre riferimento a lei. No. Aveva iniziato ad odiarla sul serio quando le aveva soffiato il posto prima come reginetta del ballo e poi alla cerimonia dei diplomi quando l'aveva fatta inciampare e il discorso l'aveva fatto lei.
Certo non era stata peggio di Bonnie.
Stefan sembrava confuso. «Che vuol dire bisb... bise...tica, zia?»
Stronza. Vuol dire stronza. «Una persona molto... difficile. Sai, quelle che non sai mai come ti devi comportare.»
Nel senso che non sai se devi prenderle a mazzate o direttamente strozzarle e liberarti del corpo. Ma non era una cosa che si può suggerire a un bambino, no?
Tanto prima o poi sarebbe stato in grado da solo di immaginarsi modi per mettere a tacere per sempre quella strega.
I suoi piani di vendetta furono interrotti da un leggero bussare alla porta. Era a vetri, quindi Caroline riuscì a vedere l'uomo che bussava anche dalla sua postazione: era alto, moro, sotto un ombrello, cercava di riuscire a guardare dentro, ma il vetro era fatto apposta per impedirlo.
Aveva un ché di familiare, quel tipo elegante.
Un momento.
Lei lo conosceva quell'uomo elegante.
Si alzò e aprì la porta perplessa. «Che cavolo ci fai, tu, qui?» chiese, senza nemmeno salutare, ma lo abbracciò come se fosse stato un vecchio amico.
L'uomo sorrise ricambiando la stretta con qualcosa di pericolosamente simile all'affetto. «È un piacere rivederti anche per me, Barbie.» le disse, invece. «Piuttosto, tu che ci fai qui.»
La ragazza ancora non riusciva a credere che Damon Salvatore avesse messo piede nell'ufficio dove lavoravano, in quello studio legale che al confronto col suo, era di provincia.
«Io qui ci lavoro.» rispose, e subito dopo gli fece spazio per accomodarsi.
«Ah.» commentò lui, sorpreso. «Be', io sono l'avvocato di New York, credo che Sarah abbia parlato con te, a questo punto.»
Caroline proprio non sapeva cosa dire, non si aspettava che un pezzo del suo passato arrivasse fisicamente a bussare alla sua porta. Non vedeva o sentiva Damon da quando aveva piantato quel traditore di suo fratello e quell'infame della sua ex migliore amica, subito dopo averli beccati a letto insieme.
«Ehi, hai avuto un marmocchio?» le domandò, ancora, l'uomo, ancora più costernato.
«Cosa?» fece lei, smarrita perché vittima di ricordi dolorosi. Ci mise un po' a ripetersi la domanda nella testa. «Oh, no... ma scherzi? Questo è il figlio della mia migliore amica.»
Stefan tornò a nascondersi dietro le gambe della zia, timido.
«Fai la segretaria e la babysitter nello stesso orario di lavoro?» chiese Damon, accovacciandosi per scrutare quel faccino familiare. «Ti facevo multitasking, ma non così tanto.»
Intanto, Caroline incoraggiò il bambino a farsi avanti con una leggera spintarella.
«No, la madre è uno degli avvocati dello studio.» spiegò, e sorrise incoraggiante al piccolo quando la guardò dubbioso. «E lui è scappato dall'asilo, qualcuno doveva prendersene cura.»
Visto che della gente pagata per farlo sembrava incapace di svolgere quel compito.
Accarezzò distrattamente i capelli biondi del bambino, che si era praticamente infilato una mano in bocca per avere una scusa per non parlare.
Damon gli sorrise. «Però... così piccolo e già così indisciplinato.» commentò. «Mi ricorda quasi me alla sua età.»
Peccato che lui fosse stato un pochino peggio. Ed ecco perché dei figli di suo padre, non era mai stato il preferito fin da subito.
«Anche tu scappavi dall'asilo?» Caroline non aveva nessuna difficoltà a crederlo, conoscendo il tipo.
«No, io volevo fare arrabbiare mio padre.» poi tese la mano al bambino. «Sono Damon.»
Il piccolo lo guardò corrucciato e finalmente trovò il coraggio di parlare. «Non si fanno arrabbiare i genitori.» strinse la gamba della zia, piuttosto che la mano dello sconosciuto. «Mi chiamo Stefan.»
Damon sembrò paralizzare, a quel nome.
«Stefan...» accarezzò quelle lettere sulla lingua come se gli ricordasse qualcosa di passato e doloroso. Si riprese subito, quando osservò il bambino guardarlo perplesso. «Vedi, Stef, mio padre non era un buon papà, per questo si meritava che lo facessi arrabbiare.»
Era così simile... l'uomo quasi non riusciva a crederci. Ecco dove aveva creduto di aver rivisto la sua faccia, così uguale a quella che aveva visto crescere.
«Smettila di traviare il bambino!» lo rimproverò Caroline, dandogli una spintarella che lo fece sbilanciare. «Perché non aspetti nell'ufficio che arrivi sua madre e basta?»
Damon si tirò su, sistemandosi la giacca, risentito. «Quale ufficio?»
Non aveva di certo affrontato un viaggio in una economy - questo è quello che succede quando lavori con incompetenti! - con i neonati frignanti per essere trattato in quel modo. Scambiare due chiacchiere andava anche bene, ma non si vedevano da anni, non ce la vedeva proprio tutta questa confidenza.
Non era abituato - o più abituato - ad essere trattato da pari a pari con le persone che lavoravano con lui, segretarie specialmente.
«In fondo al corridoio, la porta sulla sinistra.» gli rispose, poi gli puntò contro un dito. «E lascia in pace il bimbo.»
L'uomo le rivolse un'occhiata storta: non gli poteva importare di meno dello scricciolo, anzi, era più votato a stargli lontano, dopo i ricordi che aveva riesumato della sua famiglia.
Chissà come mai.
«Ci metterà molto? No, perché devo riprendere l'aereo, se faccio tardi alla prova dell'abito Enzo mi ammazza.» forse nominare lui e l'evento correlato l'avrebbe zittita una volta per tutte, dopotutto, il tradimento era una cosa che non passava mai.
Ma se mai l'aveva pensato, non conosceva bene Caroline.
«Quale abito?» chiese, infatti, curiosa.
«Quello da testimone, sul serio?» le disse, scocciato.
Parlava come se lei avesse dovuto sapere di che si trattava, e ne fu immensamente irritata: «Sul serio, cosa? Chi si sposa?»
Damon roteò gli occhi, si comportava veramente come se lei stesse facendo la gnorri di proposito.
«Mio fratello.» sganciò quella bomba senza rendersene conto, solo dopo gli venne il dubbio che potesse aver fatto una gaffe enorme. «Non lo sapevi?»
Dal silenzio dietro cui si era trincerata una che aveva sempre considerato un'irreparabile chiacchierona, capì che no, proprio non aveva idea che il suo idiota di un fratello stesse sposando la più grande rompipalle della storia.
Non mancò di commentare anche quest'aspetto: «Se può farti stare meglio, è una grandissima rompicoglioni.»
Aveva sempre preferito Caroline, era più frizzante e, nonostante fosse totalmente incapace di farsi gli affari suoi e fosse talmente invadente da risultare opprimente, almeno era una persona allegra.
«Congratulazioni.» fu ciò che invece disse la ragazza, molto interessata all'inesistente polvere sulla maglietta di Stefan che non aveva idea di cosa stessero parlando.
Damon ci tenne a sdrammatizzare: «Condoglianze, vorrai dire.» le diede una leggera pacca sulla spalla. «Li avrò tra i piedi insieme per il resto dei miei giorni!»
Troppo scioccata per la notizia, non fermò nemmeno Stefan che aveva seguito il loro nuovo ospite, anche a costo di farlo traviare - la curiosità aveva avuto evidentemente la meglio sul timore -, nello studio della sua mamma.
Mamma che arrivò trafelata poco dopo, e mise da parte l'ombrello rotto che grondava acqua, troppo occupata a controllare il cellulare a capire perché mai ci fosse una chiamata dell'asilo.
«Il tuo avvocato, non ci crederai, è il fratello del mio ex.» Caroline esordì così, non appena le passò davanti. «Lo sapevi che Bonnie si sposa?»
Elena tirò su lo sguardo, incredula. «Bonnie si sposa?!» non poteva essere che non avesse detto niente nemmeno a lei... no? «No!»
L'aveva sentita di recente e non le aveva accennato assolutamente a un matrimonio... com'era possibile che non fosse stata invitata? Era certa che sarebbe stata una delle damigelle, se non proprio quella d'onore, nel caso fosse dovuto capitare!
«Non siamo state invitate?» chiese, ferita, a nessuno in particolare.
Caroline, improvvisamente impegnata a sistemare delle carte, si strinse nelle spalle. «Apparentemente.» mostrava noncuranza, ma non sapeva se era più arrabbiata perché si sposavano o perché l'aveva saputo per caso.
«Ma...» Elena fece per domandare altro, prima di ricordarsi che il lavoro era più importante, e che era tornata allo studio per un motivo. «Da quanto aspetta l'avvocato?»
«Dieci minuti al massimo.» replicò l'altra, ora con l'espressione meno dura. «Lo sta intrattenendo tuo figlio.»
Completamente stranita, la ragazza corrugò la fronte. «Cosa ci fa qui, Stefan?»
Prima una chiamata dell'asilo e poi Stefan che era da loro, se c'era qualcosa di dritto in quella giornata, ancora non sapeva cosa diamine fosse.
«Storia lunga, dobbiamo parlare di questo.» tagliò corto la bionda, accennando con la testa al suo ufficio. «Ma dopo.»
Elena non poté fare altro che trovarsi d'accordo, anche se con riluttanza. «Sì. Decisamente.»
Suo figlio veniva prima di ogni altra cosa, ma per prendersi cura di lui aveva bisogno di non essere licenziata. Non che, dopotutto, avesse un padre su cui fare affidamento, perciò non poteva fare altrimenti.
Controllò il suo tailleur prima di entrare nell'ufficio, non avrebbe mai voluto dare l'idea che in quello studio lavorasse gente trascurata.
Un avvocato della S&S avrebbe di sicuro notato tutti i particolari.
Aprì la porta con una strisciante sensazione che ci fosse qualcosa di irrimediabilmente sbagliato, ma notò l'avvocato solo con la coda dell'occhio, tutta l'attenzione calamitata dal piccolino dai capelli biondi e gli occhi verdi che le regalò un sorriso luminoso.
«Mamma!» strillò il piccino, subito scendendo con un saltello dalla sedia su cui si era faticosamente arrampicato.
Corse felice nelle braccia della sua mamma che non esitò un minuto per sollevarlo e spalmargli un bacione sulla guancia.
«Amore mio!» lo salutò. «Stai bene, è tutto okay?»
Lui annuì. «Sì, certo.» confermò, con il suo bel sorriso ancora sulle labbra. «Lo sai che oggi ho disegnato con i poliziotti? Ho fatto casa nostra!»
Si rese subito conto che era una cosa che non avrebbe dovuto dire, non appena Elena spalancò gli occhi, incredula.
«Cosa hai fatto con chi?» chiese, ma in modo retorico, aveva capito alla perfezione. «Che ci facevi alla stazione di polizia?»
«Ops...» mormorò il bambino, sbattendo gli occhioni per farle tenerezza. «Niente, mammina. Giuro.»
Fece alla svelta a scendere dalle sue braccia, sperando di non beccarsi qualche ramanzina, ma Elena aveva già capito che la discussione con Caroline non poteva essere rimandata, in barba all'avvocatone di New York.
«Mi dispiace, dottor Salvatore, io...» stava per spiegargli che non poteva parlare del caso, almeno non quel giorno, quando fu folgorata dai suoi occhi azzurri.
Occhi azzurri che conosceva dolorosamente bene, dato che popolavano i suoi incubi peggiori e i suoi sogni inconfessabili ogni dannata notte da che erano spariti dalla sua vita.
«...cosa ci fai tu qui?» concluse così, il tono da formale era diventato duro come il granito.
Lui sorrise, pieno di quella bellezza e di quella malizia che non aveva mai potuto scordare. «Ciao, Leni.»
Perfino il suo vecchio soprannome, pronunciato da quelle labbra, aveva una sfumatura musicale che non aveva se a dirlo era chiunque altro.
Sapeva di miele e veleno, proprio come lui.
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