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Capitolo 8

Capitolo 8

Gli abitanti della piccola cittadina di Earlsfield avrebbero ricordato la mattina di quel 15 settembre 1979 per molti anni a venire.

Di per sé, non era iniziata come una giornata particolare: il sole era sorto alle sei del mattino; gli uccellini avevano preso a cinguettare prima ancora che i raggi dell'alba potessero sfiorar loro le piume; il furgoncino del latte era passato pigramente sulle strade ancora desolate e il motore della vecchia ferraglia, probabilmente risalente all'anteguerra, aveva lanciato quale sbuffo contrariato quando, a metà di una salita, il conducente aveva osato ingranare una marcia più alta; la signora Newman era uscita – rigorosamente in vestaglia e ciabatte, i capelli bianchi intrappolati in un nido di bigodini – e con la sua calma esasperante aveva cominciato a riempire di croccantini le decine di ciotole sparse qua e là nel suo giardino.
Una giornata tipo, per così dire.

Eppure, celato sotto quella quiete apparente, qualcosa era accaduto. Lo si poteva percepire nell'aria: era come se il mondo avesse rallentato per qualche secondo e, sospesa nel tempo, quella mattina scorresse più lentamente.

Forse la normalità fu interrotta anche dalla comparsa, nel lungo viale alberato, di un uomo dalla stazza troppo improbabile per poter essere vera: una figura alta e massiccia, dai lunghi capelli scuri e ingarbugliati, dalla cui barba – anch'essa voluminosa – la signorina Fitzgerald (una donna sulla sessantina, la più zabetta dell'intero vicinato, sempre con il naso ficcato oltre le tende della cucina per poter spiare meglio i dirimpettai) avrebbe giurato aver visto spuntare un topolino, o comunque una piccola creatura che mai, in tutta la sua vita, aveva scorto nelle barbe altrui. Fatto sta che il gigante procedette per il vialone con una camminata abbastanza goffa, avvolto in una stranissima palandrana marrone slavato dall'aria molto pesante – fin troppo, dato che l'estate non ancora era finita.

Forse, agli occhi della signorina Fitzgerald, la comparsa del particolare intruso sarebbe potuta anche passare di mente, se alle sue spalle non fossero spuntate – apparentemente dal nulla – altre figure di persone vestite in modo troppo inusuale: pareva quasi che fosse stato organizzato un ritrovo di qualche ossessionato di abiti retrò, dalle tuniche lunghe ai cappelli dalla punta affilata come coltelli. Donne, uomini e persino bambini si affrettavano lungo la via principale di Earlsfield. Tutti, però, avevano una cosa in comune: erano vestiti di nero.

Un rumore improvviso fece sobbalzare la povera vedova. Ad eccezione di qualche cugina inopportuna e parenti per niente benvoluti, nessuno bussava alla sua porta. Quindi, quando tre tocchi rimbombarono nella sala e per il corridoio, Geraldine aggrottò le sopracciglia.

Probabilmente sarà qualche venditore ambulante, pensò. Quanto li detesto, i venditori ambulanti.

Si trascinò verso l'ingresso sincerandosi di trascinare sonoramente gli zoccoli in legno e di metterci il più tempo possibile – magari se ne sarebbero andati. Invece, bussarono ancora.

«Arrivo!» ringhiò, ma quando spalancò la porta, ciò che le si palesò davanti agli occhi era lontano anni luce da quello che si sarebbe mai immaginata.

«Buondì» la salutò un uomo dall'indecifrabile età, scrutandola da sopra dei particolarissimi occhiali a mezzaluna.

Geraldine non seppe mai se ciò che la colpì di più fu l'improbabile tunica lillà del signore, la barba talmente lunga che aveva dovuto arrotolare più volte in uno chignon per evitare che lo intralciasse durante la camminata o il gatto, ai loro piedi, che la fissava con uno sguardo decisamente accusatorio.
«Salve».

«Lei è la signorina Fitzgerald?» le domandò molto educatamente.

«Già, e lei è...?»

«Glielo direi, se non fosse che tra cinque minuti – se non di meno – se ne sarà già dimenticata» sorrise l'uomo.

«Come, scusi?». Le narici di Geraldine fremettero, mentre una vampata d'ira le inondava il volto di sangue. Ma come si permetteva? Le aveva appena dato della stupida?!

«Bene, vedo che siamo già a buon punto. Posso accomodarmi?»

Dal viso della donna, era chiaro che non potesse.

«Sarebbe molto più semplice se lei adesso aprisse la porta e mi invitasse per una tazza di tè». Nel momento esatto in cui pronunciò la frase, il gatto ai loro piedi, statuario fino a quel momento, si fece le unghie sulla preziosissima scultura di legno che, anni prima, la donna aveva acquistato in Marocco.

«Sciò!» urlò la signorina Fitzgerald, ma l'animale non si mosse. Anzi, dopo una seconda occhiata di sufficienza, sfoderò gli artigli e riprese il lavoro.

«È suo?» domandò la donna, infinitamente scocciata.

«Oh, no. Non mi permetterei mai di esercitare alcun potere sulla professoressa McGranitt. Che resti tra noi» aggiunse poi, in un bisbiglio «è abbastanza vendicativa. Potrei rimetterci la carriera» annuì.

A quel punto, Geraldine seppe di trovarsi davanti a un perfetto idiota. Aveva appena dato il grado di professore a un gatto, e aveva anche rimarcato questa sua convinzione procedendo con il discorso.
«Va bene. Ascolti, è molto presto e sinceramente ho appena visto passare un uomo davvero strano» e, nel dirlo, rivolse all'uomo uno sguardo quasi compassionevole. «Penso proprio che lei abbia sbagliato casa. Ora, farebbe meglio a prendersi la sua... professoressa McGramiz, o come si chiama, e andarsene altrimenti...».

Mentre ancora parlava, il gatto soffiò e, sotto gli occhi stupefatti della signorina, si trasformò in una donna sulla cinquantina, dai capelli raccolti rigidamente in una crocchia in cima alla testa e occhiali tondi appoggiati sul naso.

«È McGranitt» la corresse, con una punta di acidità nella voce. «Ora, può invitarci ad entrare, o posso sollevarla di peso e invitarmi da sola» disse.

Geraldine, incapace di muovere un muscolo, continuò a fissarla immobile.

«Per Merlino!» sbuffò l'altra donna. «Sapevo che sarebbe stata un'enorme scocciatura» e, con un colpo di bacchetta, sollevò di peso la signorina Fitzgerald. Dopodiché, tutti e tre varcarono la soglia e scomparvero dalla vista.

- - -

«Hagrid!».
Una voce giovane si levò alle spalle del mezzogigante.

«Remus, ciao! Che ci fai qui? Pensavo che ci trovavamo direttamente dagli altri» disse il Guardiacaccia di Hogwarts. Per l'occasione, sfoggiava l'abito più elegante dell'armadio – anche se agli occhi di Lupin pareva solamente un enorme orso grizzly –. Appena vide il ragazzo, si affrettò ad asciugarsi un'enorme lacrima dalla guancia, mentre cercava nelle tasche grandissime una tovaglia per soffiarsi il naso. «Mi spiace che mi vedi così. Non ce la faccio...» singhiozzò.

«Lo so» mormorò il ragazzo, battendogli una mano sul braccio. «Hai visto gli altri?».

«No che non ho visto nessuno. "Comparite separati", ecco cosa mi hanno detto! Stavo aspettando il professor Silente e la professoressa McGranitt; sono andati a cancellare la memoria a una signora babbana, sì».

«Inizio ad incamminarmi, devo trovare Lily» disse e, con un cenno della mano, se ne andò.

Mentre avanzava, si accorse di aver stropicciato nella tasca dei pantaloni il discorso che aveva scritto e che avrebbe dovuto leggere. Lo sfilò e cercò in tutti i modi di spianare la carta consumata, senza alcun risultato. Lasciò perdere con uno sbuffo e ricacciò le mani nelle tasche.

Man mano che si avvicinava al luogo del ritrovo, sempre più gente compariva intorno a lui: maghi e streghe di ogni età si Materializzavano ad ogni angolo, tutti con indosso abiti estremamente eleganti. Molte donne piangevano, i volti affondati in grandi fazzoletti di pizzo.

Il malandrino percepì una fitta alla bocca dello stomaco. Si era ripromesso di non crollare, non davanti ai propri amici, ma non era più sicuro che ce l'avrebbe fatta.

D'un tratto, una mano pallida gli afferrò il braccio e la voce di Lily lo riscosse dai propri pensieri. «Remus».

«Ehi» disse lui, in un sussurro.

La ragazza, di una bellezza spiazzante, indossava un semplice abito nero dall'ampia, ma non volgare, scollatura e le maniche corte. Tra le braccia stringeva un coprispalle scuro e i capelli fiammeggianti e ormai lunghi erano raccolti in una coda alta, dalla quale fuoriuscivano ciocche sbarazzine.
Lo osservò in silenzio, poi si avvicinò e lo abbracciò piano, con quella sua dolcezza infinita che solo Lily Evans sapeva infondere.

Il ragazzo rimase fermo per qualche istante, poi le passò piano le mani intorno ai fianchi e la strinse a sé quasi con disperazione.

«Andrà tutto bene» gli sussurrò a qualche centimetro dall'orecchio. «Andrà tutto bene».

E lui ci credette, per un momento.
Lily Evans aveva quella capacità: trovare il bene persino nei momenti peggiori. Era un'ancora, un punto fermo per Remus. Non solo era sua amica; era sua sorella, la sua più intima confidente, la persona che più lo aveva aiutato nei suoi momenti peggiori. Quando erano crollati, lo avevano fatto insieme e, allo stesso modo, si erano rialzati.

«Ho paura» le confidò.

La ragazza si fece indietro e lo osservò, seria. «Anche io, ma dobbiamo essere forti per gli altri, se non per noi. Hanno bisogno della nostra forza» rispose.

Remus annuì e, quando Lily si spostò e distolse lo sguardo, si asciugò velocemente una lacrima dalla guancia.

«Andiamo. Sta per cominciare».

«Dove sono gli altri?».

«Davanti».

Percorsero la lunga navata di quella chiesa improvvisata sotto lo sguardo di tutti. Sapevano che stavano osservando proprio loro, riconoscendoli come due dei ragazzi che avevano affrontato Lord Voldemort... due che erano sopravvissuti.

Remus guardò davanti a sé e, con una stretta al cuore, posò gli occhi chiari sulle due bare avoriate ai piedi dell'altare.

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Tre giorni prima

«Hai capito che devi dire?».

«Sirius, me l'hai ripetuto così tante volte che probabilmente lo sognerò stanotte» ribatté Lily, avanzando.

Camminavano in un campo di grano, al buio, illuminati solo dalle bacchette levate davanti ai loro volti.

«Cerca di non fare casini» sbuffò Felpato.

«Senti chi parla!» esclamò la Evans, incrociando le braccia al petto. «Oggi hai quasi rivelato la nostra posizione a due Mangiamorte di passaggio» gli ricordò, alludendo alla Smaterializzazione molto azzardata del ragazzo.

«Erano girati dall'altra parte» replicò lui, gonfiando le guance. «Non si sarebbero accorti nemmeno se gli fossi caduto sopra».

Lily si limitò a fare una smorfia, perché nel frattempo erano giunti alla porta della Tana.

Sirius bussò tre volte, poi ancora due e poi di nuovo tre.

Una voce femminile, all'interno, giunse lievemente ovattata: «Chi è?».

«Sirius e Lily» rispose la ragazza. «I miei genitori sono babbani, Helen e Quentin. Mia sorella è una stronza pazzesca, Petunia. Sirius è mio compagno di scuola da sette anni, lo chiamano Felpato per ragioni a me sconosciute e fa coppia fissa con quell'imbranato di Potter».

Un clack echeggiò nel legno scuro, poi la porta sparì e lasciò spazio al volto solare di Molly Weasley.

«Ragazzi!» salutò, spostandosi per farli accomodare. «Che ci fate qui? Pensavo che foste tutti a casa tua, Lily».

«Sì, beh... ho dimenticato dei libri che mi servono per l'ammissione all'Accademia degli Auror. Quando me ne sono andata non ho fatto caso a quello che mettevo in valigia» rispose la Grifondoro, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Sirius?».

Una seconda voce femminile, più roca, giunse dal salotto.

Il volto del ragazzo si adombrò lievemente. «Dorea?».

«Sirius!!». La madre di James corse attraverso la piccola casa e strinse il malandrino tra le braccia, affondando il volto nel suo petto. «Dove sei stato?» domandò, allontanandosi e sistemandogli i capelli via dal volto. «Io e Charlus eravamo preoccupatissimi. Pensavamo che...».

«Che fossi andato a cercare James?» sorrise lievemente il ragazzo.

Dorea annuì e una lacrima le corse lungo la guancia. «Abbiamo perso un figlio» disse con voce tremante «non possiamo perderne un altro».

Sirius contrasse la mandibola e l'abbracciò nuovamente, posando il mento sulla testa della donna e chiudendo gli occhi. «Mi dispiace» bisbigliò.

«Sirius, brutto incosciente!» esclamò il signor Potter, comparendo dalla cucina. «Hai idea di quanto sia stata tirannica Dorea con solo me in casa?! Non c'era nessun altro su cui potesse riversare le faccende domestiche», ma dicendolo, sorrise.

Lily, alle spalle della famiglia, non poté trattenere un sorriso. Era stupefacente come Sirius fosse diventato un vero e proprio membro della famiglia Potter. Non c'era differenza, per i due genitori, tra lui e James. Erano entrambi figli loro e, in quanto tali, li amavano alla stessa maniera.

«E tu, Lily? Non ti sei più fatta viva da quando...» Dorea non riuscì a concludere la frase.

«Ha ragione, mi dispiace» mormorò la Grifondoro e, prima di poter aggiungere altro, si ritrovò stretta tra le braccia della donna.

«Siete dei veri stupidi. Eravamo preoccupati per tutti. Dove sono Remus e Peter? E Mary? Stanno tutti bene? Alice e Frank?».

«A proposito di Alice e Frank...» cominciò Sirius e si lanciò in un dettagliatissimo resoconto del matrimonio.

Poco dopo, i due amici scoprirono che la Tana dei Weasley era diventata un momentaneo punto di raccolta di tutti i membri dell'Ordine. A intervalli regolari, qualcuno bussava alla porta e facce note comparivano dall'esterno: Fabian e Gideon, seguiti da Hagrid, Amelia Bones e Elphias Doge. Dopo di loro, avvolti in pesanti mantelli, si presentarono Sturgis Podmore e Alastor Moody. Una mezz'ora più tardi, la porta bussò nuovamente e come ultime giunsero Dorcas Meadowes e Minerva McGranitt.
La professoressa, non appena incrociò lo sguardo dei due ex alunni, stirò le labbra in una linea pallida e sottile: «Evans, Black, che ci fate qui?» domandò.

«E' un piacere anche per noi, prof» salutò Sirius, sarcastico.

«Siamo solo passati a ritirare dei libri» si affrettò a correggere Lily, senza dimenticarsi di assestare un calcio poderoso allo stinco del malandrino che, d'altro canto, non fu così abile nel reprimere un gemito agonizzante.

«Ma cosa sta succedendo? È una riunione dell'Ordine?» s'informò poi la Grifondoro, guardandosi attorno.

Una decina di paia di occhi le restituì lo sguardo, ma nessuno parlò.

«Sì, in effetti. Dobbiamo discutere di alcune faccende» s'intromise, allora, Dorea. «Niente di cui preoccuparsi, comunque».

Chissà perché, ma Lily non si bevve la storia. Non che fosse difficile intuire che qualcosa bolliva in pentola: Hagrid, dall'altra parte della stanza, stava fissando concentrato le punte dei propri stivali, rosso come un peperone, in evidente difficoltà nel rispondere alla domanda della Evans.
E sia Sirius che la Caposcuola sapevano bene quanto il Guardiacaccia fosse negato a mentire.

«Va bene» fece Felpato «Allora noi prendiamo quello che ci serve e ce ne andiamo». Afferrò il polso di Lily e la trascinò verso le scale che davano alle stanze.

«Che diavolo stanno facendo?» gli bisbigliò lei, una volta che furono lontano da orecchie indiscrete.

«Non ne ho idea, ma non mi piace. È troppo strano che si siano trovati tutti proprio stanotte».

«Pensi che lo sappiano?». Lily si fermò di colpo sul pianerottolo e guardò Sirius con espressione spaventata.

«Che Faith – la prima strega mai esistita – sia rinchiusa in una delle camere di Grimmauld Place e che abbia previsto cosa succederà?».

«Certo, detta in questo modo sembra impossibile. Intendevo che avessero ricevuto una soffiata».

«E da chi, scusa? Non penso che esistano Mangiamorte pentiti» ribatté Sirius, riprendendo a salire i gradini. «E' possibile che si siano trovati per una riunione e basta».

«Non ci credi nemmeno tu, ammettilo» disse Lily.

I due giunsero davanti a una delle camere che, tempo prima, era stata di Remus. La porta si aprì senza far rumore ed entrambi scivolarono all'interno.

«Accio mantello!» comandò Sirius. In un millesimo di secondo, il Mantello dell'Invisibilità sfrecciò nelle sue mani. «Ti serve altro?».

La Caposcuola si guardò intorno, lasciando che gli occhi verde prato sondassero l'intera stanza. «La vostra mappa?».

Il malandrino scostò un lembo del mantello, rivelando la Mappa del Malandrino al sicuro in una tasca. «E' rimasta a me il giorno dello scontro a Hogwarts» spiegò. «Ora dobbiamo andare. Ci staranno aspettando».

Man mano che ripercorrevano le scale, il vocio dei membri dell'Ordine diveniva via via più udibile.

«...troppi rischi...» disse qualcuno.

«Se dovesse finire male...».

«...il ragazzo non...».

Sirius e Lily si scambiarono un'occhiata di traverso, ma non commentarono e continuarono a scendere, cercando di fare meno rumore possibile. Giunti quasi all'inizio del salotto, si fermarono e tesero le orecchie; Dorcas aveva preso la parola.

«...non vi chiedo di fidarvi della fonte, ma di me. Vi garantisco che non è una trappola».

«Se dovesse succedere qualcosa...».

«Non succederà» replicò la voce di Charlus Potter.

In quel preciso istante, qualcuno spuntò alle spalle dei due ragazzi. «Che ci fate qui?» domandò Gideon con espressione sospettosa.

Sirius, che per poco non ci aveva lasciato le penne dallo spavento, con una mano sul cuore prese un lungo respiro e scosse il capo. «Maledizione, Prewett! Sarei potuto schiattare» abbaiò.

«Stavate origliando?» fece Fabian, materializzandosi alle spalle di Lily, che fece un salto di tre metri per la paura.

«Ragazzi!» ringhiò la Caposcuola. «Siete due idioti» bofonchiò poi, mentre i due gemelli ridacchiavano sotto i baffi.

«Siete proprio carini, così belli pallidi» ghignò Gideon.

«Avremmo dovuto fare una foto ricordo. Non ho mai visto un'espressione così poco virile sulla tua faccia, Sirius!» rise Fabian.

«Sì, spiritosi» borbottò il malandrino, facendo il broncio. «Mi vendicherò».

Il ticchettio degli stivali di Dorcas preannunciò il suo arrivo ancor prima che potesse comparire davanti ai loro occhi. «Avete trovato ciò che cercavate?» domandò ai due amici.

Lily annuì, lievemente a disagio al suo cospetto. Non aveva ancora capito se la Meadowes le piacesse o meno. Sicuramente, la ammirava; si riconosceva molto nell'Auror, ed era in qualche modo invidiosa della sua sicurezza e delle sue abilità. D'altra parte, però, le dava l'idea di essere una persona molto sola – volontariamente isolata dal resto del mondo – e ciò la rattristava.

«Ce ne stavamo andando» commentò Felpato. Con un cenno del capo, fece intendere alla Evans che fosse arrivato il momento di levare le tende e scomparire; non avevano tutto il tempo del mondo, non quella notte.
Quando ormai avevano quasi un piede fuori dalla porta, la voce di Dorcas li trattenne: «Aspettate un secondo» disse la giovane strega, avanzando verso di loro con la sua camminata sinuosa da gatta. Si parò davanti a loro, nascondendoli alla vista degli altri presenti, e inarcò un sopracciglio.

«Dove state andando?» domandò.

«Come, prego?».

Lily aggrottò la fronte e percepì chiaramente i palmi delle mani cominciare a sudare.

«Stiamo tornando da Lily» s'intromise Sirius con il suo solito sorrisetto sghembo. «Non ci credi?».

La Meadowes rimase in silenzio ad osservarli. Poi, gli occhi di ghiaccio scivolarono sulla figura della Caposcuola, fino ad incatenarsi alle sue iridi smeraldine.

Lily sapeva ciò che sarebbe successo: le era capitato solo una volta, quando ancora era amica di Severus. Piton era sempre stato un eccellente Legilimens e aveva tentato tante volte di insegnarle come chiudere la mente alle intrusioni altrui – capacità che, però, la Evans non aveva mai acquisito –. Avevano passato così tanti pomeriggi a esercitarsi che Lily era ancora in grado di rievocare il dolore delle emicranie laceranti che la colpivano ogni sera, sofferenza inutile perché ben presto si era resa conto di non essere per niente portata alla disciplina.
Quindi, quando gli occhi azzurri di Dorcas Meadowes si legarono ai suoi e il mondo attorno scomparve, Lily Evans piombò nel panico più assoluto: se l'Auror avesse anche solo scavato lievemente nei suoi ricordi, avrebbe sicuramente capito ciò che avevano in mente. Non solo, sarebbe venuta a conoscenza dell'esistenza di Faith e di tutto ciò che aveva raccontato loro. E, infine, ma non dettaglio meno importante, con buone probabilità avrebbe fatto saltare l'intera missione.

Per tutti quei motivi, la Caposcuola si concentrò come mai prima di allora a bloccare la mente.

Le parole di Piton le riempirono la mente: «Devi pensare a una sola cosa. Concentrati su di essa e visualizzala davanti a te. Più l'immagine sarà dettagliata, più sarai isolata dal resto del mondo e più tu ti allontani dalla persona che ti sta analizzando il cervello, più i tuoi pensieri rimarranno al sicuro».

A che cosa pensare, però? C'era una così ampia scelta che Lily si trovò con la mente terribilmente vuota. Poi, muovendo lievemente il capo, sentì la collana che le aveva regalato James sfiorarle la pelle e, in un secondo, venne catapultata indietro nel tempo, a quasi nove mesi prima quando, nella Sala Grande addobbata per Natale, il malandrino le aveva consegnato il suo regalo personale.

«Che c'è?» domandò Lily.
«Niente» rispose James e subito distolse lo sguardo dal suo viso.
«Potter?».
«Mmh?».
«Ti spiace se appoggio la testa sulla tua spalla?». Lo sentì sorridere contro la sua guancia e sbuffò: «Vorrei solo chiudere gli occhi e godermi questa canzone».
«Non ti biasimo; le mie spalle sono le più comode in circolazione» le bisbigliò, divertito.
«Vieni, Evans» le disse.
Prese una sua mano e la condusse fuori dalla pista da ballo, lontano da guardi indiscreti.
«Dove stiamo andando?». La voce di Lily era decisamente sospettosa, ma non si fermò e lo seguì.
Si fermarono sotto alla finestra più grande, che dava sul lago.
La giovane rimase incantata dalla bellezza del paesaggio: grossi fiocchi di neve cadevano dal cielo scuro, senza rumore, volteggiando leggiadri. Tutto intorno, il mondo taceva, rischiarato da un tenue spicchio di luna e qualche stella che luccicva sotto le nuvole.
«Wow» sussurrò lei.
Guardò James e lo vide trafficare con qualcosa all'interno della giacca. Finalmente, con un respiro emozionato, il malandrino ne tirò fuori una piccola scatolina rettangolare e, contemporaneamente scoccò la mezzanotte.
«Buon Natale, Evans» sorrise e le porse il regalo.

Dopo quelle che parvero ore, la voce di Sirius la riscosse dai propri pensieri: «Abbiamo finito, qui? Avremmo fretta».

Dorcas fece un passo indietro, ma non distolse lo sguardo dal volto della Grifondoro. I suoi occhi di ghiaccio, seppur impassibili, brillavano di una luce che non piacque per nulla a Lily. Non sapeva per quale motivo, ma era sicura che la Meadowes avesse trovato qualcosa nella sua testa, qualcosa che avrebbe dovuto rimanere segreto.

«Certo» disse infine l'Auror, scostandoli per farli passare. «Ci vediamo» salutò, enigmatica, prima di scomparire su per le scale in silenzio.

«Quella sì che è strana forte» bisbigliò Sirius, una volta certo che nessuno stesse ascoltando. «A me un po' inquieta» ammise.

«Sa qualcosa» commentò Lily, meditabonda, più a se stessa che all'amico.

«Come?».

«Non sono mai stata brava nella Legimanzia, e comunque non avrei avuto speranze contro un Auror, per non parlare di Dorcas Meadowes. Ha trovato qualcosa nella mia testa, ma non so cosa».

«Secondo me ti stai fasciando la testa per niente» replicò Felpato. «Ora dobbiamo muoverci; abbiamo già perso troppo tempo prezioso».

«Sirius! Lily!».

Per la seconda volta, i due ragazzi vennero bloccati sull'uscio. Dorea Potter e, alle sue spalle, Charlus, avanzarono nella loro direzione. «Già ve ne andate?» chiese la donna.

«Abbiamo preso ciò che ci serviva» rispose Lily, educata.

Dorea si pose davanti a Sirius e gli avvolse le mani tra le sue. «Non fare niente di stupido, promettimelo».

Nell'osservare signora Potter, il malandrino sentì una stretta al cuore. Come poteva mentire alla donna che lo aveva ospitato e che era diventata come una madre per lui? Come poteva voltarle le spalle e nasconderle che, da lì a qualche ora, sarebbe potuto morire e forse non l'avrebbe più rivista.

«Che dovrei fare, Dory?» la buttò sul ridere il ragazzo. «Con il fiato di Remus sul collo c'è davvero poco da divertirsi».

«Promettimi che non farete cose avventate. Promettimi che non scomparirai mai più come hai fatto».

Lily, dietro a Sirius, vide le spalle del malandrino irrigidirsi. Dolcemente, senza che Dorea potesse accorgersene, gli sfiorò un fianco con la mano, in segno di conforto.
La ragazza riusciva a comprendere cosa stesse passando nella mente del malandrino. Non doveva essere facile, per lui, mentire alla donna a cui doveva tutto. Alla sua vera madre.

«Io...» cominciò Sirius, deglutendo. «Te lo prometto» sospirò, infine. Poi, avvolse le spalle della donna con un braccio e la sospinse contro il proprio petto, in un abbraccio che, sulle sue labbra, sapeva di tradimento.
Affondò il viso tra i capelli della signora Potter e si beò di quel profumo che avrebbe ricordato per altri cent'anni; un profumo che sapeva di casa, di famiglia. Avrebbe voluto rimanere là, fermo, per tutta la vita, insieme alle due persone che più lo amavano al mondo.
Eppure, dentro di sé, sapeva che per quanto avesse voluto bene a Dorea e Charlus, l'affetto che sentiva per James andava oltre a quello per un amico, e oltre a quello per un fratello. Era difficile spiegare il loro legame: erano come due facce della stessa medaglia; nessuno dei due sarebbe potuto vivere se l'altro fosse morto. Ed entrambi sapevano che non esistevano da separati: James e Sirius erano una persona unica scinta in corpi diversi.
Da quanto l'amico era scomparso, Felpato aveva smesso di essere. Non era in grado di vivere senza di lui; gli sembrava di essere stato calato in una boccia colma d'acqua. Il mondo era diventato opaco, le persone distanti, le giornate incolori. Non si era mai accorto di vivere finché non era morto dentro, nel momento in cui James non gli era stato strappato.
Dovevano riportarlo a casa. Doveva salvare suo fratello.

La signora Potter aggrottò le sopracciglia nell'essere abbracciata dal figlio, ma poi sorrise. Sirius non era mai stato espansivo con loro. Nonostante lei e il marito sapessero quanto il giovane Black fosse affezionato ai Potter, non aveva mai lasciato che le emozioni prendessero il sopravvento. Non c'era bisogno che esprimesse il suo amore a parole; il solo fatto che aveva accettato di vivere con loro e si era lasciato il passato alle spalle, aveva un significato profondo.

Charlus, dietro alla moglie, sorrise intenerito e una lacrima gli bagnò la guancia. Non appena, però, i suoi occhi d'ambra tanto simili a quelli di James si posarono sulla figura di Lily che, casualmente lo stavano osservando, tossicchiò e si grattò il naso per asciugare la pelle. D'altra parte, la Caposcuola, imbarazzatissima, prese a guardarsi le punte delle scarpe.

«Ora dovremmo davvero andare» disse Sirius sciogliendosi dall'abbraccio e facendo qualche passo indietro.

Dopo aver salutato tutti i restanti presenti, i due amici si calarono i cappucci sui volti e scomparvero nella notte.

«Non sono sicura di farcela» bisbigliò Lily al buio della notte. «Non sono pronta a dire addio ai miei genitori».

Percepì il sorriso di Sirius senza vederlo. Poi, la mano del malandrino le strinse delicatamente una spalla.
«Non sei sola» le disse.

<>

Toc toc toc

Il rumore echeggiò nella radura spoglia, fin troppo lugubre per essere solamente i primi di settembre.

Un ragazzo stava in piedi davanti a una porta d'ebano, avvolto in un mantello verde scuro. I suoi occhi chiari scorsero velocemente sulla targhetta d'ottone appesa al legno.

Lupin – De Jean

Alla fine, quindi, Maude si era trasferita da loro.
Da mio padre, si corresse mentalmente il ragazzo. Quella ormai non era più casa sua da anni, e sicuramente ciò era stato ribadito il Natale passato in cui Lyall gli aveva fatto intendere chiaramente di non essere più il benvenuto.
La situazione, però, era cambiata. Remus aveva bisogno di rivedere il padre, forse per l'ultima volta.

Bussò nuovamente, lievemente più forte, e aspettò.

I suoi sensi da Lupo Mannaro colsero il ticchettio dei tacchi di Maude sulle scale, fino alla porta d'ingresso. Prese un profondo respiro e si passò una mano tra i capelli biondo cenere.

«Remus» lo salutò la donna e non si sforzò nemmeno di nascondere la sorpresa. «Che ci fai qui?».

«Maude. Posso entrare?» chiese, e ancor prima che potesse rispondere, sgusciò nell'ingresso e si diresse in salotto dove, sapeva, avrebbe trovato il padre seduto su una poltrona.

«Ciao» disse il ragazzo, in piedi davanti al genitore che, ancora assorto nella lettura di un libro, non si era accorto della sorpresa.

«Remus! Merlino, sei proprio tu? Che ci fai qui?» esclamò l'uomo.

Il malandrino osservò il padre in silenzio, mentre un vago senso di imbarazzo e disagio cominciava ad impossessarsi del suo corpo. Percepiva perfettamente lo sguardo accusatorio di Maude alle proprie spalle. Probabilmente disapprovava quella visita inaspettata, ma Remus non aveva tempo per lei. Non c'era tempo per nulla, se non per un breve saluto dal sapore di un addio.

«Rimarrò solo per qualche minuto, non c'è bisogno che ti scomodi» lo bloccò, nel vederlo alzarsi. «Ho bisogno di parlarti».

Lyall Lupin squadrò il figlio con aria incerta. «E' successo qualcosa?» domandò.

Il ragazzo dovette trattenere un sorriso amaro; come se gli importasse, a suo padre, di ciò che gli stava accadendo. Dopo l'attacco ad Hogwarts non si era neppure degnato di mandargli una lettera per accertarsi che fosse vivo, anche se Remus sospettava che sotto quell'indifferenza si celasse l'astuto tocco di Maude.

«Non ancora, ma succederà... e confido nella vostra discrezione» commentò scoccando uno sguardo veloce alla donna che, a braccia conserte, non l'aveva perso di vista un istante, gli occhi socchiusi in un'espressione diffidente.

Il malandrino la ignorò e si fece avanti fino a raggiungere la poltrona da cui il padre lo osservava, disorientato.

«Papà» cominciò e quella parola gli bruciò sulle labbra. Era da troppo tempo che non la pronunciava e averlo fatto là, specchiandosi nei suoi occhi, parve ridarle un senso. «Papà,» ripeté, deglutendo «so che tra noi le cose non vanno più da tanto tempo. Abbiamo smesso di essere una famiglia il giorno in cui la mamma è morta e ti ha lasciato un compito che non hai avuto la forza di svolgere. Inizialmente, la tua distanza mi ha fatto male; non solo mi sono trovato buttato in un mondo che non mi voleva, ma il mio stesso padre si rifiutava di guardarmi, preferendo annegare nel lavoro che passare del tempo con l'unico figlio che aveva... e questo è stato dannatamente doloroso. Ho passato metà della mia infanzia a chiedermi che senso avesse la mia vita. Forse, se fossi scomparso, tutto si sarebbe risolto. Forse, mio padre avrebbe smesso di trascinarsi dietro la vergogna di avere un figlio infetto, un mostro. Poi è arrivata l'ammissione ad Hogwarts e la mia vita ha ricominciato a scorrere. Ho conosciuto delle persone che mi hanno accettato, che mi hanno amato nonostante la licantropia. Sono cresciuto grazie a loro e sono maturato. Ho capito delle cose che prima mi sembravano assurde, ma soprattutto ho avuto tempo di pensare, a noi, alla nostra famiglia. È stato difficile, lo ammetto, e molto spesso mi sono ritrovato a odiarti per avermi lasciato da solo ad affrontare la mia vita, ma adesso ho capito... e ti perdono. Ti perdono aver accettato una causa pericolosa, otto anni fa. Ti perdono per non essere stato in casa, quella sera. Ti perdono per averci lasciati soli ed essere rimasto al lavoro. Io ora riesco a vedere ciò che ti ha logorato da dentro, che ti ha impedito di essere l'uomo che avresti voluto che io avessi a fianco. Io sento il tuo dolore, la tua rabbia, il rimorso cieco che non ti abbandona un secondo, che ti si incolla addosso come una seconda pelle e capisco e accetto la tua scelta di aver portato un tale peso per tutti questi anni, ma non è colpa tua. Non è colpa tua» ripeté, scandendo le parole. «Papà, è stato Greyback a mordermi, a trasformarmi in ciò che sono. Non tu. Non ti permetterò mai più di addossarti questa responsabilità. Io adesso, qui, sono venuto a dirti che va bene, che accetto il lato oscuro della mia anima. Non so se mai riuscirò ad amarmi pienamente, ma sto imparando a non odiarmi... e vorrei che, come io imbocco una nuova strada più luminosa, tu faccia lo stesso. Che smetta di vederti come il boia che ha calato l'ascia sul mio collo e che ricominci a sentirti un padre, perché è ciò che sei per me» concluse.

Gli occhi chiari di Lyall lo guardavano colmi di lacrime amare: rabbia, dolore, paura, stanchezza, rimorso... un'accozzaglia di sentimenti turbinavano in quelle iridi color del mare. Il volto dell'uomo, per la prima volta dopo anni, era disteso, appariva ringiovanito, come se avesse finalmente perso il peso che lo aveva raggrinzito.
L'uomo mosse le labbra, ma non emise nessun suono. Solo, con una mano tremante, cercò quella del figlio e la strinse con una ritrovata forza.

«Ti voglio bene, papà» sussurrò Remus con voce strozzata, il magone che gli premeva sulla gola come un pugno di ferro. Si sporse in avanti e posò la propria fronte contro quella dell'uomo, chiudendo gli occhi: «Ti vorrò sempre bene... qualunque cosa accada» aggiunse in un soffio.

Poi si alzò, incapace di rimanere in quella casa un secondo di più. Si voltò e uscì con lunghe falcate, sentendo dietro di sé la voce di Lyall che lo chiamava, mentre calde lacrime gli rigavano il giovane volto segnato.

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Emmeline dormiva.
Per la prima volta dopo mesi, dormiva davvero.
Era stesa sul letto matrimoniale, avvolta solo da una soffice camicia da notte di seta blu che metteva in risalto i lunghi capelli biondo miele che le incorniciavano il viso angelico.

Era anche una delle prime volte che Regulus la vedeva quasi completamente rilassata.

Chissà cosa stava sognando, si domandò il ragazzo, seduto invece sulla sedia affianco al letto, in silenzio. Probabilmente, sogna di trovarsi a chilometri da dov'è in realtà, proseguì nel suo ragionamento e una punta di amarezza gli toccò la lingua.

In quelle ultime settimane, il rapporto con la grifondoro si era trasformato: una sera, dopo l'ennesima tortura gratuita – ormai neppure serviva farla soffrire. Il Signore Oscuro aveva raggiunto il suo scopo con James Potter – e dopo averla riaccompagnata in camera, lei lo aveva guardato, e lo aveva fatto seriamente. Mentre le ricuciva i tagli, le disinfettava le ferite e le faceva scomparire i lividi, gli aveva posato una mano sulle sue. Solo quello, ma il contatto con la pelle della Vance aveva risvegliato in Regulus un sentimento che pensava di aver perso quando, tempo prima, aveva deciso di dimenticare Mary McDonald per la sua sicurezza.

In quel momento, in quell'istante solo loro, il Serpeverde aveva capito una verità che, fino a quel momento, si era rifiutato di accettare: delle due parti di quell'orribile guerra, aveva scelto quella sbagliata. Aveva fatto finta di non capirlo con Mary, allontanandosi da lei con una delle tante scuse che si era costruito intorno. Però, con Emmeline era diverso: la sua purezza, il suo essere così terribilmente innocente e la sua totale incapacità di odiare anche chi la stava pian piano uccidendo, gli aveva aperto gli occhi; non avrebbe più potuto ignorarla, sentirla, vivere davvero quei momenti.
Era tutto così fottutamente sbagliato, finalmente l'aveva capito.

Per quel motivo, durante la notte, era uscito dal Malfoy Manor e aveva contattato Dorcas Meadowes. Gli incontri si erano ripetuti per molto tempo; non aveva paura di essere scoperto. Sarebbe morto nel tentativo di rimediare ai propri errori. L'unica cosa che lo terrorizzava a morte era di non riuscire a portare in salvo Emmeline Vance. Ogni giorno che passava, erano ore di sofferenza su un corpo ormai fin troppo debilitato. Non avrebbe resistito a lungo, sarebbe morta; era una cosa che entrambi, in silenzio, sapevano.
Pian piano, i progetto dell'Auror aveva preso forma: indurre un trasferimento di Emmeline in una seconda casa sicura e, durante il tragitto, colpire la scorta e portarla in salvo. Di per sé, creare falsi indizi di un possibile tradimento non era stato difficile per Regulus; ciò che gli pareva quasi impossibile era far conciliare il salvataggio di Emmeline con quello di James. Il Cercatore era troppo compromesso.
Non sapeva che cosa gli avessero fatto: una volta aveva sentito qualcuno discutere di come il Signore Oscuro avesse giocato con i pensieri, i ricordi e le emozioni di James fino a fargli perdere il contatto con la realtà. Dopodiché lo aveva plasmato a suo piacimento, trasformandolo in una delle sue pedine più potenti.
Dorcas, però, voleva entrambi. O così, o niente, gli aveva detto – anche se Regulus sapeva che non si sarebbe mai permessa di perdere l'occasione di salvare la ragazza.

Tutti quei pensieri gli infestavano la mente quando Emmeline si mosse tra le coperte e, rigirandosi, si fermò a qualche centimetro dal bordo del letto, vicina a lui.

Il ragazzo la osservò e non poté impedirsi di sfiorarle un braccio, mentre la copriva nuovamente con il lenzuolo. Il tocco gli procurò un brivido e non si prese neppure la briga di nasconderlo, tanto la grifondoro dormiva.

Si alzò e si avvicinò a una finestra.
Pioveva. Le gocce di pioggia rigavano il vetro e disegnavano strani ghirigori, prima di scivolare verso il basso e scomparire.
Il ticchettio era quasi rilassante, se non ipnotico. Si ritrovò a osservare il nulla, al di fuori da quella prigione dorata.

D'un tratto, la voce di Emmeline lo colse di sorpresa: «Regulus» lo chiamò.

Il Serpeverde si voltò e la ritrovò mezza seduta e la camicetta lievemente spostata scopriva interamente le clavicole e le spalle magre, e buona parte del petto pallido. I capelli biondi ricadevano a ciocche intorno al volto scavato, ma comunque bellissimo e gli occhi, socchiusi, brillavano.

Era strano, per Regulus, vederli così splendenti. Solitamente gli sguardi che riceveva erano opachi, colmi di dolore, di stanchezza o di abbandono. In quel momento, invece, lo guardavano.
Forse fu per questo motivo che, mosso da una strana sensazione di formicolio alle mani, avanzò nella sua direzione fino a fermarsi ai piedi del letto.

«Come ti senti?» le domandò piano.

«Bene» rispose la ragazza. «Ho fatto un sogno» aggiunse poi.

«Bello o brutto?».

«Non lo so ancora» replicò Emmeline.

Regulus si sedette lentamente sulla sedia, senza mai distogliere gli occhi da quei pozzi incredibilmente cristallini.

«Ho sognato che eravamo fuori di qui, io e James».

«Fino a qui sembra un bel sogno».

«C'eri anche tu con noi» aggiunse la ragazza e nel suo sguardo brillò qualcosa. «E' questo che non so. È bello?».

«Tu come vorresti che andasse?» domandò il Serpeverde, piano.

«Vorrei...» la Grifondoro si guardò le mani, per un breve istante. Poi, inspirando, alzò nuovamente il capo e lo incatenò nei suoi occhi di cielo. «Vorrei che fosse vero» sussurrò.

Erano così vicini, spinti da una forza inarrestabile. Nella breve distanza che separava i loro corpi si poteva quasi percepire una sorta di attrazione che li spingeva, inesorabilmente, l'uno incontro all'altro.

Emmeline posò una mano sul materasso e, facendosi leva, si alzò fino a porsi all'altezza del viso di Regulus. Poteva sentire il respiro fresco del ragazzo sulle labbra; vedeva ogni sfumatura in quegli occhi neri come la notte; distingueva ogni singolo centimetro della sua pelle d'avorio. Più di tutto, però, le sembrava di percepire i battiti del cuore di Regulus palpitare come impazziti... o forse erano i suoi?

Osservò gli occhi del Serpeverde abbassarsi sulle sue labbra, per poi scivolare nuovamente sul suo volto e intrecciarsi in uno sguardo abissale. Lo vide deglutire e passarsi velocemente la lingua sulle labbra. Erano immobili.

Poi, la ragazza, spinta da un coraggio che non pensava di possedere, si sbilanciò in avanti e posò le labbra su quelle di Regulus e lo baciò.
Una parte del suo cervello la rimandò al bacio che aveva avuto con Remus, ormai un'eternità fa. Era stato il primo bacio della sua vita e gli era sembrato incredibile, mozzafiato. A volte, ancora ci ripensava con nostalgia.
Quel tempo, però, era svanito alle sue spalle nel momento in cui era stata torturata la prima volta. Non esisteva più Hogwarts e la sua vita prima della prigionia. C'era solo la Emmeline Vance di quel momento in cui era avvolta in una leggera camicia da notte, sul letto del fratello di Sirius, e lo stava baciando.

Regulus rimase fermo, mentre percepiva la bocca di Emmeline contro la sua. Era un bacio timido, quasi la ragazza stesse chiedendo il permesso di lasciarsi andare, molto diverso da quelli che aveva già dato. Non c'era nessuna passione dirompente, né un bisogno irrefrenabile; solamente l'abbandono a un sentimento che aveva represso fino a quel momento.
Avrebbe voluto ricambiare il bacio, lo desiderava veramente. In quel momento, non vi era altra cosa al mondo che avrebbe voluto fare, se non lasciarsi andare con Emmeline Vance e rispondere al bacio con la stessa passione che sentiva ribollirgli nel petto.

Con dolcezza, ma fermamente, le cinse gli avambracci e la allontanò di qualche centimetro.
«No, Emmeline» le disse.

La Grifondoro lo guardo, senza capire. «Che cosa c'è?».

«Non lo vuoi veramente. Pensi di desiderarmi, ma non è così».

«Come puoi saperlo?» lo accusò lei, scostandosi e indietreggiando.

«Lo so e basta. Se non fossi qui, in queste condizioni, non lo faresti mai» le spiegò.

«Non... non è vero» balbettò Emmeline. «Non pretendere di conoscere quello che c'è nella mia testa!» esclamò, rabbiosamente, le guance rosse di ira e umiliazione. «Vattene!» gli urlò.

Regulus rimase immobile ad osservarla. Poi si alzò e si diresse verso la porta. Una volta aperta, si voltò indietro e guardò il corpo di Emmeline girato di spalle, avvolto nelle coperte.

«Lo sto facendo per te, anche se ancora non lo capisci» sussurrò e poi se ne andò.

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Faith era seduta in silenzio al centro della stanza.
Se n'erano andati da parecchio tempo, ore forse.

Il piano era pronto; sarebbe accaduto quella notte. Il destino si sarebbe compiuto per due anime, ma neppure Faith poteva conoscerne l'identità. Per quanto fosse potente, neppure alla Madre era concesso di rimescolare le carte.

Il dado è tratto, pensò tra sé e sé.

L'unica cosa che le importava era che tutto ciò finisse. Voleva solo poter avere tra le mani il rubino e, finalmente, infrangerlo per poter ritornare alla propria forma naturale. Non desiderava solamente distruggere la gemma per i propri poteri. C'era una ragione ben precisa per cui aveva scelto il rubino e non uno dei tre altri kardià: nella gemma della spada di Grifondoro esisteva, seppur in minuscola parte, ancora una traccia dell'unico uomo che avesse mai amato.

Non era passato un secondo, dal maledetto giorno in cui Rowena l'aveva intrappolata in un corpo da mortale, che non avesse pensato a Godric. Separarsi da lui l'aveva portata a un passo dalla pazzia: la consapevolezza di esistere nello stesso momento, sulla stessa terra, senza potersi vedere l'aveva consumata di un dolore lento, ma letale.
In più di mille anni, non aveva trovato nessuno che si fosse potuto avvicinare a lei quanto aveva fatto Grifondoro. Nessuno avrebbe mai preso il suo posto.
Distruggendo il rubino, avrebbe potuto riaverlo accanto a sé quanto bastava per dirgli che i suoi sentimenti non erano cambiati e che mai avrebbe amato qualcuno come aveva amato lui.

Intenta nei propri pensieri, quasi non si accorse dei passi che riecheggiarono leggeri nel vano delle scale, non finché il cigolio della porta attirò la sua attenzione.

«Molto bene» sorrise Faith, incrociando le mani. «A cosa devo l'onore della visita... Dorcas Meadowes?».

Buonasera Potterheads!
Dopo tipo millenni che non ci si sente, eccomi qui.
Il capitolo è lungo, è vero, ma le cose da dire erano tante.
Dopo questo capitolo PROMETTO che ci sarà l'attesissimo scontro in cui magari riusciremo a riprenderci Potter, che ne dite?
Mi spiace per la lunga assenza, ormai non ci provo nemmeno più con le giustificazioni... o dovrei? 😅
Fatto sta che l'uni mi toglie la vita di dosso e non ho mai un secondo per mettermi alla scrivania e buttar giù le idee. Sono presa tra esami e tesi, sto letteralmente impazzendo, ma un angolino della mia mente è sempre riservato alla storia (giuro che ci penso sempre).

Vorrei ringraziarvi per la pazienza con cui aspettate gli aggiornamenti anche quando pare che non arrivino più. E vorrei ringraziarvi anche per l'appoggio, per i millemila commenti, per le parole d'incoraggiamento, per le stelline che lasciate e, soprattutto, per l'immensa passione che ci mettete.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: senza di voi, questa storia non sarebbe niente! ♥️
Vi mando quindi un bacio forte😘🥰

Spero che la vostra estate sia iniziata bene e che la fine della scuola vi lasci tanto tanto tempo per leggere il capitolo!
Fatemi sapere che ne pensate♥️

Un beso,
Laura♥️😻😘🥰🎉👏🏻👌🏻♥️

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