Tutto e niente.

Keith non sarebbe riuscito a descrivere in nessun altro modo ciò che lo circondava in quell'istante. La sua mente tormentata era stata svuotata di ogni pensiero, negativo o positivo che fosse. Sollevò lo sguardo mosso da una genuina curiosità e poi lo vide: lo Spazio infinito, sconosciuto, ma paradossalmente familiare.

Si trovava su quello che apparentemente gli sembrò una sorta di ponte dorato e a fare da cornice c'era il vuoto cosmico, tempestato di stelle luminose come non le aveva mai viste prima. Ebbe paura solamente per un attimo, disorientato e solo...ma dal momento che lo era stato per vent'anni, si adeguò immediatamente alla sensazione. Lo Spazio lo accolse dolcemente, come l'abbraccio di una madre che Keith non aveva mai ricevuto. Attorno a lui non c'era nulla. Seguì con gli occhi la traiettoria del ponte curvilineo, poi lo colse un'irrealistica consapevolezza e capì che ciò su cui aveva poggiato i piedi altro non era che uno degli anelli di un pianeta. Forse Saturno, ma chi poteva dirlo?

Il pianeta alle sue spalle era avvolto da una fitta nebbia che aveva lo stesso colore della sabbia del deserto dell'Arizona. Keith, allora, con un'inspiegabile naturalezza, si disse che non poteva fare affidamento sui suoi occhi, perché tutto quello che vedeva non aveva senso. Decise di abbassare le palpebre e aprire bene le orecchie: il silenzio era assordante e lo terrorizzava.

«La pazienza porta concentrazione» la voce di Shiro interruppe la spaventosa quiete, ma Keith non era sicuro che fosse reale o solamente uno strano e vago ricordo. Sembrava come un déjà-vù e per quanto surreali, quelle parole riuscirono a domare la sua ansia. Quando fu calmo abbastanza per udirlo, realizzò che l'Universo gli stava facendo le fusa.

Keith aprì gli occhi di colpo, avvolto ancora dal buio, ma questa volta nella stanza del suo dormitorio, con un'unica parola insensata che gli ronzava in testa: Voltron.