Capitolo diciotto
Era da ore che aspettavo notizie, seduta nella macabra sala d'attesa. C'erano tre persone ad aspettare con me. Un'anziana signora che ora si era addormenta essendo già notte inoltrata.
Un uomo sulla cinquantina che aveva portato sua figlia per un controllo medico a causa di un insolito dolore alla pancia e un'infermiera che aveva dovuto fare le analisi del sangue per ragioni a me ignote.
Avevo sempre odiato gli ospedali.
A parte il fatto che odorano di disinfettante e lenzuola sporche, è l'odore insistente della tristezza, dell'angoscia e anche della noia mischiate assieme punzecchiano le narici in maniera seccante. Ovunque mi girassi vedevo solo persone dai volti cupi, o vecchie signore che piangevano per la scomparsa del proprio marito, o una madre che accompagnava la figlia in sala operatoria perché troppo piccola per essere lasciata sola.
Gli ospedali non facevano proprio per me. Non so come i medici sopportassero quel peso per tutta la giornata, come potessero assumersi la responsabilità di salvare non solo una vita, ma di dipendere anche sulla felicità di tante altre.
Una finestra era aperta e un vento fresco entrava impertinente dal vetro diffondendosi nella stanza. Mi coprii le braccia scoperte con il giubbotto al mio fianco e piegai la testa all'indietro, appoggiandola contro la rotondità della spalla. Erano le tre passate ormai e io non avevo chiuso occhio per paura di mancare la chiamata del dottore.
Il sonno adesso però stava avendo la meglio.
Le palpebre si facevano pesanti e si chiudevano da sole, il mio corpo si rilassava istantaneamente appena le ciglia si congiungevano, ma non so come trovai la forza di smuovermi.
Avevo avvertito Camila di non venire a casa la mattina successiva perché non avrebbe trovato nessuno, essendo dovuti correre all'ospedale a causa di una crisi improvvisa di Trevor.
Non avevo ricevuto risposta ovviamente. Probabilmente stava dormendo sonni tranquilli. Era convinta che avrei trovato il modo di parlare al mio fidanzato della nostra relazione, magari non quella sera stessa, ma nei giorni successivi. Adesso non ero più sicura di poterlo fare.
Non avevo cambiato idea. Volevo stare con Camila senza ombra di dubbio, ma nelle prossime settimane mi sarei dovuta occupare di Trevor, se le sue condizioni fossero peggiorate. Ecco perché, oltre a desiderare un pieno recupero per la sua salute, speravo anche che non fosse niente di grave così avrei dimezzato i tempi e sarei riuscita a parlargli.
Come potevo lasciarlo da solo in un momento del genere? Non potevo e basta.
Se la crisi fosse stata lieve sarebbe stato dimesso nei prossimi giorni, ma se avesse recato ulteriori danni sarebbe rimasto all'ospedale per un tempo prolungato e allora chi si sarebbe preso cura di lui?
I suoi genitori? Non credo proprio.
I suoi amici? Quali amici?
Gli restavo solo io.
Decisi di fare una passeggiata in corridoio per non cedere al sonno.
Mi alzai faticosamente dalla scomoda seduta, feci scivolare il giubbotto sulle spalle come fosse uno scialle.
Camminai lungo l'ampio atrio, sfregando la spalla contro la parete per non cadere.
Il tessuto di pelle produceva un rumore fastidioso contro il linoleum, ma era sempre meglio del silenzio che c'era attorno.
Alcuni dottori sfrecciavano verso le camere dalle quali ogni tanto lampeggiava una luce rossa e in sincrono suonava un allarme acuto che perforava le orecchie. Un suono che arrivava improvvisamente e spezzava l'equilibrio stabile del silenzio.
E poi un secondo dopo tutto il reparto ricadeva nell'oblio.
Mi fermai davanti ad un distributore. Cercai nelle tasche delle monetine e le infilai nell'apposita fessura. Schiacciai il numero indicato e la bottiglietta d'acqua cadde cestello. Avevo talmente così tante cose a cui pensare che non mi ero nemmeno accorta dell'arsura.
Bevvi metà dell'acqua nel giro di qualche secondo e conservai il resto.
In una stanza vicino erano disposte altre sedute, così decisi di fermarmi lì invece che ripercorrere tutto il corridoio.
Era una stanza più grande rispetto all'altra, ma stranamente vuota. Era anche più calda. Alzai la testa e notai un climatizzatore proprio sopra l'entrata.
Mi sedetti in fondo alla sala, anche se era vuota preferivo restare il più lontano possibile dal rumore che da un all'altro poteva scoppiare in corridoio.
Restai ad aspettare per circa un'ora, nella quale impiegai il tempo leggendo vecchi giornali, accompagnando con lo sguardo il lento movimento della lancetta che scandiva inafferrabile i secondi e pensando a Camila.
Ero irrequieta, forzata ad aspettare notizie che sembravano non arrivare mai. Pensare a lei mi tranquillizzava, immaginarla mentre dormiva nella sua camera, o abbracciava Heali per rassicurarla dopo che aveva avuto un incubo, erano tutte scene fittizie che mi portavano una gran pace.
Avrei voluto essere lì con lei. Abbracciarla, immergere la testa nei suoi capelli e addormentarmi inspirando il suo profumo. Mi piaceva anche l'idea di prendermi cura di Heali. Ero consapevole che se avessi voluto iniziare una vita con Camila avrei dovuto accettare anche sua sorella e io ero disposta ad amarla incondizionatamente.
Avevo abbastanza amore per entrambe e anche di più.
Improvvisamente si accese una luce accecante. Pensai che fosse un malato che richiedeva aiuto, ma mi resi conto che proveniva dalla mia stanza. Un medico in camice bianco era in piedi sulla soglia, stringeva una cartella gialla fra le mani e indossava degli occhiali rotondi che gli attribuivano un'aria professionale.
Si avvicinò a passo lento, ma stabile. Io mi alzai velocemente dalla sedia barcollante. Impiegai qualche minuto per riprendermi dalla spiacevole sensazione destabilizzante dell'offuscamento della vista.
«Salve. Lei dev'essere Lauren.» Disse cordialmente tendendo la mano verso di me. Annuii stringendo debolmente la presa.
Non avevo forza per fare niente.
«Si, sono io.» Anche la mia voce era irriconoscibilmente fioca, ma trovai il modo di sorridere.
«Il suo fidanzato mi ha detto che era molto bella.» Si complimentò amichevolmente, poi tornò serio quando il suo sguardo si posò sulla cartella stretta fra le sue mani.
«Le direi di accomodarci nel mio ufficio per avere più privacy, ma mi sembra molto stanca...» Mi indicò il posto dove ero seduta prima, io lo ringraziai con un cenno del capo e mi lasciai cadere all'indietro seguita dal dottore.
Aprì la cartella sulle gambe, recuperando qualche foglio che era caduto a terra.
«Allora, andrò dritto al punto.» Non preannunciava niente di buono, ma era decisamente meglio così. Perché quando qualcuno deve dirti qualcosa di brutto travisa per mezz'ora?
«Non va bene signorina Lauren. Le sue crisi sono troppo ravvicinate e non riusciamo a tenerle a bada nemmeno con le pasticche che dovrebbero pervenirle.» Fece un sospiro teatrale, come se fosse davvero dispiaciuto, ma a me sembrò un atto studiato come se lo ripetesse ogni volta che dava brutte notizie.
«Presumo che la sua malattia stia degenerando. Temo che perderà anche l'uso delle mani a breve e non voglio prospettarle quello che accadrà fra qualche anno...» Di nuovo una pausa e un sospiro plateale.
Non so perché, ma mi concentravo intensamente su quante volte sospirasse, o su come posizionasse gli occhiali una volta che erano scivolati sul dorso del naso, o come si accigliasse quando tentava di mostrare un minimo di cameratismo, ma gli conferiva solo un'aria da perfetto imbecille.
«Comunque concentriamoci sui problemi effettivi e non su quelli futuri.» Poggiò una mano sul mio ginocchio e sorrise confortante.
Annuii debolmente assecondando i suoi progetti e lui ne fu chiaramente sollevato. Si alzò e mi disse che appena avrebbero finito di prepararlo per la notte sarebbero venuti a cercarmi.
Prima di lasciare la stanza si lisciò il camice raggrinzito con le mani e sistemò dei ciuffi dietro la montatura degli occhiali che poggiavano sulle orecchie.
Era grave. Non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Trevor non era uno bravo ad affrontare i problemi, soccombeva ad essi e aspettava che fosse qualcun altro a tirarlo fuori dalla fossa.
E spesso ero io a riportarlo a galla.
Vagai per i corridoi per le restanti due ore. Quando guardai l'orologio erano le sei e mezzo passate e non avevo ancora chiuso occhio.
Ero andata a trovare Trevor, ma lui dormiva e ho pensato di sedermi sulla poltrona nell'angolo della stanza mentre aspettavo che si risvegliasse, ma dopo un po' il battito trasmesso nel monitor mi aveva intontita e allora ero uscita e mi ero rimessa seduta nella sala d'attesa, dove l'anziana signora era ancora presente, ma non c'era nessun altro.
Mi rannicchiai su una sedia e pensai di fare un pisolino, ma il sonno che durante la notte mi aveva perseguitata adesso era svanito.
Per quanto sentissi la necessità di dormire non riuscivo proprio a prendere sonno.
«Lauren.» Sentii una voce familiare mormorare il mio nome. Mi girai verso la porta e trovai Camila in piedi. Aveva un'aria trasandata, capelli scompigliati, niente trucco sul volto, o sulle ciglia, un maglione di lana grigio largo che le arrivava sopra le ginocchia, dei jeans sdruciti e una sciarpa rossa al collo.
«Camz.» L'appellativo uscì spontaneamente delle mie labbra, tramandandosi sulle sue in dolce sorriso.
Venne a sedersi accanto a me, fece scivolare il braccio attorno alle mie spalle, attirandomi al suo petto. Riposai la testa sopra al suo torace, il tessuto lanoso solleticava fastidiosamente la mia guancia, ma stare fra le sue braccia mi ripagava.
«Lui ha... io non so...» Cercai di spiegarle, ma i ricordi della scorsa notte erano confusi e annebbiati a causa della mancanza di sonno.
«Shh.» Con una mano accarezzò le ciocche dei miei capelli e mi lasciò un bacio sulla parte alta del capo.
«Me lo racconti dopo.» Sussurrò dolcemente, prima di dondolare gentilmente avanti e indietro per cullarmi.
Poco dopo mi addormentai, inebriata non solo dal suo profumo, ma anche dai sublimi sogni che mi recavano le sue braccia.
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