16 - Mute
Trovare un passaggio segreto in una casa di diverse centinaia di metri quadri non si rivelò semplice come avevo pensato. D'altronde, non sarebbe stato segreto se rilevarlo fosse stato un gioco da ragazzi. Continuavo a ripetermelo mentre tastavo le pareti di ogni stanza, infilando le unghie nelle pieghe della carta da parati o fra le crepe dell'intonaco. Dopo un paio d'ore passate ad esaminare ogni superficie verticale del piano inferiore cominciai a percepire un filo di disagio intrecciarsi alla mia pelle. Non avevo trovato nulla di minimamente paragonabile a una porta nascosta, se tralasciavo uno sgabuzzino di un metro per un metro che non avevo mai notato prima di allora, ma che conteneva a malapena due scope di saggina e un aspirapolvere troppo vecchio per funzionare a dovere.
Scesi dal mobiletto posto all'angolo del corridoio con un salto. La lampada che occupava la superficie accanto ai miei piedi cadde a sua volta sul pavimento. Il gambo di ceramica si ruppe in tre pezzi diversi sul tappeto bordeaux, mentre sul legno rimaneva un cerchio lucido fra la polvere. Lo fissai senza fiatare, immobile sul posto, finché i bordi dell'immagine non cominciarono a farsi sfocati. Sospirai. Raccolsi i frammenti come un'automa e li posai sul mobile. Non sapevo perché lo stessi facendo, ma avevo bisogno di tenermi occupata per non pensare. Fra l'inutilità delle mie ricerche e il silenzio di Sarah, dispersa chissà dove, la mia mente si rifiutava di non pensare al peggio. Ero sempre stata pessimista, ma certe volte mi stupivo io stessa dei livelli che potevo raggiungere.
Va bene. Fermiamoci un attimo. Andrew deve per forza aver utilizzato un passaggio su questo piano, un passaggio vicino al salotto, altrimenti l'avremmo visto. O perlomeno sentito, pensai fra me. Eppure avevo controllato ogni singolo anfratto, angolo o parete senza trovare alcunché. Le mie mani erano scivolate su carta e pittura senza incontrare ostacoli. Avevo anche controllato le librerie, spostato libri su libri, come avevo visto fare nei film. Niente. Nessuna porta nascosta era comparsa davanti ai miei occhi per magia.
Mi passai una mano fra i capelli, disgustata dallo stato in cui si trovavano, pieni di polvere e sporcizia. Sentivo ancora dolore alla gamba e alla caviglia quando spostavo il peso in quella direzione. Il sangue aveva smesso di colare da un po', ma del disinfettante avrebbe fatto comodo alla ferita infiammata. La sentivo troppo calda e gonfia per restare tranquilla. Ero in condizioni pessime, ma non avevo intenzione di arrendermi per questo. Se avessi trovato una via di uscita o un modo per raggiungere Andrew e vincere il gioco forse Sarah mi avrebbe perdonata. Forse, con il tempo. Ritornai quindi nella sala comune. Mi fermai di fronte al caminetto scoppiettante, ignorandone il contenuto, e ricominciai a scrutare le pareti. Passai le mani sulla mensola di marmo e poi lungo il muro. Chiusi gli occhi. Dovevo concentrarmi sul tatto e per farlo dovevo isolarlo dagli altri sensi. Sentivo ancora il silenzio opprimente della casa e il ticchettio del fuoco, ma potevo vedere solo nero nulla. Era rischioso, soprattutto con un pazzo in giro per casa, ma mi affidai alla sua assoluta dedizione alle regole del gioco. Nessun altro sarebbe morto per quel giorno. Continuai quindi a tentoni, finché i miei polpastrelli non incontrarono un rilievo ruvido sulla superficie liscia.
Spalancai le palpebre. Mi ritrovai davanti alla cornice dorata di un quadro di natura morta. Anonimo, di fattura mediocre. Le pennellate non rivelavano alcuna abilità particolare nella stesura e il soggetto era banale. Sospirai delusa. Riabbassai la mano e inclinai il capo, cercando un senso in tutto quel disastro.
Ci misi qualche istante a notare un dettaglio a prima vista insignificante, ma che si rivelò più utile di quanto potesse sembrare. Il quadro era storto. E, okay, non era poi così strano in un collegio pieno di adolescenti turbolenti e gestito da un uomo incurante dell'arredamento, ma sapevo anche che mio padre mal sopportava il disordine nei luoghi comuni. Ci rimproverava sempre quando qualcosa non andava per il verso giusto. Quel quadro in particolare pendeva in un verso estremamente sbagliato. Avvicinai il volto al dipinto e spinsi la cornice di lato per rivelare il retro della parete.
Sussultai. Strinsi la presa sul legno dorato e staccai il quadro dal chiodo con un gesto secco, buttandolo a terra. Davanti ai miei occhi c'era una nicchia quadrata, una rientranza nella parete che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Avrei anche potuto ignorarla, tuttavia, se solo non fosse stata presente una leva al centro della superficie quadrata di fondo. Era una semplice maniglia di legno, ma per quanto anonima risultava incredibilmente sospetta se nascosta dietro a un quadro e senza uno scopo palese. La sfiorai con le dita in preda all'eccitazione. Non potevo essere certa che si trattasse di ciò che pensavo, ma lo speravo con tutta me stessa.
Feci due passi indietro, pur senza staccare la mano dalla leva. Respira. Uno, due e... tre! Accadde tutto rapidamente. Abbassai il cilindro di legno e uno scricchiolio sinistro esplose nei miei timpani. Era vicino. Molto vicino. Mi ritrassi di colpo, smuovendo lo sguardo da un angolo all'altro della sala. Il rumore sembrava destinato a non finire mai. Mi ritrovai a strizzare gli occhi per il fastidio, ma non per questo potei evitare di vedere l'apertura che si era appena creata nel pavimento, nel punto esatto in cui mi trovavo pochi secondi prima. Il pavimento. Ma certo. Come avevo fatto a non pensarci?
Le assi del parquet si erano separate ed erano la fonte dello scricchiolio. Mi stupii di non averlo sentito quando Andrew l'aveva utilizzato quella mattina. Come aveva fatto a nasconderlo? Che mi fossi distratta al punto da non notarlo? Scossi la testa per disperdere le domande agli angoli della mia mente. Dovevo restare concentrata. Dovevo trovare un'uscita, o Andrew, o qualsiasi cosa mi consentisse di sopravvivere alla settimana. Pensai per qualche secondo alla possibilità di chiamare Sarah, ma la scartai all'istante. Non ero certa che quel passaggio portasse a qualcosa di buono. Sarebbe stato meglio evitare ulteriori sbagli, con lei.
Mi chinai sulla botola, in ginocchio accanto al bordo. Al di sotto delle assi, che spostai per allargare l'entrata, cominciava una scalinata traballante. Gradini di legno umido e maleodorante scendevano in profondità, per poi sparire nel buio. Un tanfo di muffa mi riempì le narici fin dal primo respiro. Storsi il naso. Non potevo scorgere il fondo della scala, ma non prometteva nulla di buono. Mi rialzai per guardarmi intorno. Afferrai un soprammobile di metallo a forma di conchiglia da un tavolino e lo gettai dentro la botola. Lo sentii rotolare per minuti interi, per poi colpire il terreno in modo più stabile. Deglutii. Non si trattava di una discesa breve e io non avevo torce.
Non sarà più pericoloso di ciò che hai già passato fin'ora, Kay, mi dissi. Non ero una vigliacca. Non mi sarei fatta spaventare da un tunnel buio. Presi un respiro profondo e cominciai a scendere. Gradino dopo gradino la luce del salotto scemò gradualmente, lasciandomi presto al buio più completo. L'aria si faceva man mano più umida. Ovunque stessi andando, si trovava molto più in basso della cantina.
Tastavo le pareti per muovermi in linea retta. Ero avvolta dal silenzio. La pressione della terra sopra la mia testa gravava l'aria di una certa pesantezza, che si ripercuoteva sui miei nervi tesi e sul mio passo lento, attento a non mancare nessun gradino. Mi sentivo cieca e sorda al tempo stesso. Solo il rimbombare dei miei passi sul legno morbido segnava il ritmo della discesa. Punta del piede sul bordo e poi sulla tavola inferiore. Bordo, passo. Bordo, passo. Procedevo alla velocità di una marcia nuziale. Se solo avessi potuto vedere dove stavo mettendo i piedi sarebbe stato tutto più veloce e il mio respiro nel silenzio non sarebbe stato così inquietante.
Se la statuetta ci aveva messo un paio di minuti a scendere, io ne impiegai una ventina. La caviglia debole continuava a piegarsi nei momenti meno opportuni procurandomi fitte dolorose, che esplodevano poi davanti agli occhi con scintille luminose nel buio. Mi appoggiai alla parete con tutto il peso nel tentativo di riprendermi. L'umidità incollata alla pelle mi dava l'impressione di trovarmi sott'acqua. Sfregai i pugni sulle palpebre con un grugnito. Ripresi a camminare. Stava diventando un lavoro meccanico, ormai, al punto da dimenticare il vero motivo per cui mi ero calata fin lì.
Poi la scala finì. La punta della mia scarpa non incontro il famigerato bordo del gradino, per quanto lo cercasse. Mossi qualche passo e solo allora ne fui certa: mi trovavo in una specie di pianerottolo non troppo grande. Potevo toccare entrambe le pareti laterali con la punta delle dita restando al centro. Mi spostai in avanti senza perdere il contatto con la roccia. Non sapevo dove sarei finita di quel passo, ma sicuramente non mi sarei aspettata di inciampare nell'ennesimo gradino. Caddi in ginocchio sul legno, che scricchioliò sotto al mio peso improvviso. «Ma che diavolo -» mormorai. Tastai il pavimento con le mani. Una seconda scala risaliva verso l'alto, opposta a quella che avevo già percorso. Un lamento frustrato lasciò le mie labbra prima che potessi rendermene conto. «Questo è uno scherzo. È un maledetto scherzo.»
Mi rimisi in piedi a fatica. La prospettiva di replicare i venti minuti precedenti non mi allettava affatto. Fu un rumore acuto a portarmi con i piedi per terra. Voltai la testa, sebbene non potessi vedere nulla, e cominciai a indietreggiare. Avevo già sentito un suono simile. Era successo giorni prima, quando Martha era stata schiacciata dallo scaffale della biblioteca. Ratti. Era lo squittio di un ratto quello che avevo appena udito, seguito da decine di altri. Quanti erano? Non potevo determinarlo con precisione, ma anche uno soltanto bastava e avanzava per disgustarmi.
Feci aderire la schiena alla parete. L'unica via di fuga che avevo era la scala, ma sarei stata troppo lenta e loro troppo veloci. Pensa, Kay, pensa. Ma d'altra parte cosa potevo fare? Ero incastrata là sotto con quegli animali. Non avevo molte alternative. Un verso cigolante mi raggiunse, più vicino dei precedenti. Sobbalzai. La mia caviglia si scontrò con il primo gradino, mentre una coda sottile strisciava sulla pelle scoperta dai jeans. Trattenere un singulto non fu affatto semplice. Cominciai a salire a dispetto del dolore alla gamba, ma sentivo le unghie dei topi ticchettare sul legno subito dietro di me. Accelerai. Caddi più volte di quante fui in grado di contare, i palmi sbucciati e il fiato corto. A ogni caduta il rumore di passi dietro di me aumentava, come se le creature fossero attirate dall'odore del mio sangue. Probabilmente era proprio così.
Non ci volle molto perché iniziassi a correre. Quasi non sentivo più il dolore. Dovevo essere già alla fine della scala quando, inseguita da squittii furiosi e strilli acuti, mi scontrai con qualcosa di appiccicoso e filante. Urlai di disgusto mentre cercavo di liberarmi della ragnatela che mi aveva avvolta. Schiaffeggiavo ogni punto del mio corpo nella speranza di uccidere il ragno che sapevo doveva essermi finito addosso nell'impatto. Sbattei la schiena contro la parete di fondo senza smettere di muovermi come un'ossessa. Udivo a malapena i versi dei ratti ai miei piedi. Mi infilai le mani nei capelli e li scossi con violenza. «Devo uscire da qui! Devo -»
Non feci in tempo a finire la frase. La parete dietro la mia schiena si mosse all'improvviso. Persi l'equilibrio. Cercai di aggrapparmi alla roccia con le unghie, ma l'unico risultato che ottenni fu di spezzarle fino alla carne. Sbattei la spalla destra sul pavimento, mentre una luce accecante mi feriva le pupille dilatate. Dove ero finita? Non potevo aprire le palpebre finché non mi fossi abituata al chiarore, ma non potevo nemmeno restare lì. Strisciai in avanti con i gomiti. Il pavimento era di legno. Mi scontrai contro una superficie verticale prima di poter realizzare di essere tornata in casa.
Sbattei le palpebre. Mi trovavo sotto un tavolo. Creava abbastanza ombra da permettermi di aprire gli occhi e rendermi conto di essere sbucata nell'ufficio di mio padre. Avevo riconosciuto il tappeto davanti alla scrivania e il vaso vicino alla porta, dove una pianta afflosciata faceva bella mostra di sé con tanto di foglie ingiallite. Ripetevo sempre a mio padre di buttarla, ma sembrava sempre troppo impegnato per occuparsene. Ora di certo non avrebbe più potuto farlo.
La consapevolezza che il cadavere del preside si trovasse ancora nella stanza con me mi colpì in pieno volto accompagnata dall'odore dolciastro di decomposizione. Un conato di vomito mi capovolse lo stomaco, tanto che dovetti piegarmi in due per contrastarlo. Cercai di respirare con la bocca. Dovevo lasciare la stanza. Il tanfo era insopportabile quanto l'idea di vedere le condizioni in cui il corpo di mio padre si era ridotto in quei giorni.
Balzai in piedi con una scatto. Il passaggio segreto si era richiuso da solo grazie a un meccanismo che non avevo compreso appieno, ma che avrei analizzato più avanti, quando sarei stata più lucida. Raggiunsi la porta e la richiusi alle mie spalle con forza, come se potessi impedire in questo modo all'odore di fuoriuscire dagli interstizi. Solo a quel punto mi concessi di scivolare a terra, la testa fra le mani e il cuore in gola. Avevo trovato un passaggio segreto, ma non mi aveva portato a niente di utile. Sicuramente Andrew l'aveva utilizzato per depositare il "regalo" sul caminetto, ma non era lì che si nascondeva. Doveva per forza esserci una stanza nascosta da qualche parte, magari vicino all'ufficio del preside.
Presi un respiro profondo e volsi lo sguardo verso una delle finestre che dava sulla strada. Non avevo idea di che ore fossero, ma sapevo di avere poco tempo in ogni caso. Sentivo il desiderio di rintracciare Sarah e parlare con lei delle mie scarne scoperte, ma ero consapevole del fatto che non volesse vedermi. Forse si era chiusa in qualche ripostiglio in attesa della fine. Fine che per lei sarebbe giunta il giorno seguente e che io non avrei potuto fermare se non avessi trovato una scappatoia nelle prossime ore. Cosa le avrebbe fatto Andrew se io avessi fallito? L'avrebbe fatta soffrire più delle altre solo perché era la mia migliore amica? L'avrebbe fatto per ferire me?
Chiusi gli occhi, rivivendo per un istante il panico che avevo provato nello scantinato quando la pelliccia ispida dei tipi mi aveva sfiorato la pelle. Rabbrividii. Non mi sarei ripresa facilmente da quell'esperienza. Cosa stai dicendo, Kay? Tu non sopravviverai affatto.
Mi venne quasi da ridere, mentre lasciavo vagare lo sguardo sulle pareti del corridoio. C'era una certa ironia in tutta quella faccenda, o forse ero soltanto io a vederla. Mi risollevai da terra. La giornata non era ancora finita e la mia missione non si era compiuta. «Andy... Dove ti nascondi?» sibilai fra me. Tenendo una mano sulla parete tracciai il mio percorso passo dopo passo. La consistenza solida e fredda della parete mi solleticò i polpastrelli. Era ciò che di più reale potessi percepire nella confusione della mia testa. Le stanze si susseguirono una dopo l'altra senza che scorgessi alcun segnale. Come si identificava una stanza segreta? Avrei trovato un'altra leva? Una maniglia all'apparenza senza scopo?
Feci il giro completo del piano senza trovare alcunché, così come avevo fatto all'incirca un'ora prima. Nemmeno lì Sarah si degnò di palesare la sua presenza. Continuavo a pensare che si fosse nascosta da qualche parte. Tornai davanti all'ufficio di mio padre. La porta era ancora chiusa come l'avevo lasciata. Deve essere qui. Il passaggio deve trovarsi qui vicino. Ma dove?
Una lampadina mi si accese nel cervello con uno scatto improvviso, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Deglutii alla prospettiva di ciò che mi era venuto in mente. Se fosse stato vero sarei dovuta entrare ancora una volta nella stanza che ospitava il cadavere del preside, sentire di nuovo l'odore della morte e vedere ciò che ne rimaneva. Al solo pensiero il mio stomaco parve tremare. Avanti, Kay. Non si deve aver paura dei morti. Sono i vivi quelli da temere, mi ripetei come un mantra. Chiusi gli occhi e serrai le labbra. Fu così, cieca e muta, che avvolsi la maniglia dell'ufficio fra le dita e la abbassai.
Il fetore mi raggiunse fin dalla soglia. Strinsi i denti. Mi mossi piano, tenendo lo sguardo basso sul parquet. Mi concentrai sulle macchie di usura e sulla pelle marrone della poltrona su cui molti studenti si erano seduti per ascoltare i rimproveri del preside. La scrivania era posta di fronte a essa. Sapevo che mio padre era dall'altra parte. Non lo guardai. Non guardai niente al di là del ripiano ingombro di fogli, su cui invece focalizzai la mia attenzione. Documenti e cornici mappavano la superficie senza un ordine apparente. Alcuni erano macchiati di sangue, ma feci di tutto per ignorarlo. Spostai i fogli in diverse pile, tastai il legno scuro del tavolo, ma nulla. Non si mosse nessuna parete, nessuna botola si aprì nel pavimento e di certo nessun assassino si palesò davanti a me legato a una sedia elettrica, come invece avrei sperato.
Feci un passo indietro massaggiando la fronte con una mano. La puzza di sangue mi stava dando alla testa. Ebbi un giramento, al quale corrispose un passo instabile verso la scrivania. La caviglia indebolita cedette sotto al mio peso. Dovetti appoggiarmi alla scrivania per non crollare a terra e nel farlo mi aggrappai alla cornice di una delle foto. Era una semplie immagine della mia faccia rotonda, risalente a quando avevo quattro anni. Cadde a terra con un tonfo. Tuttavia, non fu l'unico suono che udii. Scattai all'indietro con un salto, mentre la libreria alta e sottile ruotava su se stessa, come se fosse stata collegata a un perno al suo centro. Era posta esattamente sul lato opposto al passaggio da cui ero uscita. Avrei dovuto pensarci.
Osservai la rientranza scura che si era formata con sospetto. Sapevo di dover entrare, ma non potevo evitare di pensare al tunnel pieno di ratti. Devo farlo per Sarah. Perché se lo merita.
Presi un respiro profondo, poi mossi il primo passo. Nel giro di un secondo venni risucchiata di nuovo dalle tenebre.
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