Aliennation, ovvero: come imparai a perdere l'identità e non preoccuparmi
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Alle sei e undici in punto i cancelli del St. Gabriel's Hospital vennero abbattuti da una squadra di alieni; questo fece allarmare i bambini. Era il primo giugno e il sole spuntava all'orizzonte. Tim fu prelevato con un'azione rapida ed efficace. Si divincolava come una bestia inferocita; ovviamente non sarebbe riuscito a scappare. Appena gli alieni se ne andarono, i bambini emersero dai propri nascondigli per affacciarsi alle finestre. Il sedere di Tim strisciava sull'asfalto, i suoi occhi avevano già iniziato a colorarsi di quel verde gelatinoso. Dal fondo, qualcuno gridò: «Basta! Smettetela di guardare, lui non più Tim». Peter lo zittì all'istante.
«Non provarci mai più» gli disse. «Ci riprenderemo il nostro Tim, e anche tutti gli altri. Adesso tornate a dormire,» concluse poi rivolto all'assemblea, «è ancora notte per quanto ci riguarda.»
Era il più grande di tutti, Peter. Ora che il vecchio leader era stato catturato quel ruolo spettava a lui. Sapeva che un giorno, un giorno più vicino di quanto egli sperasse, avrebbe fatto la fine di Tim; ma fino a quel giorno doveva resistere, a ogni costo.
Al risveglio i bambini sembravano già più tranquilli. Peter, invece, aveva passato una pessima nottata. "Anch'io ero tranquillo il giorno in cui il vecchio Francis venne alienato e Tim prese il suo posto" pensò seduto in disparte. Questo lo fece preoccupare ulteriormente, perché è risaputo che i bambini non si preoccupano: gli alieni lo fanno - ah, quegli pseudo-zombie usciti da chissà dove! Dunque le cose stavano così: la metamorfosi era già iniziata. No, non voleva diventare uno di quei verdi senza vita.
Ian, sedendosi sulla roccia del vice, gli chiese cosa avesse.
«Niente. È che...» cominciò Peter.
«Cosa?»
«Lascia perdere. È un mio problema.»
In quel momento gli tornò alla memoria quel giorno in cui Tim lo aveva preso e portato con sé per passargli il testimone. Un grande leader, Tim, se ne rendeva conto solo ora. Gli aveva fatto un lungo discorso molto articolato e per tutto il tempo lui era rimasto imbambolato a chiedersi come potesse un discorso del genere essere partorito dalla mente di un bambino. Eppure, a distanza di quasi un anno e mezzo, ripensandoci gli sembrò un discorso del tutto naturale, talmente naturale che si sentì di doverlo riferire a Ian proprio lì dov'erano, perché gli alieni sarebbero potuti arrivare da un momento all'altro ed era suo compito lasciare un vice ben addestrato.
«Ian» disse. «Devo dirti una cosa importante.»
«Puoi dirla questa sera all'assemblea, no? Adesso dovremmo riparare il cancello.»
«Devo dirla soltanto a te, Ian.»
«Soltanto a me?» fece quello sbalordito.
«Sì, soltanto a te.»
Con un cenno del capo e un mugugno, Ian gli fece cenno di iniziare.
«Lo sai che potrebbero venirmi a prendere da un momento all'altro, vero?»
«Li cacceremo Peter, croce sul cuore!» gridò Ian segnandosi la croce con il pollice all'altezza del petto. «Tutti insieme, uno di fianco all'altro. E poi ci riprenderemo Tim, il vecchio Francis e quelli prima di loro!»
«Ascoltami Ian, non credi di essere un po' troppo grande per le favole? Quando arriveranno mi porteranno via, e né io, né te, né nessun altro potrà farci niente. Dev'essere così che vanno le cose.»
«Ma Tim diceva che...»
«So cosa diceva Tim durante le assemblee. E so anche cosa diceva a me, in privato.»
«In privato?»
«Sì, in privato. Io non gli davo retta, ma adesso...»
Peter prese una lunga boccata d'aria e fece un sospiro. «Lascia perdere» disse. «Ma sappi che quando io non ci sarò più toccherà a te prenderti cura dei ragazzi.»
«Lo so» rispose Ian.
«Sotto al frigorifero c'è il testimone, uno di questi giorno ti ci porto. È in una botola segreta in cui possono entrare solo il leader e il suo vice. Lì ci sono i nostri rifornimenti, arriverà il momento in cui dovrai gestirli tu.»
«Gestire quelle cose per tutti? Io?» sbraitò l'altro spaventato.
«Shhhh!» fece Peter. «Sta tranquillo, finché resto qui spetta a me farlo. Non preoccuparti, vedrò di insegnarti.»
«Sarai un buon leader» gli fece coraggio l'amico.
«Già, sarò un buon leader.»
Ma Peter non voleva essere un buon leader. I leader se li portano via gli alieni, lui voleva solo la tranquillità che non gli era mai mancata fino a quel momento. Eppure quei bambini dipendevano da lui, e non si poteva certo tirare indietro per rispetto verso Tim, il vecchio Francis e quelli dietro di loro. Si sedette sul trono del leader e pensò a come, nel giro di poco tempo, Tim sarebbe diventato il vecchio Tim, e il vecchio Francis nient'altro che un'antica leggenda senza identità. Era questa la fine che facevano i leader alienati: perdevano il proprio nome. Peter non voleva perdere il proprio nome, gli piaceva un sacco quel nome, così come il colore azzurrino dei suoi occhi. Ma era inutile disperarsi: Ian sarebbe diventato il nuovo leader, finché non avrebbero preso anche lui. A quel punto Peter sarebbe diventato il vecchio Peter, fino al giorno in cui la gerarchia non avrebbe fatto un altro passo e lui sarebbe stato rimpiazzato dal vecchio Ian scomparendo dalle memorie collettive.
«Andiamo ragazzi, c'è un cancello da sistemare!» urlò Peter, e i bambini, tutti sorridenti, si avvicinarono al grosso ammasso di ferro che nella notte era stato scaraventato a terra.
«Uno, due, tre. Oh-issa! Oh-issa!»
Ognuno, dai più piccoli ai più grandi, dava un contributo nella misura delle proprie forze e delle proprie capacità, che si trattasse di spingere verso l'alto una tonnellata di rovente acciaio inox o intonare canzoni da compagnia o portare del fresco succo alla pesca, del tè al limone e delle ciotole di salatini. Non c'erano delle regole scritte, semplicemente ognuno capiva quando fosse il momento di dare una mano e quando invece ci si potesse riposare e inseguire i propri piaceri. Il leader era soltanto una figura di riferimento, uno a cui chiedere consiglio su qualsiasi argomento; tutti gli volevano bene e dava sempre il buon esempio mettendosi a lavorare per primo.
Quando calò il sole le sbarre erano di nuovo in piedi, più stabili che mai. A cena i bambini scaldarono dei bastoncini Findus sulla piastra e li mangiarono insieme a fette di prosciutto crudo senza grasso. Poi, visto che era mercoledì, accesero un fuoco nella sala comune e misero ad arrostire i loro spiedini di marshmallow mentre i più grandi - quelli che come Peter avevano visto il mondo esterno - raccontavano degli alieni che abitavano la città e se ne andavano in giro barcollando in fila indiana coi loro occhi del colore dei moccoli.
«E passano tutto il loro tempo di fronte a uno schermo luminoso a sbattere le dita sul loro tavolo» disse Ian accompagnandosi con dei movimenti delle mani. «Hanno anche dei lunghi fili che si attaccano alle orecchie, così diventano tutta una cosa con lo schermo. Poi le loro case sono piene di fogli. Zeppe di fogli fino al soffitto!»
«Anche la mia stanza è piena di disegni, vuol dire che sto per essere alienato?» chiese preoccupato uno dei nuovi arrivati.
«Ma no» gli sorrise Ian. «Nessun disegno, quei fogli sono pieni di scritte. Scritti avanti e dietro senza spazi bianchi per risparmiare. Sai,» iniziò a spiegare, «tagliano un sacco di alberi per quei fogli. Infatti in città non ci sono mica dei giardini come qui da noi, è tutto ricoperto di grigio, come delle strane sabbie mobili indurite. L'unica cosa verde che c'è sono gli occhi degli alieni, quelli si vedono anche di notte. E poi nei loro fogli ci sono un sacco di numeri» continuò. «Tantiiiiiiiiissimi numeri! Da far venire il mal di mare. Agli alieni piacciono un sacco i numeri, i conti, la matematica...»
«Agli alieni piace la matematica?» esclamarono all'unisono i bambini.
«Sì. Pensate che fanno i conti anche quando prendono il latte dagli altri alieni. Prendono una bottiglia e poi mica la bevono, vanno da un altro alieno che gli dice un numero, e loro dicono un altro numero e poi si scambiano dei fogli di carta colorati e vanno via con il loro latte senza averlo bevuto. Roba da matti!»
"Roba da matti" pensò Peter. Chissà cosa avrebbe fatto quando sarebbe stato il suo turno. Probabilmente anche lui avrebbe dovuto dire dei numeri per prendere del latte. Che diavolo c'entrassero poi i numeri con il latte, questo non ce la faceva proprio a spiegarselo. Eppure aveva questo pessimo presentimento, che di lì a poco l'avrebbe scoperto.
«Ma perché gli alieni sono verdi?» chiese un ragazzino paffuto.
«Sono verdi perché sono stati contaminati» spiegò Ian.
«Contaminati?» fece quello aggrottando le sopracciglia.
«Sì, proprio così. Quando io ero piccolo mica esistevano gli alieni. Le persone vivevano tutte in mezzo a un grosso prato che adesso non c'è più e passavano il tempo a giocare a pallone e andare sulle giostre. Ce n'erano tantissime, dal furgoncino dei pompieri ai cavalli del West. Poi c'erano le montagne russe, gli autoscontri e anche il calcinculo. Ma che ne volete sapere voi delle giostre, giovanotti! Eh sì, si stava proprio proprio proprio bene. Poi una decina di anni fa sono sbarcati gli alieni.»
Il bambino paffuto era diventato rossissimo in faccia e sembrava stesse per esplodere. «Davvero? E tu li hai visti?» gridò.
«Certo che li ho visti. Sono atterrati nel prato in cui vivevamo con una navicella spaziale grossa quanto un frisbee. Anzi, noi l'avevamo scambiata proprio per un frisbee, così avevamo iniziato a tirarcela. Poi però si è aperta e ne è uscita una gelatina verdastra che ha cominciato ad appiccicarsi addosso alle persone.»
«La stessa gelatina che c'è negli occhi degli alieni?»
«Già, proprio quella. Quando un alieno ti prende, la sua gelatina ti si appiccica addosso e diventi uno di loro.»
Tutti rimasero in silenzio disgustati da quell'immagine.
«È questo che è successo a Tim e al vecchio Francis?» chiese qualcuno dal fondo.
Ian, abbassando lo sguardo, annuì. «Ma si può sempre tornare indietro, ragazzi. Non vi preoccupate» concluse.
Appena il silenzio calò nell'assemblea, Peter guardò l'orologio e disse che era ora di andare a letto. Dopo le prime lamentele, i bambini si arresero e rientrarono ognuno nella propria stanza per addormentarsi.
Quando Ian risalì dalla botola con una decina di scatole di fagioli, due buste di mais, alcuni pomodori e dell'insalata, senza bisogno di parole Peter si rese conto che non sarebbero potuti andare avanti così ancora per molto. Certo, altre volte durante la sua leadership avevano dovuto fare rifornimento, ma si trattava di piccole missioni a basso rischio. Adesso, invece, dovevano tentare qualcosa di più imponente se volevano continuare a sfamare tutti.
«Non abbiamo altre opzioni» disse a Ian. «Dobbiamo tentare un colpo grosso, così resteremo tranquilli per parecchio tempo.»
Il vice alzò lo sguardo verso di lui e gli ricordò cosa diceva il vecchio Francis a proposito dei colpi grossi. Il vecchio Francis era stato l'ultimo a farne uno, quando ancora non era leader. Aveva perso i suoi migliori amici in quel colpo. «E la sua mano è diventata verde per colpa di un alieno, te lo ricordi?» concluse Ian.
«Certo che me la ricordo la mano del vecchio Francis. Ma mi ricordo anche quando ci diceva di pregare per quei poveri diavoli che c'erano rimasti, perché se non fosse stato per loro saremmo morti di fare tutti quanti.»
«Hai ragione. Vado a prepararmi.»
«No, tu resterai qui» sentenziò Peter.
«Cosa? Non ci pensare. Io vengo con te.»
«Tu sei il vice, Ian. Se dovesse accadermi qualcosa, devi restare qui e badare agli altri. Porterò con me Danny e il piccolo Lupin. In questi casi uno come lui fa sempre comodo.»
Era tutto pronto, dunque. Quella stessa notte Peter, Danny e il piccolo Lupin sarebbero sgattaiolati fuori dal cancello del St. Gabriel's senza dare nell'occhio. Poi, muovendosi nell'ombra con un carrello a testa, avrebbero raggiunto il supermercato della strada di fronte, quello a centotredici passi dal confine del loro mondo, ognuno seguendo un percorso diverso per evitare spiacevoli inconvenienti collettivi. Una volta raggiunto l'obiettivo, il piccolo Lupin avrebbe borbottato: «E questa che razza di porta è? Io non la so aprire questa qua». Tutto ciò non faceva parte del piano, così Danny, alzando un po' la voce, disse: «Che vuol dire che non la sai aprire?»
«Shhhh!» fece Peter. «Vediamo di non farci beccare.»
«Scusa» rispose Danny.
«E adesso che si fa?» chiese il piccolo Lupin.
«Cosa vuoi che si faccia? Torniamo indietro, brutto testone» lo sgridò Danny.
«No,» intervenne Peter, «ormai siamo qui e non possiamo tirarci indietro. Gli altri supermercati sono troppo distanti, non possiamo correre il rischio, e di certo non cambieranno una porta per fare un piacere a noi. Quindi non ci resta che entrare.»
«E come?»
«Con questo» disse Peter tirando fuori dal carrello un vecchio piede di porco arrugginito. «Me l'ha lasciato Tim. Per ogni evenienza, diceva. Credo che questa possa essere considerata un'evenienza.»
Infilò la sbarra di metallo nella porta e fece forza. Prima che si fosse aperta del tutto, i ragazzi era già scomparsi al suo interno, per poi uscirne mezz'ora dopo coi carrelli pieni fino all'orlo.
Ognuno dei tre imboccò la propria strada augurando agli altri di arrivare al St. Gabriel's senza essere alienati e si mescolò alle tenebre della notte. Peter rimase per un po' a guardarsi intorno e poi, sovrappensiero, prese a spingere il carrello lungo la strada buia con la mano sinistra, mentre nella destra impugnava una pistola a piombini appena rubata. "Per proteggere i ragazzi dagli alieni" si era detto. Ne aveva anche altre tre all'interno del carrello insieme a una riserva di munizioni, nascoste fra enormi pacchi di girelle di liquirizia e caramelle gommose. Sapeva benissimo che, in realtà, l'unico che voleva proteggere era se stesso, e senza neanche accorgersene superò l'ospedale mentre i bambini, dalle finestre, lo osservavano allontanarsi senza capire.
"Che sta combinando?" si chiese Ian. "Deve avere in mente qualcosa."
Ma l'unica cosa che Peter aveva in mente era il terrore che lo annebbiava. E, stringendo forte fra le dita la sua arma di difesa, si addentrò nel quartiere residenziale degli alieni - proprio lì, nel cuore della roccaforte nemica. Ancora prima che potesse alzare lo sguardo, due occhioni verdi e gelatinosi gli si erano piazzati davanti.
«E tu, piccolino, che ci fai qui a quest'ora?» blaterò l'alieno con la sua voce roca e metallica.
"Già," si chiese Peter, "chissà che ci faccio io qui", ma quello intanto si era già messo a frugare nel suo carrello. Rovistò fra gli insaccati, fra le liquirizie e le caramelle gommose, fra scatole di pizza surgelata mentre Peter, spaventato, cercava di comprendere se sarebbe stato meglio scappare o sparargli. Così alzò la pistola e gliela puntò in faccia, ma quello gli fermò il braccio e lo strinse talmente forte da far cadere l'arma a terra. Fra lo sgomento dei ragazzi che dal St. Gabriel's assistevano impotenti alla scena, l'alieno ammanettò Peter e lo spinse all'interno della sua macchina per condurlo in uno stanzino buio dove c'era un altro alieno ad attenderlo seduto di fronte a uno schermo. Doveva essere lì per infettarlo, non c'erano altre possibilità.
L'unica luce nella stanza era emessa dallo schermo; illuminava gli occhi verdi dell'alieno rendendoli ancora più orribili. Quando iniziò a parlare, Peter scoppiò in lacrime. Quello non si scompose: continuò a ripetergli cosa dovesse fare a una velocità estrema, come un disco rotto e impazzito, mentre dalla scrivania, accompagnati da un rumore infernale come di animali stritolati, uscivano dei fogli pieni di scritte.
«Qui, qui» ordinava l'alieno. «Devi firmare qui, qui, qui, qui. E qui, e anche qui. Sai cosa vuol dire firmare, ragazzino? Come non lo sai. Va bene, non importa. Fai una croce. Una croce, croce per l'amor del Cielo! Ics! Lo capisci? I-c-s. Non è difficile. Su, veloce, che non ho tempo da perdere con quelli come te, c'è già altra gente in fila.»
Peter piangeva e il rumore di animali stritolati era sempre più forte; la quantità dei fogli cresceva di pari passo.
«Non farmi perdere tempo ragazzino» continuava l'alieno. «Una croce lì. Qui, esatto qui. Lì, sì. No, non lì. Qui, e là. E questo era il primo, complimenti, record assoluto di lentezza. Magari con gli altri ventidue andiamo meglio, eh?»
Altri fogli. Fogli a non finire. Peter pensò che sarebbe morto in quel posto lugubre, soffocato da un mucchio di carta.
«Allora? Ce la fai? E che diamine, ma ci sei andato a scuola? Lì. No, no! Che casino. Tocca ricominciare dall'inizio. Ma guarda tu che mi tocca fare! Ah, questi ragazzi di oggi» sospirò l'alieno. «Via, butta tutto a terra. Sì, a terra, tanto siamo già sommersi dalla carta. E adesso ricomincia. Quando hai fatto fammi sapere: c'è tutta la parte al computer. E vedi di sbrigarti, altrimenti ci mettiamo due giorni.»
Peter eseguì i suoi ordini. Spaventato, segnava croci tremolanti su fogli zeppi di parole incomprensibili. Dovette ricominciare alcune volte, la carta gli era arrivata all'altezza delle ginocchia. "E pensare che manca ancora tutta la parte al computer!" si disse. Poi, quando l'alieno, infuriato per l'ennesima crocetta fuori posto, gettò tutti i fogli all'aria, Peter sentì i suoi occhi verdi entrargli dentro come uno spillo appuntito. La luce dello schermo lo abbagliò e non si accorse nemmeno che quel mostro se n'era andato, abbandonandolo lì davanti per il resto della sua vita.
"E così questa è la fine" pensò; un secondo dopo la sostanza verde si era impossessata di lui, ricoprendo il suo corpo di squame e i suoi occhi di gelatina. Adesso anche lui era un alieno e subito si rese conto che niente l'avrebbe mai potuto riportare indietro. Quando gli furono porti i fogli ancora una volta, Peter - o forse non si dovrebbe più chiamarlo in questo modo - prese la penna e mise tutte le crocette al posto giusto. Poi andò a dormire in un posto dimenticato da Dio; non si sarebbe più svegliato finché qualcuno non gli avesse dato un ordine ben preciso.
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