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Capitolo uno. - "Uccellini in stanza."

Il corpo gracile di una ragazza era seduto sul materasso di un letto singolo. Il piede era poggiato su di esso e le sue dita erano nell'intento di allacciare le stringhe delle scarpe di una marca non famosa. Il suo labbro inferiore veniva torturato dai suoi stessi denti. Le unghie divorate, indossavano uno smalto rosa confetto. Lei aveva quello stupido vizio, ovvero; di mangiarsi le unghie come non mai, fregandosene del suo stomaco e dei problemi che potessero causare. Era rimasta l'unica a restare in vita, tutti erano scomparsi, tutti non c'erano più, erano morti. I suoi occhi erano spenti, di quella volta non ricordava nemmeno cosa fosse accaduto, né di ciò che accadde prima. Ricordava solo che erano morti tutti. Si alzò un po' dal letto, sbandando leggermente. Non aveva preso ancora la stabilità. Erano passate due settimane, era sveglia da soli cinque giorni, non appena la porta abbastanza spessa si spalancò, gli occhi di un uomo si posarono sul corpo non stabile della ragazza. «Cosa stai facendo?»
Lei rimase a guardarlo, non disse nulla e tornò a sedersi mentre le stringhe erano slacciate. «Credo che tu voglia andare via, vero?» La guardò ancora ma lei rimase in silenzio. «Devi ancora riprenderti, tra un po' le infermiere verranno da te per farti degli eventuali controlli.»

Lei continuava a non rispondere. «So che sei ancora sconvolta per la notizia dei tuoi genitori e del tuo ragazzo.» Sospirò l'infermiere. «Sono cose che purtroppo la vita offre.» Lei lo guardò come se il suo cuore fosse crollato più del dovuto. «Ma vedi, devi stare a riposo.» Continuò il discorso e la ragazza piano piano si tolse le scarpe un po' goffamente. «Con tuo padre eravamo amici, sono stato io stesso a metterti al mondo. Ho aiutato tua madre a farti nascere. È stato emozionate, tu eri davvero piccola, solo che urlavi come una disperata.»

La giovane lo guardò, inclinò la testa guardandolo senza capire. L'uomo negò con la testa per poi ridacchiare. «Lascia stare.» Disse. «Ora vado dagli altri pazienti, cerca di non sforzarti. Se hai bisogno di acqua, è qui vicino al tuo letto, insieme alla frutta.» Poggiò una mano sulla sua spalla e la ragazza annuì un po' guardando ciò che c'era sopra il comodino. L'uomo si alzò e dopo averle fatto l'occhiolino, uscì.

Il suo sguardo si poggiò sul suo grembo, cercando di ricordare quello che era successo due settimane fa. Ricordava poco, aveva dimenticato quasi tutto quello che le era accaduto. Era come se non fosse successo niente. Sapeva solo che aveva perso le persone che amava. Le sue sopracciglia si corrugarono, voltò lo sguardo e guardò fuori dalla finestra. O almeno, ci provava.

Era troppo in basso per farlo. L'unica cosa che poteva fare, era alzarsi. Sapeva che il medico le aveva detto di non sforzarsi, ma qualcosa le diceva di non dare retta alle sue parole. Non aveva nulla da perdere dopotutto, sperava solo di morire, per lei era la cosa buona per tutti, ormai non era più normale, sapeva di essere un vero e proprio scarto per l'umanità.

Non sentì nessuno al di fuori di quella porta, solo silenzio. Una volta alzata, piano piano il suo equilibrio stava mancando. Il suo palmo della mano toccò il muro bianco e con l'aiuto dei piccoli passi, arrivò a guardare fuori dalla finestra. Le sue dita riuscirono ad aprire la finestra scorrevole, la punta del suo naso uscì dalla fessura. Le sue narici inalarono l'aria pulita che circolava. Il freddo era pungente facendo provocare dei brividi sulle sue spalle. Dopo aver chiuso, le sue gambe crollarono semplicemente come un castello di carte. Le sue ginocchia si scontrarono contro il pavimento e senza emettere nessun suono, strisciò per terra.

Non appena la ragazza salì sopra il letto, la porta si aprì ed entrarono due infermiere. Dopo aver salutato la ragazza, iniziarono a visitarla, lei non dava nessun segno, non voleva collaborare. Voleva solo lasciarsi andare.

«Devi aiutarci, lo sai.» Disse l'infermiera mentre guardava la giovane che si mordeva con forza il labbro inferiore. «Avanti!»

Lei negò per la millesima volta. Non voleva nulla a che fare con loro, voleva solo saltare via dalla finestra.

Dopo svariati rimproveri, decise di sottomettersi ai controlli tra cui ecografie. La sua testa era ancora fasciata in una benda circolare, il suo collo le faceva ancora male e i lividi erano ancora ben evidenti. Aveva subito il peggio, non una cosa da niente.

Quasi provava noia nel farsi toccare, sentiva come se il suo corpo sentisse la mancanza di un certo tocco, quello di una persona speciale, la stessa persona che aveva perso. Lei non era stata davvero innamorata di lui, forse era una cosa abitudinale, vederlo ogni giorno e subire le sue coccole, l'aveva portata a questo.

La sua mente pensava ad altro, ovviamente a cose confuse senza un briciolo di senso. Stava sospirando, e dopo che le infermiere la lasciarono stare, se ne andarono via lasciandola da sola. I suoi occhi rimasero fermi nel guardare la porta davanti al letto, sentiva come se la stanza si stesse avvicinando a lei, come se lo spazio si fosse ristretto e l'aria iniziava a mancarle.

Si sentiva come due settimane fa, la stessa cosa. Solo che in quell'attimo le stava crollando tutto addosso.

Cercò di controllare ogni paura, alzò gli occhi al cielo e guardò il soffitto mentre il suo cuore batteva forte. La fascia iniziò a causarle un certo prurito, il che la fastidiva tantissimo. Decise di alzarsela, e di grattare un po' sulla ferita che cercava di chiudersi. Sospirò pesante, stufa di quella maledetta situazione. Aveva fatto un grosso errore. La sua fronte iniziò a perdere delle leggere gocce di sangue. Dannata ferita.

Dopo essersi bendata di nuovo, poggiò la schiena contro il materasso del letto, lasciò che i suoi occhi si chiudessero e che la mente iniziasse a vagare in qualcosa di nuovo.

Sapeva che una volta fatto questo, nessun tipo di problema l'avrebbe fermata. Nessun tipo di ostacolo sarebbe riuscito a farle paura.

Dopo aver chiuso gli occhi, vide il nero più totale, quando poi, una macchia bianca le si piazzò davanti. Questo significava solo una cosa; lei aveva iniziato a sognare.

Il giorno seguente, la ragazza venne svegliata dal cinguettio degli uccellini appoggiati sul cornicione della finestra della sua stanza. I suoi occhi si strizzarono, e dopo averli aperti, maledii gli uccellini e si alzò ancora barcollante.

Decise di prendere delle briciole di pane, aprii la finestra e le appoggiò sul cornicione in modo che gli uccellini potessero mangiare un po'. La ragazza continuò a versare le briciole lungo la stanza in modo che gli animaletti potessero entrare dentro a mangiare. Voleva compagnia, nulla di più, nulla di meno.

Un giramento di testa la mise a sedere sul pavimento, intanto che cercava stabilità, guardava come gli uccellini mangiavano le loro bricciole. Aveva tanto mal di testa voleva solo un po' di riposo, ma come già sapeva. Aveva dormito per tutto il tempo.

Gli uccellini, dopo aver finito il loro pasto prelibato, decisero di svolazzare per la stanza. La piccola si alzò e quasi non inciampò per aprire la finestra un'altra volta. Non voleva che i suoi animaletti facessero i bisogni sul suo letto. Un medico entrò dentro, non appena vide la scena, si mise le mani tra i capelli, urlando come se fosse un indemoniato. La ragazza si rese conto dello sbaglio, alzò le mani in alto e abbassò la testa, con tanto terrore. «Cosa stai facendo?!» Disse disperato e lei lo guardò con occhi spaventati. Gli uccellini volarono via spaventati, la piccola guardò la finestra per poi osservare come l'uomo la stava guardando. «Siediti sul letto, subito.» Ordinò lui e la giovane si mise seduta senza dire nemmeno una parola. «Sai che non devi azzardarti ad aprire la finestra? Non ti deve venire in mente nemmeno per scherzo.»

Lei inclinò la testa in un lato, guardava come il suo medico fosse decisamente fuori di sé. «Quanto sei stupida, Dio santo.» Disse lui mettendosi una mano sulla fronte. «Non devi aprire la finestra! Può essere pericoloso.» Disse cercando di mantenere tutta la calma in corpo. «Spero di essere stato chiaro.»

La ragazza sospirò, annuì cinque volte di seguito in modo che il medico si fidasse di lei. «Okay, credo che possa andare bene,» mormorò. «Tra poco potrai uscire con la dottoressa Spancer. Abbiamo deciso di renderti partecipe ad un uscita in giardino, in modo che ti potessi adattare all'aria libera e al caos che il mondo ti dà.» Spiegò lui. «Spero per te che non commetterai nessun casino, perché se dovessi fare qualche cosa, verrai spedita subito qui in stanza e non uscirai per i prossimi tre giorni.»

La ragazza, spaventata annuì ancora una volta. «Bene, verso le 04:33 P.M., la signorina Spancer verrà da te, mi raccomando, comportati bene.» Disse lui per poi lasciarla da sola un'altra volta.

Non avrebbe dovuto aprire una porta, né una finestra. Nemmeno i cassetti avrebbe potuto aprire? Forse erano pericolosi?

Lei aveva vissuto già qualcosa di pericoloso, lei aveva conosciuto la morte, aveva visto tante cose ma che ricordava poco e nulla. Si mise una mano sulla testa, confusa. Aveva paura di far qualcosa di brutto, di deludere il medico di cui non sapeva il nome. Aveva paura di tante cose, davvero tantissime. Dopo essersi acovacciata in se stessa, versò due lacrime contate. Era triste, ma aveva versato troppe lacrime per il dolore causato quel giorno. Le mancava tanto la sua mamma, sua sorella, suo padre e il suo "ragazzo". I suoi occhi continuavano a riempirsi di lacrime, ma il massimo che usciva erano tre lacrime. Per sbaglio, le sue labbra toccarono la lacrima, sentì salato.

Secondo lei era un buon sapore, leccò ogni lacrima che finiva sul suo braccio. Erano davvero buone per lei. Dopo aver smesso di disperarsi, lei si guardò intorno e vide come la porta piano piano si stava aprendo.

04:33 P.M., era davvero arrivata la signorina Spancer. Era davvero bella, capelli neri a caschetto, labbra fini colorate dal rossetto, pelle chiara come la neve e occhi azzurri come il ghiaccio dell'Alaska. La sua altezza era sulla norma, e non appena vide come la donna guardava con dolcezza la malcapitata, la ragazza pensò che fosse una brava signorina. Si sarebbe dovuta comportare bene, senz'altro.

«Ciao, io sono Alicia Spancer.» Sorrise lei e la ragazza annuì una volta. «Qual è il tuo nome?» I suoi occhi analizzarono come la ragazza si trovava in pieno panico. «Okay, non vuoi dirmelo.» Appunto la piccola negò.

«Bene, io ho trent'anni e sono laureata in psicologia.» Disse ma per la ragazza sembrò tutto così difficile. «Purtroppo non ho avuto il momento di sapere il tuo nome, non mi interessa più di tanto, sinceramente.» Sorrise. «Sono arrivata qui in fretta e furia, ho ignorato ogni voce che diceva qualcosa sul tuo conto, ragazza.» Poggiò una mano sulla sua spalla ma la piccola gliela tolse. «Okay, non ti tocco, ti fa male?»

Lei annuì. «Bene...» sussurrò e si grattò il capo. «Allora, ti va di uscire?» Dopo che la paziente annuì, la donna batté le mani felice. «Perfetto! Forza, alzati.»

La piccola si alzò dal letto e tremolante si mise le pantofole grigie. «Ci sai camminare?»

Lei negò. «Perché?»

La ragazza fece spallucce. Dopo aver camminato verso di lei, le accennò un sorriso. «Non ti metti nulla? Fuori fa freddo...» la paziente negò ancora una volta, stufa di tutte quelle domande.

🐦🐦🐦

Le due stavano camminando lungo la stradina del parco, la ragazza si reggeva con forza la camicia da notte azzurra e la psicologa le camminava vicino. «Perché non parli?»

Lei alzò le spalle, non le importava niente, non voleva dire niente a quella donna, voleva solo prenderla a botte. «Va bene... È emozionate uscire, vero?» Chiese lei mentre guardava il viso neutro della ragazza. Molta gente passava per il marciapiede, e lo sguardo della piccola si posò proprio sul viavai delle persone. I suoi occhi incontrarono una folta chioma nera di capelli, una ragazza vestita totalmente di nero, con degli anfibi che le arrivavano fino a metà stinco. La sua felpa era nera e la sua pelle era più candida di quella della psicologa.

La ragazza girò lo sguardo e noto come la ragazzina la stava guardando. Non servirono parole, l'unica cosa che c'era bisogno in quella situazione era un sorriso.

La ragazza le aveva sorriso.
Era riuscita a farla sentire importante.
Era riuscita a farla sentire meno demente. Era riuscita a farle sentire tante cose in quella testa.

Forse riuscì ad associate la ragazza alla sua cura più grande.

Si era sentita felice, finalmente dopo questo inferno.

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