La melodia del rumore
Non è altro che rumore. Accozzaglia di chiassosi e discordi suoni, stridono, senza alcun ritmo. La sveglia suona, titi titi titi, fastidiosa. Suono che fa aprire gli occhi ad Agnese (il raggio di luce che filtra attraverso le tende contribuisce). Si alza, il cellulare squilla e vibra. Drrrrr. Noia. Lo afferra e guarda lo schermo (luce, occhi non abituati, si chiudono di scatto, li apre più lentamente: se ne dimentica ogni volta). Due messaggi da Caterina, sette notifiche di Facebook e qualche tweet. Lo spegne. Suono di clacson, traffico, urla di un uomo (sta mandando a quel paese qualcuno). Va in bagno, apre il rubinetto, l'acqua scorre. E c'è rumore.
Arriva a scuola appena in tempo. Campanella della prima ora, drrriiiiin, i professori parlano, spiegano, gessetto sulla lavagna che stride (come se l'avessero graffiata), bisbiglii. Una delle palline di carta che lanciano in classe colpisce Agnese. Caterina, seduta accanto a lei, continua noncurante a blaterare. Dal cortile si sente il fischietto del professore. Palloni che cadono a terra, una ragazza strilla"mia!". Ricreazione. Vociare degli studenti che ridono, parlano, chiacchierano, litigano. Una coppietta si bacia, una moneta cade a terra. E c'è rumore.
Sull'autobus i pendolari fanno chiasso. Respiro rumoroso, musica ad un volume troppo alto che proviene dalle cuffiette di uno, starnuto, il ding della fermata prenotata. Suoni di traffico, una macchina sfreccia lì accanto. Lei scende, rumore di passi, un piccione sta beccando a terra poco distante, traffico, clacson, insegna luminosa lampeggia, rosso del semaforo, frullio d'ali. E c'è rumore.
Agnese cerca il mazzo di chiavi nella tasca esterna del suo zaino, le trova, le prende, sceglie quella giusta, la infila nella serratura, scatto, apre, entra, chiude. Rumore, rumore, rumore... Si prepara il pranzo, mangia, tintinnio di stoviglie, scroscio di acqua, rubinetto che si chiude. In camera, sta per buttarsi sul letto a giocare al cellulare quando la copertina di un libro la colpisce. Lo prende, lo apre, legge la prima parola che trova.
Improvvisamente, si fece silenzio.
La rilesse a mente. Immaginò la sua voce pronunciare quella parola. La disse ad alta voce. Ancora. E ancora, ancora, ancora, fino a quando non perse il suo significato e divenne solo un suono indistinto, musicale, sillabe che si mischiavano, miscelavano, ma senza sovrapporsi cacofonicamente.
Girò la pagina e sentì distintamente il fruscio della carta. Fruscio. Che bella parola. Fruscio. La ripeté a voce alta, evidenziando la f, calcando sulla r, allungando le vocali e dilungandosi su quel suono che produceva l'ultima sillaba. Le vennero in mente le foglie che ad autunno si lasciano cadere dal ramo per un sbuffo d'aria, discendono fremendo per i soffi di vento fresco, si posano al suolo e frusciano l'una sull'altra...
Le parve di riconoscere lo scroscio di una cascata e quello dell'acqua che scivolando, scende e scorre, sciolta da ogni presa. Improvvisamente si ricordò il piccolo ruscello nel bosco vicino alla sua casa in campagna. Andava a giocare lì ogni estate, quando era piccola. Come poteva essersene dimenticata? Le piaceva immergere la mano nell'acqua fresca, per combattere quel caldo afoso, bagnarsi e schizzarsi con le sue amiche. Le risate da bambine che risuonavano fra gli alberi accompagnate dal cinguettio di uccellini, al ritmo del battito delle loro ali: ah ah ah e poi un respiro per prendere aria, frullio d'ali, le foglie frusciavano e uno stormo di uccelli si levava in volo e loro ridevano e ridevano e ridevano, e le risate e le risa volavano anch'esse.
Si ricordava degli alberi che allora le sembravano enormi, così alti da scontrarsi con il cielo, e ricordava di aver pensato, una volta, che se avesse potuto arrampicarsi fino in cima avrebbe potuto toccare le nuvole, staccarne un pezzetto e riportarlo a terra. Avrebbe potuto immergere la mano nell'azzurro e oscurare per un attimo il Sole. Avrebbe aspettato che calasse la notte per dimostrare ai suoi genitori che le stelle non erano cose luminose di gas ed elio a migliaia di anni luce di distanza. Erano là, vicine, sarebbe bastata una scala un po' più alta per provarlo.
Si ricordò delle sue estati e di quando andava al mare. Sentiva la sabbia sotto i piedi, scottava, e i granelli arrivavano ovunque. Prendeva un poco di sabbia asciutta nella mano, poi l'apriva e restava ferma, le dita distese e sul palmo quella manciata così simile alla polvere che il vento portava via. Lo stormo di granelli volava trasportato dall'aria, rimaneva sospeso per le correnti e si depositava poco a poco a terra. Agnese poi andava a controllare e,con frustrazione, non riconosceva quei granelli che aveva affidato al vento traditore. A riva, la sabbia era bagnata e poteva usarla per fare qualunque cosa. O almeno così diceva suo padre, ma, santo cielo, ci aveva provato, davvero, ma se poi una persona costruisce un castello troppo piccolo per abitarci che senso ha?
Le onde, sul bagnasciuga, andavano e venivano, avanzavano e si ritiravano, si stendevano e si arrotolavano su loro stesse, continuamente, senza incontrare ostacoli di ogni sorta.
Piano piano, i ricordi affioravano, prima evanescenti e indistinti come veli trasparenti, poi sempre più nitidi, i contorni non si facevano più sfocati. Riusciva di nuovo a sentire l'odore del mare, la sensazione del sale sulla pelle, il suono del mare racchiuso nella conchiglia.
Agnese chiuse gli occhi e inspirò dal naso, sentendo solo in quel momento la fragranza che odorava gli ambienti della casa. Riaprì gli occhi: era di rose, con quella piccola puntina che faceva riconoscere facilmente l'artificiosità del profumo. Odorò i suoi vestiti che indossava e puzzavano di fumo di sigaretta. Si diresse in cucina,seguendo l'odore di un dolce che sua madre aveva cucinato quella mattina. Era tremendamente forte, la dolcezza del profumo, quasi stucchevole, e veniva captata dal suo olfatto, mentre l'acquolina veniva alla bocca. Non se n'era accorta, quando si era svegliata?Eppure era così forte, ne sentiva quasi il sapore! Non resistendo, si tagliò una piccola fetta di torta e l'assaggiò. Morse con gli incisivi e ne staccò un piccolo boccone. La sentiva quasi sciogliersi nella bocca, mentre il sapore le invadeva la lingua, il palato e la gola. Sapeva di mille sapori diversi, perché poco a poco ricordava dolci che aveva mangiato tempo prima. Piatti che la saziavano e basta, li divorava senza soffermarsi sul gusto di ognuno di loro. Erano semplicemente cibo? Solo? Non erano sapori, spezie,odori e gusti che andavano miscelandosi?
Posò quel pezzo di torta avanzato su un tovagliolo e volle provare ad ascoltare. Ritornò nella sua stanza, aprì la finestra e chiuse gli occhi ancora una volta, espirando profondamente. Prima sentì solo rumore. Tentò di respirare piano piano, per non coprire gli altri suoni. Poco a poco, riusciva a distinguere i rumori, i rintocchi, i battiti, le note. Scoprì la melodia e riconobbe la musica. Assaporò i suoni indistinti e definiti, prolungati e brevi. Riusciva ad eliminare nella sua mente quelli fastidiosi, lasciando solo quelli che alle sue orecchie parevano più delicati e meravigliosi. Si sorprese nel riconoscere il cinguettio di un uccello. Ascoltò i borbottii, le risate, i sussurri, gli schiamazzi, le voci dei passanti. Si perse nell'udire il suono impalpabile del battito ritmato del cuore. Il sangue pompato nelle vene: tu tum, tu tum, tu tum.
Si risvegliarono lentamente, senza fretta, avvolgendola senza soffocarla, assalendola senza spaventarla: lei si perse, nell'infinita ed eterna esplosione dei sensi.
La sera, quando tornò dal lavoro, Francesca trovò sua figlia nella sua stanza, la finestra era spalancata e il freddo entrava nella camera, ma Agnese non sembrava curarsene. Aveva i gomiti appoggiati sul davanzale e il mento sulle mani intrecciate. Osservava fuori, un sorriso che increspava le labbra e le illuminava gli occhi.
-Chiudi la finestra, tesoro, prenderai freddo- disse preoccupata Francesca, rivolgendosi alla figlia. La ragazza scrollò le spalle e scosse la testa.
-Ti è successo qualcosa di bello oggi? Sembri così spensierata- commentò la madre, mentre si avvicinava. Cercò di seguire lo sguardo di Agnese per trovare cosa l'interessasse così tanto, tuttavia sembrava che i suoi occhi non osservassero niente di particolare, anzi, tentassero di abbracciare ogni cosa. Agnese annuì e il suo sorriso si allargò.
Nota
Questa storia -più un flusso ininterrotto di pensieri in realtà, è nata quasi per caso, da un'idea che mi frullava nella testa da un po' di tempo. All'inizio del 2015 avevo iniziato a leggere "Oceano mare" di Baricco, libro mai finito, ma che aveva quello stile a metà fra la poesia e la prosa che allo stesso tempo mi intrigava e mi annoiava. Quindi dopo poco ho scritto questo racconto che parla di un risveglio attraverso i sensi, prima l'udito, poi il tatto, la vista, l'odorato e infine il gusto. Ma soprattutto è l'udito a far da padrone. A volte, siamo così immersi nel rumore e nel caos che non riusciamo a ritagliarci un momento di silenzio per noi. Ma ora basta, questa nota sta diventando troppo stucchevole per i miei gusti.
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