L'occhio Del Mondo
Avviso i giudici che uso la punteggiatura anche per dare l'intonazione che voglio. Quindi - mi rivolgo a coloro che hanno un problema a vedere una virgola dietro una "e", - fateci l'abitudine. Potete segnarmele, così come potete non farlo. Fatto sta che continuerò a usarle così.
La traccia della prima prova potete trovarla su "Reclutamento Fantasy" sul profilo di Frey-B. Mi spiace, ma non me la copia né il cellulare né il computer.
Uno spasimo e sono a terra. Frappongo le mani tra me e la scottante sabbia. Cosa sta succedendo? Sento il cuore in procinto di esplodermi. Il mio cervello sta soffrendo, sto perdendo le forze. Sono così debole che non riesco nemmeno a spostarmi. Tossisco. Sputo del sangue che sporca la spiaggia biancastra. Poi passa tutto. Mi stendo e riprendo fiato.
Prima l'aereo e ora questo. Eppure sono sicuro, poco fa ero in gran forma. Mentre facevo quella corsa disperata, sembravo aver recuperato i miei diciannove anni. Le gambe si alternavano veloci, i muscoli si tendevano dando la maggior spinta possibile. I polmoni non mi facevano mai mancare il respiro. Il sangue circolava potente nel mio organismo. E ciononostante ho appena vissuto una crisi fisica. Un attacco di tosse. Rosso che ha imbrattato le tonalità più chiare.
Mi alzo a fatica. Mi dirigo verso la palma più vicina e appoggio la schiena sul suo fusto. Chiudo gli occhi. Devi calmarti, Kenneth. Sei solo su un'isola piccolissima e sperduta, hai appena visto un aereo schiantarsi e poi sparire lasciando un sacco di juta e ti stai sentendo male. Ok, forse non sono nelle condizioni più adatte a calmarmi. Forse nel sacco c'è qualcosa che può fare al caso mio. Guardo nella zona in cui dovrebbe essere atterrato. Non lo vedo. Scandaglio tutta la spiaggia, ma non lo vedo. Non ce n'è traccia. Dov'è finito? Inspiro ed espiro profondamente e mi tiro su. Le ginocchia mi traballano, però reggono e riesco a stare in piedi.
In un secondo ho di nuovo tutta la mia energia. Percepisco il mio corpo che si rinvigorisce. Anche i miei sensi sembrano essere migliori di prima. L'udito mi porta fino all'altra estremità dell'isola. Il garrito dei gabbiani mi pervade, la risacca si frange contro le mie ansie distruggendole. Spalanco le braccia e le levo al cielo. Azzurro. Tanto azzurro. Le nuvole si trascinano placide nella loro quiete. Traggo l'ennesimo respiro. Ora sono calmo.
Bene, devo fare qualcosa. Non posso aspettare che mi vengano a salvare. Ho una vita da proseguire, io. Devo andarmene da questa prigione di palme e sabbia. Ci saranno abbastanza alberi da costruire una zattera? Mi inoltro nel palmeto per controllare. Non faccio in tempo a compiere due passi che sento qualcosa trafiggermi, come se qualcuno mi avesse colpito alle spalle con un coltello. Rovino sulle ginocchia. Poi mi rialzo. C'è qualcosa di diverso. Avverto un cambiamento in atto. E così è: l'isola è molto più grande di prima, lo posso constatare nonostante mi trovi nel bel mezzo del palmeto. Dall'intrico di grandi foglie pennate pare spuntare la figura di qualche cima. Forse...
Girovago finché non individuo un'altura. La parete rocciosa è liscia e ha pochi appigli. Non mi fa paura. Ho trascorso anni a scalare montagne, questa supererà appena i seicento metri. Spero soltanto che non mi prenda un altro attacco mentre mi arrampico. Inizio la scalata e capisco subito che non sarà facile. Non sono un tipo che si arrende come se nulla fosse, però. Passa non so quanto tempo prima che riesca a vedere la sommità. Il vento soffia insistente contro il mio capo, mi scompiglia i capelli. Maledetto me, avrei dovuto tagliarli prima di partire con la dottoressa Richards. O meglio, avrei dovuto resistere a quegli occhioni blu oltremare e a quelle curve prorompenti. Se ci fossi riuscito, ora sarei ancora in una delle mie proprietà. Adesso mi servirebbe proprio un bel mojito e uno sdraio davanti alla piscina della mia villa poco fuori Sydney. Altro che questa faticaccia. Trattengo il fiato e irrigidisco i muscoli mentre con un braccio mi asciugo il sudore che mi inumidisce la maglietta della Nike. Ma guarda un po' che devo fare.
Mi aggrappo a una sporgenza, l'ultima che vedo, e faccio leva fino a raggiungere lo spiazzo in declivio che c'è in alto. Mi stendo. La rada erbetta che è sparsa qua e là mi solletica la schiena. Non mi devo distrarre, devo rimanere concentrato su ciò che avevo in mente. Da qua avrò una visuale perfetta. Forse potrò avvistare anche qualche altro isolotto lontano. O una nave. O un aereo. Possibilmente uno di quelli che non scompaiono dopo esserti passati sotto il naso.
Mi alzo. Wow. Il luogo in cui mi trovo è molto più vasto di quanto mi ricordavo. Dietro di me la costa è così vicina che, tuffandomi da qua sopra, potrei sperare di entrare in acqua e sopravvivere. È davanti a me, però, che c'è la meraviglia. L'isola si allunga a perdita d'occhio. Una barriera di picchi impervi ricoperti di vegetazione si staglia contro la palla infuocata che arde nel cielo. Sono così alti che potrebbero fendere le nuvole. E ne sono certo: prima tutte queste cose non c'erano. Così come so che non c'era il fiume che ora vedo fluire sulla destra. Anche il genere di alberi è cambiato: la sovrabbondanza di palme è stata sostituita da una flora che assomiglia a quella di una zona pluviale, uno di quei posti nei pressi dell'equatore.
Mi giro, e rimango stupito ancora. Ma dove cazzo sono finito? Allo strapiombo sul mare è subentrato un ripido pendio che collega l'altura e la costa. E non è tutto. Su di esso, delle statue lignee raffiguranti cavalli sulle zampe posteriori fanno da contorno a una sorta di sentiero che va sino alla spiaggia. Dovrei stare ancora lì, il mio compito non è terminato. Eppure qualcosa mi dice di seguire quel percorso e di non pensare alle conseguenze.
Ed è quello che faccio. E per l'ennesima volta vengo deriso dal destino. Non appena imbocco il sentiero, ogni cosa svanisce e rimane solo la sabbia. L'isola si è trasformata in una macchia di litorale immersa in uno sconfinato oceano. Ora ho le vertigini. Le percepisco, mi stanno facendo vacillare le gambe. Cado a terra. I granelli arroventati paiono sparire sotto di me, mentre il mio cervello viaggia veloce, oltre quest'assurdità di posto.
Ecco, devo solo convincermi di non essere qui. Di essere da un'altra parte. Sono a Melbourne, sì, la mia amata Melbourne. Non ho alcuna preoccupazione. Sono nel letto, sotto le lenzuola, e accanto a me, nuda, c'è la mia bellissima Chelsea.
Chiudo gli occhi. Il buio mi conforta, riesce quasi a far diventare i miei pensieri reali. Sono così distante dall'incubo che ha riempito le mie ore poco fa.
Eccola, la sto guardando. La sua pelle è un dono divino. La accarezzo. Sento i rumori cittadini - il vocio, il rombo dei motori, la musica che si diffonde per le strade che costeggiano la riva, - e sorrido. Lei è qui. Più che concreta che mai, nella mia mente. È qui in tutta la sua magnificenza. Chissà che ci trova in me una donna simile. Oltre a essere straordinariamente bella, è intelligente, dolce e sensibile. Forse solo un po' ingenua. Io la tradisco, la tratto male e getto nel fango la sua reputazione con i miei amici. Sono pochi i gesti d'affetto che le rivolgo, poco il tempo che le dedico, certamente non abbastanza per una persona come lei.
Riapro gli occhi, e mi ritrovo proprio lì. Sono a Melbourne, in quel magnifico appartamento che ho comprato solo per stare con Chelsea qualche giorno a settimana. Anche lei è veramente con me. Ha il collo sul mio braccio e lo tiene in modo che io riesca a sopportarne il peso. Con una mano mi lambisce il volto, mentre con l'altra si dirige dalla parte opposta, sotto le lenzuola.
«Ho ancora voglia» mi sussurra, un sorriso malizioso che le adorna il viso. «È pronto il tuo amico per un altro round?»
La bacio e lei fa altrettanto. Ci stacchiamo. «Chissà, vuoi chiederglielo tu direttamente?»
Lei sorride ancora. Dalla tenda leggermente spostata filtra un raggio di sole che le centra le iridi grigie. Le pupille le si restringono e le venature più scure e più chiare dei suoi occhi risaltano, facendomi ricordare quanto stupenda possa essere. È come se la stessi guardando per la prima volta.
«Sei incredibile» le mormoro.
Lei incarca un sopracciglio. «E tutta questa dolcezza da dove salta fuori? Nessun: "Donna, fai quello che devi fare e taci"?»
«Chelsea, non credi che sarebbe meglio approfittarsene e basta?»
Ridacchia. «Sì, hai ragione.»
Si mette a cavalcioni su di me. Serra le palpebre e avvicina la sua bocca alla mia. Percepisco la fiamma dell'amore che mi infonde la sicurezza di cui ho avuto tanta nostalgia precedentemente. Allora la imito. Le nostre labbra si incontrano nell'oscurità e il loro gusto mi inebria quasi lasciandomi ubriaco. Poi, però, sento quel sapore affievolirsi, così come fa il morbido tocco del suo bacio. No, non ancora. Non adesso. Ma le mie preghiere paiono vane. La sensazione del corpo di lei che preme sul mio, e dell'eccitazione che cresce rapidamente, scompare e viene sostituita da quella di una superficie dura e graffiante che sobbalza.
Riesco ad aprire gli occhi. Attorno a me ci sono delle sbarre di legno che delineano una specie di gabbia fatta su misura per un uomo. Ai miei lati, l'arido paesaggio sfila trafitto dalla potenza del sole. E ora dove sono? L'ambiente assomiglia alle aree desertiche dell'Australia. Davanti a me ci sono tre uomini con i capelli rasati lateralmente e a punta nella parte centrale, che calvacano altrettanti bizzarri animali rassomiglianti alla fusione mal riuscita fra un cavallo e uno struzzo. Gli uomini sono vestiti solo con degli stracciati pantaloncini marroni, come se fossero andati a comprare qualcosa per giocare a calcio e avessero rotto quel qualcosa camminando attraverso qualche maledettessimo groviglio di rovi. Tutti e tre sono a torso nudo e sfoggiano muscolature notevoli, sebbene non debbano essere troppo alti. Sono loro che mi trasportano.
«Ehi!» esclamo. «Dove sono? Cosa state facendo?»
Quello a sinistra torce il busto continuando a tenere le mani sul lungo collo del proprio animale. «He aha?»
Bene, non parla neanche la mia lingua. Probabilmente lui e i suoi amici, la civilizzazione, non l'hanno vista neanche con il cannocchiale. Voglio tentare lo stesso.
«Mi chiamo Kenneth Boyle! Sono ricco sfondato, credo che potreste racimolare un bel gruzzolo chiedendo un riscatto alla mia famiglia. Basta che mi riportate a casa, insomma.»
«Ko wai to ingoa?» mi risponde lui.
«Eh? Che cazzo vuoi?»
«Ko... Wai... To... Ingoa?» ripete.
«Sì, ho capito, ma...»
Quello al centro intima qualcosa al suo amico e in seguito mi urla qualcos'altro. Mi appiattisco contro due sbarre, sperando di volatilizzarmi il prima possibile. Oh, una volta che deve accadere, non accade. Che vita di merda.
Il viaggio trascorre soporifero. Non ho più chiesto niente per tutto il tempo e ora odo la gola che mi strilla di parlare. In effetti, l'unica modulazione che mi sono lasciato sfuggire è stata quando sono rimbalzato contro il legno della gabbia, mentre stavamo superando una sorta di rigagnolo che sancisce il termine del deserto e il principio di un posto con un po' più di verde. Apro la bocca, ma le parole muoiono sul nascere, quando noto l'uomo centrale che si infuria con quello alla sua destra. Attenderò un altro momento.
Raggiungiamo una collina che, dopo qualche metro di altopiano, sale ancora assumendo le fattezze di una montagna. D'un tratto, esattamente prima di imboccare una via a sinistra e di incominciare a scendere, lo stesso che ha urlato dice: «Whakarongo mai. E tu. Tama tu, tama ora; tama noho, tama mate kai.»
Sembra essere rivolto a me. «Come credi» gli rispondo, facendo spallucce.
Quello che mi aveva parlato inizialmente, invece, si gira e con una mano mi fa segno di alzarmi. Che mi stia suggerendo qualcosa? Mi sta simpatico, meglio ascoltarlo. Mi metto in piedi. Lo spazio a disposizione è poco. Forse per una persona alta sugli uno e ottanta o poco meno sarebbe l'ideale, ma io sono più di uno e novanta e quindi devo piegarmi un po' in avanti. Perché vogliono che mi alzi? Sto per sedermi di nuovo, però vengo fermato da quello che vedo.
Sotto di me c'è una valle, un gioiello incastonato tra due monti e occupato dalle luccicanti abitazioni di quello che presumibilmente è il popolo di coloro che mi hanno catturato. Alcuni edifici si inerpicano sul versante opposto a quello in cui siamo e ci sono delle strutture più elevate - forse torri - che svettano sulle altre. Un fiume si fa strada all'interno dell'abitato, in esso distinguo nettamente la sagoma di qualcuno.
«Whare» dice uno dei tre con una nota di sollievo nella voce.
Scendiamo il crinale e arriviamo a un'alta palizzata presidiata da una decina di persone munite di lancia. Uno dei tre che mi stanno accompagnando smonta dalla sua cavalcatura e va a parlare con una di quelle... guardie. Tutti mi guardano fissi, con occhi quasi speranzosi. Improvvisamente il tizio ritorna sull'animale e ripartiamo. Attraversiamo il villaggio. Nel frattempo, accanto alle bestie d'allevamento, o dentro le case che rifrangono la luce pomeridiana, o ancora fermi sotto il sole cocente, gli abitanti mi osservano come se stessero indagando la mia anima. E se è quello che stanno facendo, non ci troveranno nulla di buono.
Ci arrestiamo davanti a una costruzione rotondeggiante sormontata da una cupola dipinta con striscie concentriche di colore. Aprono la gabbia solo quando una selva di armi mi è puntata contro. Una folla si posiziona dietro il trabiccolo che mi ha trasportato e scruta le mie azioni. Sento centinaia di sguardi su di me, non appena scendo. Poggio un piede, e già ho una lancia che mi sfiora la schiena.
«Sì, va bene. Non c'è bisogno di essere così incivili.»
Mi lascio condurre dentro il grande edificio con cupola. Giunti a un'ampia sala sul cui pavimento è ritratto un simbolo che somiglia a un sole solcato da tre graffi, odo una voce che si propaga nell'aria e sentenzia solenne: «Sei qui per la nostra salvezza, Kenneth Boyle.»
Il tono risoluto, quasi perentorio, mi turba per un attimo. «La vostra salvezza?»
C'è qualche mormorio prima della risposta. «Proprio così. Sei stato scelto da...» Fa una pausa, poi sussurra: «Taaroa.»
«Taa-chi?»
«Non nominarlo invano e a voce così alta! Che tu possa essere perdonato!»
«Lo spero anch'io» dico. «Non vorrei altri problemi.»
Appena finita la frase, un uomo corpulento e dalla carnagione più scura di quella dei suoi compaesani entra da una porta sulla destra che non avevo notato. L'appariscente tatuaggio che gli ingombra la faccia paffuta fa ridere. Riesco a trattenermi a stento. Un volatile fa il suo ingresso planando e atterrando sulla spalla dell'uomo. Ha il piumaggio di un colore fra il viola e il blu, su cui spiccano gli occhietti gialli e il lunghissimo becco bianco.
«Comunque sembra che tu conosca la mia lingua» faccio.
«Non lui» dice qualcuno.
Chi ha parlato? L'individuo non ha mosso le labbra, ne sono certo. Giro su me stesso. Tutti gli altri ci hanno lasciati soli. Quindi...
«Sì, sono io a parlare» dice il pennuto. «La gente di questo villaggio mi chiama Kaumatua, ma tu puoi chiamarmi con il nome che mi ha affibbiato l'ultimo inglese che ho incontrato. Per te sono Wilbur.»
Probabilmente ho la bocca spalancata, o gli occhi sgranati, o la fronte corrugata, o tutte e tre insieme, perché il tizio dal grande tatuaggio sta per scoppiare a ridere.
«Tu... tu...»
«Come faccio a parlare?» mi anticipa Wilbur, grattandosi col becco. «Non lo so. Lo faccio da quando ne ho memoria. E ricordo tante cose, Kenneth Boyle. E so anche tante cose. Per esempio, so che in questo momento vorresti ricevere una spiegazione riguardo quello che sta avvenendo.»
«Be'» rispondo, «per sapere questo non bisogna avere abilità da cartomante o roba simile.»
Wilbur pare ignorarmi. «Questo luogo ha un solo nome da millenni: l'Occhio del Mondo; ed è da qui che proviene la razza umana. Dalla Grotta della Vita. Il dio Maori dell'universo, un giorno, decise di separare il normale dal divino, così creò il velo di mutamenti che hai oltrepassato anche tu prima di giungere fin qua. Tu sei stato invocato dal dio supremo, Kenneth Boyle. Sei qui per risparmiare a noi Maori una fine indegna.»
«Ehi, ehi. E come dovrei fare?»
«Devi entrare nella Grotta della Vita e rimettere al proprio posto la Bilancia di Cristallo.»
«E non può farlo uno di voi? Cioè, non mi sembra così difficile...»
«Non lo è infatti, Kenneth Boyle. Ma c'è un confine tracciato dagli dei secoli addietro, un confine che solo chi riceve la Grazia può varcare. Tu hai la Grazia. Tu sei stato scelto per impedire la catastrofe.»
Scrollo il capo. «La faccenda mi puzza. Non è che mi stai nascondendo qualcosa?»
«Io...»
Una botta. Percepisco il sangue infradiciarmi la nuca. La vista mi si offusca, prevalgono le tenebre.
*****
Ancora tenebre. Eppure ora sono indubbiamente sveglio. C'è un rumore martellante non molto distante da me. Tasto ciò che mi circonda. Mi appoggio su una superficie dura e mi tiro su. Un fioco chiarore sbuca in lontananza.
«Procedi, Kenneth Boyle» riecheggia la voce di Wilbur. «Aiutaci.»
Mi fa male la testa. Ho un'emicrania tale che i miei nervi paiono separarsi dalla mia fronte come cavi elettrici che penzolano da un palazzo bombardato.
«Potevate convincermi, invece di obbligarmi!» urlo.
«Lo so, lo so. Ma non ne avevamo il tempo, e non lo abbiamo neanche ora.»
Sospiro. «Devo andare verso la luce?»
«Sì! Verso la luce! Vai verso la luce!»
Faccio un passo in avanti, ma mi arresto subito. Lingue di fuoco si innalzano davanti a me. Canti mistici intonati da spiriti femminili si effondono per quella che penso sia la Grotta della Vita. Mi trapassano le ossa con il loro timbro bellissimo ma terrificante. C'è una nota che risuona in sottofondo, sorda, inesorabile come la morte. Mi sento oppresso. Le forze mi abbandonano e mi fiondo alla mia destra sperando di incontrare qualcosa con cui sorreggermi. Raggiungo uno spuntone roccioso e lo afferro. La melodia salmodiante è inframezzata da improvvisi colpi di organo accompagnati da demoni che gorgheggiano rochi.
«Cos'è questa musica?» grido.
«È la musica del destino» risponde Wilbur. La sua voce per un attimo sovrasta la sinfonia angosciante che impregna l'aria chiusa. «Ti sta mettendo alla prova. Sconfiggila!»
Indietreggio di un po'. «Ma io...»
«Kenneth Boyle, tua madre ti ha dato questo nome per trasmetterti il coraggio di tuo padre. Lui, che era stato forgiato nel fuoco della sofferenza, aborrirebbe ciò che ti accingi a fare!»
Mi volto di scatto. «Come fai a sapere di mio padre, pennuto?»
«Come ti ho già detto, io so molte cose. Ora fai vedere ai tuoi avi che sei un loro degno successore!»
Per quanto stupida possa essere la cosa che ha appena pronunciato Wilbur, quel maledetto ha ragione. Non devo rinnegare le mie origini. Se scappassi ora, lo spettro di mio padre infesterebbe la mia esistenza. Vedrei i suoi occhi, specchiandomi, e percepirei un veleno, lento come la più dolorosa e invasiva delle malattie, intento a consumarmi dall'interno. Sto sentendo caldo. Forse è il terrore, forse è per via di quelle ventate torride che giungono da dove dovrei andare. E comunque, il popolo che mi ha portato fin qua non accetterebbe mai una mia ritirata. Se sono veramente spacciati, potrebbero anche arrivare a far follie per costringermi a salvarli. Basta, ho preso una decisione.
Respiro. Cerco di scacciare ogni suono. Un silenzio funereo appesantisce l'aria quasi quanto facevano i canti precedenti. E ciononostante avanzo. Avanzo verso quel che mi aspetta.
C'è una specie di passaggio circolare dai muri che irradiano un tenue giallo. Ecco, sposta avanti i piedi e avrai fatto la parte difficile. Socchiudo le palpebre e cammino. Non so per quanto tempo seguiti a farlo, ma d'un tratto urto qualcosa e inciampo. Apro gli occhi e mi rialzo. Sono in mezzo all'universo. Lo spazio aperto mi circonda e sento il fiato mancarmi. Cosa...
«Salve, umano. Sono l'Oracolo» dice una voce suadente, apparentemente senza genere.
Mi giro dovunque. Non c'è nessun altro. Improvvisamente appaiono due piedistalli di vetro. Più in basso, galleggianti in un mare di materia oscura, ci sono due oggetti: un grande uovo bianco sporco e una foglia di felce. Nessuna bilancia. Quel Wilbur mentiva.
«Ora ascoltami attentamente. Dovrai scegliere» prosegue l'Oracolo.
«Scegliere?»
«Sì, umano. Metti sul piedistallo ciò che credi meglio.»
Annuisco. Raccolgo l'uovo e mi affretto a fare come mi ha detto l'Oracolo.
«Aspetta!» tuona questi, interrompendomi. «Ti devo avvisare di una cosa. Se sceglierai l'uovo, salverai la popolazione dell'Occhio del Mondo ma rimarrai per sempre confinato nella terra coperta dalla chioma dell'Albero del Pianto, un luogo lontano ed etereo, dissociato da qualsiasi altra realtà. Se sceglierai la foglia, invece, potrai tornare a casa tua ma condannerai a morte coloro che stanno riponendo le proprie speranze nel tuo giudizio. Ora mi affido a te, umano.»
Deglutisco. E adesso? Se ho capito bene, mettendo a posto l'uovo non vedrei mai più la Terra, così come non parlerei più ai miei cari. Chelsea diverrebbe un languido ricordo nella mente di un vecchio danneggiato dalla solitudine. Prima se ne andrebbe il suo tono. Poi il suo profumo. Infine il suo viso. So come funzionano queste cose. Ma... in caso contrario, negherei ogni possibilità di sopravvivenza a un'intera nazione.
Basta. Non sono un giocattolo.
Getto l'uovo, prendo la foglia e dico: «Ho scelto, Oracolo.»
La adagio sul piedistallo a destra. Che quei... Maori vadano a farsi fottere! Io devo vivere, io voglio vivere. Che il loro stupido Occhio del Mondo si sgretoli sotto i loro sguardi spaventati. Non sono un eroe, non lo sono mai stato, non l'ho mai voluto essere.
«Sbagliato, umano!» sbraita l'Oracolo. «Hai deciso la tua pena. Se avessi preso l'uovo, ti avrei mandato a casa come premio per la tua nobiltà d'animo. Ma tu non hai un animo. Tu sei un mostro, e ora sconterai la tua condanna minacciato dalle lacrime dell'Albero del Pianto. Il popolo dell'Occhio del Mondo pagherà per i tuoi misfatti.»
«Ehi, calmati. Cosa?»
Non riesco a dire nient'altro, che mi ritrovo di nuovo sull'isola da cui tutto è partito. Espiro e mi detergo la fronte, che capisco essere imperlata di sudore. Per un attimo credo di aver vissuto un sogno. Ma solo per un attimo. Vedo un'altissima onda dirigersi verso l'isolotto, che ora deve essere non più grande di una decina di metri. L'acqua è tinta di rosso. Una presenza spiritica mi bisbiglia che è il sangue della gente che ho ucciso. Adesso comprendo cosa ho fatto. Che abominevole atto di codardia ho commesso? L'onda si avvicina, si appresta a sommergermi assieme a tutto ciò che porto appresso. Sta per strapparmi la mia famiglia, la mia Chelsea. Non l'ho amata abbastanza. Non è giusto, non può finire così. O forse no. Forse è proprio giusto.
L'acqua si abbatte su di me. La sento scorrermi all'interno, purificarmi dalla malvagità che possiedo. Mi brucia gli occhi. Mi lava il cuore avvelenato.
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