9. Indovina chi
Entrammo in ascensore e passammo il primo piano. Al secondo scendemmo.
"Inizi da qui stasera," fu la rapida spiegazione che mi bisbigliò Daisy, sistemandomi il colletto della camicia nera che era stato piegato male. Era una ragazza tuttofare, una delle poche con cui mi sarebbe piaciuto passare il resto della serata. Pur in tutta la sua fretta di arrivare in tempo e di rifilarmi una serie di informazioni per lei indispensabili a un ritmo da record, riusciva a trasmettermi tranquillità. Stavo per chiederle se aveva impegni finito il turno, ma mi precedette: "Osserva bene questo piano e quello sotto per farti un'idea, con molta discrezione, mi raccomando."
Feci come mi aveva richiesto, un po' spaesato dalla disposizione delle luci. Non ero io a essere del tutto fuori luogo, era l'intera comunità di frequentatori a non esserci proprio. Insomma, quello che mi aspettavo era un locale piuttosto raffinato, visto che, essendo un casinò, erano richiesti determinati standard solo per potervi accedere. Da come mi ricordavo almeno. Per giocare, poi, era necessario sottostare a un'altra serie di norme, al Caesar ovviamente aggirate, come ebbi modo di vedere.
Lo ammetto, non mi fece una buona impressione la nuova gestione. Sarebbe stato un ottimo punto di ritrovo per dei boss mafiosi. Sperai fortemente di aver corso troppo con la fantasia mentre muovevo i primi passi incerti fuori dall'ascensore. Inspirai a fatica, sentivo la mia tensione farsi più pressante, ma spinsi tutto il mio malessere alla bocca dello stomaco. Il risultato dello sforzo fu una nausea fastidiosa. Presi altro tempo per distrarmi, appoggiandomi a un carrello di vivande con una tovaglia che toccava terra. Non è il momento di ricordare la sua morte, avanti Mike, pensa a cosa sei venuto a fare...
Mi addentrai nella fiumana di donne dai vestiti appariscenti e di signorine venute per la prima volta nel locale dando mostra del peggio di sé. Gli uomini sembravano quelli più a loro agio, un punto a loro favore. I pantaloni, constatai, furono uno degli elementi vincenti: potevano sentirsi a casa. Assiepati alle slot machine o attorno al tavolo della roulette russa, oppure a quello del poker – possibilmente in dolce compagnia– tentavano di estorcere con l'inganno il bottino alla dea Fortuna. Quella sorrideva al lato del tavolo, invitandoli a puntare cifre più elevate e, intanto, girava la roulette con dubbia imparzialità.
Finalmente raggiunsi il bancone del bar, dove mi attendeva un indaffarato spilungone alle prese con uno dei suoi ultimi cocktail della giornata. Tentai di essere il più carino possibile e mi occupai della sciacquatura dei bicchieri che si accumulavano sul bancone. Ammiccò nella mia direzione. Appena ebbe terminato con il suo capolavoro finale, mi strinse la mano, avvertendomi con una mitragliata di frasi spezzettate: "Ciao! tanto piacere collega! Sono George. Serataccia... Oggi ti lascio con un bel po' di responsabilità. Non vedevo l'ora che arrivassi, sai. Tra poco dovrebbe essere qui anche Jonah, il tuo supervisore. Ma tu comincia tranquillo, ok? Vorrei arrivare in tempo per la nascita di mia figlia, perciò rimandiamo presentazione e festeggiamenti al prossimo turno."
Gli sorrisi, sinceramente commosso per lui. Non ci salutammo nemmeno, bastò un rapido cenno del capo, visto che già uno dei giocatori si avvicinava al banco.
Quest'ultimo pareva vivere in un altro pianeta. Si sedette con la testa china su uno degli sgabelli e da lì non si mosse per un buon quarto d'ora. Nel frattempo il via vai dei visitatori si infittiva e la sua presenza, pur ingombrante, restava marginale, ombrosa. Ma quello non era il posto per rimanersene solo et pensoso.
Alla fine, non potendone più di vederlo immobile e sonnolento in primissima serata, mi arrischiai ad avvicinargli uno screwdriver.
Alzò lo sguardo, scosso dal mio gesto: "Ma io non ho..."
"Lo so, amico. Offre la casa!"
"Faccio così tanta pietà?" sorrise amaramente prendendo il bicchiere e portandosi la cannuccia alle labbra.
"No. Ma se ti siedi al bancone significa che hai bisogno di qualcosa. E due sono le cose che posso proporti: da bere e una chiacchierata..."
"Sei proprio uno sfacciato," mi disse, vuotando pian piano l'highball. "Preferisco un Gin tonic."
"Subito," risposi con un sorriso, "Ma stavolta dovrai offrire tu qualcosa o dovrò dire che sei un bugiardo per non aver apprezzato il mio screwdriver..."
"Non farai mai affari così," scosse il capo, tastandosi il portafoglio in tasca.
"Il mio compito è versare da bere e limitare le sbronze, tutto qua," alzai le spalle, porgendogli il bicchiere e ritirando il precedente.
"Adesso si spiega tutto," annuì prendendo il cocktail. Non lo bevve tuttavia; alzò con fatica gli occhi lucidi verso di me: "Che devo fare?"
La domanda mi spiazzò. Mi aspettavo che prima o poi l'uomo avrebbe rivelato il suo problema, ma non che mi chiedesse fin da subito come fare a risolverlo. Non sapevo niente di lui e non avevo veramente voglia di immischiarmi nel mare delle sue magagne personali. Eppure era un cliente e andava soddisfatto in ogni caso: "Parlare." Sganciai la bomba: impossibile recuperarla, mannaggia al mio buon cuore.
La stretta sul bicchiere si fece più sicura e la lingua gli si sciolse: "Ho appena perso trentamila euro."
Assenza di saliva e gola inaspettatamente secca furono i primi sintomi che percepii, seguiti da una stretta allo stomaco; non dissi nulla e cominciai ad asciugare i bicchieri, a riporli sulle mensole, adocchiando nel contempo un trio che si stava avvicinando. Parlare con certa gente non faceva bene alla mia salute. Dopo tutto quello che avevo fatto per rimanere con un basso profilo...
"Tren-ta-mi-la! Tu pensi: E allora? Qui sai benissimo che si viene per rischiare."
Ancora una volta me ne stetti zitto, lasciando a lui le redini del discorso.
"Sì, lo so. Dannazione! Se lo so... Ma io sono disoccupato e quei soldi mi servivano per pagare uno dei tanti debiti. Non ho possibilità di cercarli da un'altra parte in meno di un mese".
Non mi toglieva gli occhi di dosso, osservando ogni mia singola mossa con attenzione. Si passava di frequente la lingua sulle labbra e muoveva la gamba su e giù ritmicamente, come se si trovasse sopra un martello pneumatico. Era piuttosto nervoso e io mi sentivo scannerizzato. Non aveva tutte le rotelle a posto, lo screwdriver aveva sicuramente peggiorato le cose.
"C'è un'altra cosa che devi sapere. Non mi sono indebitato con una persona qualsiasi," soggiunse, risistemandosi sullo sgabello, la schiena più dritta e lo sguardo sempre puntato su di me.
"E come pensi di uscirne?" gli domandai.
"Bella questa! E io che volevo sentire da te cosa faresti nella mia situazione," mi canzonò beffardo.
L'opzione del suicidio mi balenò per un attimo nell'anticamera del cervello, lo devo dire. Mi sfiorò la mente pure l'immagine dell'uomo col cappello presente al mio colloquio. Strana connessione...
"Sinceramente?" gli chiesi, strofinando il penultimo bicchiere.
Annuì.
Sospirai: "Mi nasconderei per un pezzo e mi darei da fare a recuperarli."
Rise, com'era giusto che fosse. Dopotutto la mia non era una genialata, neanche lontanamente.
"Non essere stupido, ragazzo. Si vede che non hai esperienza con queste cose," mi rimproverò, portandosi alle labbra il drink. Stavo per dargli ragione, quando sbottò: "Non hai esperienza di come vanno gestite in maniera corretta."
"Non sono il miglior consigliere, è vero, dovevo avvertirti prima," gli sorrisi. In realtà ne sapevo qualcosa, ma non potevo sbilanciarmi: un allarme fastidioso risuonava nella mia testa da qualche minuto. Non dovevo fidarmi di quell'uomo, era troppo strano... Quel discorso non mi convinceva.
"Nah, non ti preoccupare. Sono io che ho sbagliato a caricarti dei miei problemi. Come puoi sapere? Anche se lavori qui sei così giovane. Fai bene il tuo lavoro e vedrai che avrai meno grane, credimi." Mi porse il bicchiere e passò agli arachidi salati. A quanto pareva, non si sarebbe mosso da lì per nulla al mondo.
"Amico, il bancone può essere il posto più accogliente al momento, ma ricorda che rimani sempre in un casinò," gli ricordai. Comprese il messaggio e sorrise.
"Davvero. Ragazzo, è stato un piacere conoscerti. Grazie per la chiacchierata... Mi sembra che sia il momento opportuno per tentare di nuovo, l'ultima volta". Mi strinse la mano e si avviò alla roulette del piano inferiore.
Non era quello che intendevo, ma, oh be'... Gli avrei offerto un altro giro di gin se mai fosse tornato.
Del trio che era arrivato nel frattempo e a cui avevo servito due Martini e un Rossini, solo la donna era rimasta; la coppia se n'era andata da due minuti traendosi un po' in disparte, salendo probabilmente al terrazzo.
La donna rimasta sola, dal rossetto talmente lucido da sembrare liquido, mi guardava con interesse.
"Desidera, signora?"
Sfoderò un sorriso bianchissimo e prese posto davanti a me, quello che era stato occupato dal tizio abbacchiato: "Indovina".
Alzai un sopracciglio, divertito. Avevo sempre desiderato indovinare i gusti della gente, nonostante in quell'occasione mi risultasse estremamente difficile. Diversi nomi di cocktail improbabili saltarono spintonandosi l'un l'altro sulla punta della mia lingua. Bloody Mary, Mimosa o acqua. Aspetta, perché acqua?
"Ti vedo in difficoltà," gli occhi le si illuminarono.
Iniziai a odiarla, mi ricordava troppo qualcun'altra. Ma la donna seduta di fronte a me aveva un'altra forma del viso, più tonda e frivola, nessuna lentiggine, i capelli più corti e chiari...
"Non dovrei esserlo?" le chiesi, prendendo un bicchiere, sfidandola.
Parve delusa e, d'un tratto, capii.
"Non vuole nulla del banco, vero? Non vuole qualcosa, ma qualcuno," dissi a voce bassa, concentrandomi sul suo volto.
Chinò il capo di lato, facendo oscillare il pendente tempestato di piccoli diamanti. Aveva il sorriso più dolce del mondo e la malizia più pungente tra le lunghe ciglia.
Fui distratto da un signore sulla sessantina che le si piantò di fianco, in piedi, richiedendo immediatamente da bere. La splendida medusa si era pietrificata per un istante, sciogliendosi poi ancora più sinuosamente nelle sue curve.
Sonia era più asciutta, meno zuccherosa. Più ciliegia, ecco.
Riportai la mia mente scombussolata al signore con gli occhiali spessi e scuri, tartarugati. Ma che diavolo mi era preso? Non potevo cedere alla demenza a quel punto della serata.
"Un Martini, grazie," domandò lui, schiarendosi la voce.
"Subito," risposi, disponendo il necessario.
A quel punto la donna si alzò, dicendo semplicemente: "Mi porteresti dell'acqua frizzante con del ghiaccio appena hai finito? Sono nella sala slot..." Si dileguò nella stessa direzione dell'uomo-screwdriver però...
Notai che tra le unghie smaltate le luccicava qualcosa, ma le pieghe del vestito coprirono l'oggetto, che non riuscii quindi a identificare.
Cogliendo il mio sguardo seguire il profilo della giovane donna, il signore appena arrivato schioccò la lingua: "Hey, vedi di farmi il Martini. Ho chiesto prima io, giovane, e non voglio aspettare."
Sorrisi: "Non si preoccupi, è pronto". Glielo presentai. Dopo un esame dubbioso e un rapido assaggio, parve soddisfatto.
"Ah, le donne di oggi... Ordinare dell'acqua, bah, robaccia! Chi beve acqua non è sincero, ecco cosa ti dico. Non cadere sotto l'incantesimo di due occhi da cerbiatta: quella ha artigli da tigre, fidati, ho esperienza. E nessun bicchiere mi ha mai tradito quanto una donna".
Non seppi ribattere. Ma preparai comunque il bicchiere per lei. L'unico problema era il banco: non potevo lasciarlo incustodito. Dov'era finito quell'altro barman che iniziava con me? Ormai era in ritardo di quasi un'ora...
Troppe cose non andavano alla prima sera di prova. Brutto segno...
Il sessantenne mi diede una manata sulla spalla, facendomi quasi rovesciare il contenuto del bicchiere. Dovevo essergli simpatico: "Non vedo Jonah. Di solito a quest'ora c'è sempre lui. Tu sei nuovo... Sai niente del mio compagno di bevute preferito? Lui non manca mai, viene a servirmi il mio Martini anche con quaranta di febbre..."
"No, non so niente di Jonah," mormorai, inorridendo nello scorgere Simon dietro una coppia disinibita che dava spettacolo vicino alle scale. Era davvero lui? Che ci faceva?
Il Caesar non era di certo il posto per deboli di cuore, ebbi modo di constatare poco dopo. E io ero fortemente a rischio. Troppi fantasmi si facevano strada tra i miei ricordi e premevano contro il lucchetto che li teneva sigillati in fondo all'inconscio. Mi avevano sottratto la chiave, non avevo più il controllo di nulla e rischiavo di schiantarmi sul pavimento.
Presi l'acqua e, passata l'iniziale esitazione, mi avviai verso la sala slot, fingendo di non accorgermi della presenza dell'investigatore.
"Ragazzo, che fai? Mi lasci qui?" Il sessantenne del Martini mi trattenne, sistemandosi gli occhiali.
"Due secondi e arrivo," dissi accondiscendente.
"Bah," brontolò quell'altro in totale disaccordo, ingurgitando un altro sorso.
Poi tutto divenne buio e si sollevarono dei piccoli urli di spavento, delle risate e alcuni sbuffi irritati da parte dei presenti. Come li capivo! Un corto circuito non è mai piacevole.
Nella mia mano il vassoio si fece più leggero: qualcuno aveva preso l'acqua. Come aveva fatto?
Sul mio collo scivolò quello che mi parve un cubetto di ghiaccio appena udii la sua voce: "Ti ho trovato, Thomas. Non puoi più scapparmi adesso".
Il passato che avevo tentato di dimenticare a tutti i costi era tornato a parlarmi; io però avevo perso la voce per rispondergli.
I cancelli del mio subconscio si spalancarono e i miei incubi peggiori fuoriuscirono furiosi, marciando sotto la guida di una febbrile fanfara.
Nella mia testa risuonarono dei campanelli infernali. Per poco non svenni.
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