XXX
Ripercorrendo le strade del Quartiere Locanda, Alessandro notò come non sembrasse cambiato nulla nell'arco di quell'anno e due mesi in cui era stato assente.
Ogni cosa era rimasta proprio lì dove l'aveva lasciata, eccezion fatta per la vecchia casa popolare in cui abitava con sua madre, la quale era stata assegnata ad una ragazza madre e ai suoi due figli gemelli, nati da appena cinque mesi. Nonostante l'informazione provenisse da una fonte certa, Alessandro volle sincerarsi della bontà di quanto gli era stato riferito, dal momento che sarebbe stato inutile recarsi in ospedale per trovare sua madre, essendo quest'ultima ancora in uno stato di incoscienza, provocato dal coma.
Dopo aver visto una giovane donna affacciata alla finestra di quella che un tempo era stata la sua cucina, intenta ad allattare a turno i bambini, il ragazzo non si prese nemmeno la briga di salire le scale per chiedere spiegazioni, ma al contrario sperò solo che in quella casa potesse finalmente regnare l'armonia che lui, per anni, aveva tanto desiderato.
Senza un posto dove andare, mentre era intento a guardarsi intorno in cerca di un albergo a poco prezzo nel quale trascorrere perlomeno la notte, l'occhio di Alessandro cadde sull'orologio della farmacia: le lancette segnavano le ore quattro e qualche minuto.
Così, il ragazzo si aggiustò sulla spalla la tracolla del borsone, e si diresse in piazza Roma, alla ricerca dei suoi amici, nella speranza di poter trovare anche loro lì dove li aveva lasciati l'ultima volta.
Quando Mattia e Marco lo videro arrivare in lontananza, dopo un primo momento di sbigottimento, gli corsero incontro dimenandosi come due forsennati.
– Figlio di puttana, quando sei uscito? –, esclamò Mattia, euforico al punto da non riuscire nemmeno a scandire bene quelle poche parole pronunciate.
– Proprio oggi. Mi hanno concesso uno sconto della pena per buona condotta e per meriti scolastici –, rispose Alessandro con la voce strozzata dall'entusiasmo, mentre i suoi amici lo strattonavano violentemente qua e là, tanto era grande la gioia di rivederlo.
– Mi raccomando devi raccontarci tutto per filo e per segno. Non pensare di potertela cavare con qualche frase di circostanza del cazzo, eh! –, lo incalzò Marco, dandogli rumorose pacche sulle spalle.
– Tranquilli, ragazzi, vi racconterò tutto nei dettagli, ma ora fatemi sedere sulla nostra amata panchina. Non potete immaginare quanto mi sia mancata! –, e così dicendo, Alessandro si mosse in direzione del suo vecchio liceo, seguito a ruota da Marco e Mattia.
Quando si fu sistemato un po' meglio, guardò gli amici con aria interrogativa, come se implicitamente si aspettasse che qualcuno girasse una canna. Dal momento che nessuno sembrava di quell'intenzione, Alessandro incuriosito si affrettò a chiedere spiegazioni.
Il primo a rispondere fu Marco: – Abbiamo smesso entrambi con qualsiasi tipo di droga. Facciamo giusto due tiri quando capita, ma non assumiamo più regolarmente. Pensa che abbiamo perfino smesso di spacciare... –
– Non che la cosa mi dispiaccia, sia chiaro, – affermò Alessandro con aria pensierosa, affrettandosi poi ad aggiungere – Ma come mai questo improvviso cambio di direzione? –
Questa volta, ci pensò Mad a chiarire i dubbi dell'amico: – Non c'è una ragione specifica, Botta, e in realtà non ci abbiamo dovuto nemmeno pensare troppo su. In fin dei conti credo che entrambi fossimo stanchi di fare quella vita, così come eravamo stanchi di dover essere sempre costretti a guardarci le spalle ovunque andassimo. Sono convinto di parlare a nome di tutti e due, poi non so se per Marco è stato lo stesso. –
– Per quanto mi riguarda, quello che è successo a te mi ha fatto molto riflettere, – si affrettò a chiarire Marco.
– Che intendi dire? Spiegati meglio –, disse Alessandro, ancor più confuso dalle parole dell'amico.
– Il concetto è semplice, Botta: pensiamo di essere tutti invulnerabili, eternamente giovani e intoccabili, ma quando un tuo amico finisce dentro per così tanto tempo, capisci che qui si fa sul serio, che non stiamo giocando ad un cazzo di videogame. Non ho dubbi nel dire che per me sei stato un grande esempio; la tua storia mi ha insegnato che più cerchi scorciatoie per non affrontare la realtà da ragazzo maturo, e più questa ti si accanirà contro quando sarà il momento. Per farti capire meglio, è come se un fulmine fosse caduto a mezzo metro da me e non mi avesse colpito. Ora ci penserò su due volte la prossima volta che vorrò correre in una foresta buia, durante il temporale. –
– Cazzo, Marco, sembra di sentir parlare me, con le mie similitudini ai limiti dell'assurdo! Però sì, ho capito quello che vuoi dire, – affermò Alessandro, lasciandosi sfuggire un sorriso di intesa.
– Bene, ma ora vediamo di smetterla con sti discorsi, che se no tra un po' finiremo con il dormire nello stesso letto, – rispose Marco, sorridendo a sua volta.
– Ma andate a farvi fottere! Se voi due volete dormire insieme fate pure, ma non contate su di me, che il primo che mi strofina addosso anche solo il pelo di una gamba, gli mozzo il pisello con le forbici –, aggiunse Mattia, fingendo di allontanarsi da dove erano seduti gli amici.
– A proposito, ragazzi, quasi dimenticavo: uscendo ho ritirato la posta e indovinate cosa ho trovato? Una lettera dal Nicaragua indirizzata a tutti noi –, esclamò Marco, estraendo dalla tasca una busta bianca molto stropicciata.
– Che cazzo vogliono i nicaragui da te? – domandò Mad con tono perplesso.
– Tralasciando il fatto che si chiamano "nicaraguensi", apriamo la busta e vediamo di scoprirlo. Spero che non abbia nulla a che fare con quei video porno che ho visto qualche giorno fa. Lo sapevo che non mi sarei dovuto fidare di te, Mad, così da rimanere sul mio cazzo di motore di ricerca preferito... –
Senza indugiare oltre, Marco iniziò a leggere ad alta voce il foglio che stringeva fra le mani:
Ciao ragazzi,
Vi chiedo fin da subito di perdonarmi se tutto a un tratto sono sparito nel nulla, ma sono stato costretto a far perdere le mie tracce, nonostante allontanarmi da voi sia sempre stata l'ultima cosa al mondo che potessi augurarmi accadesse. Ci tengo a rassicurarvi subito su qualsiasi voce abbiate sentito in merito a quello che mi è successo, poiché non vi è nulla di vero; ma andiamo con ordine, partendo dal principio.
La notte in cui sono andato a trovare Jania, quella fatidica notte in cui sono stato pestato dagli uomini di Jarrod, ho fatto una lunga camminata sul lungomare per schiarirmi un po' le idee, soprattutto riguardo alla questione del bambino. Devo essere sincero con voi, ragazzi: l'idea di far abortire Jania non mi è mai balenata nel cervello, nemmeno per un istante. Non saprei spiegare il perché, anche se posso ipotizzare che abbiano concorso svariati fattori tra cui il mare di notte, le stelle che si specchiavano a pelo d'acqua e altre simili cazzate, con le quali non voglio annoiarvi; posso solo dirvi, però, che mi sono ritrovato così, all'improvviso, più risoluto che mai a portare via Jania e il mio futuro figlio da Vedesta, affinché insieme avessimo potuto costruirci una famiglia. Nonostante dentro la mia testa continuassi a sentire una voce instancabile che sussurrava "Non ce la farai mai", le mie intenzioni erano diventate incrollabili, e niente avrebbe mai potuto far vacillare la mia risolutezza nel tramutarle in realtà. Così, prima di recarmi da Jania, iniziai a pensare ad un piano che non potesse fallire, e a un conseguente piano di riserva qualora le cose non fossero andate come avessi voluto. Il piano principale era di difficile realizzazione, ma non impossibile, e la buona riuscita dipendeva solo ed esclusivamente dal mio operato. Il piano di riserva, invece, era un autentico suicidio, dal momento che si affidava per la maggior parte al caso, senza che ci fosse alcun modo per riuscire a prevedere cosa sarebbe successo dopo la sua attuazione. In parole povere, speravo con tutto me stesso che il piano principale andasse a buon fine, così da non dovermi servire di quello di riserva.
Quando ebbi le idee chiare sul da farsi, andai a casa di Jania e le spiegai ogni cosa. Fui preciso fino ai minimi dettagli, e le intimai di lasciare Vedesta esattamente quindici giorni dopo il nostro incontro, ovvero il giorno in cui mi sarei presentato a casa di Jarrod per fargli la mia proposta. Fintanto Jania rimase in città, ella si comportò come aveva sempre fatto, in modo tale da non destare alcun sospetto, e in più, da fugare ogni possibilità che stessimo tramando qualcosa. Quando Jania fu ormai lontana da tutto e tutti, andai da Jarrod e gli proposi di accettare ottantamila euro consegnati in tre giorni, in cambio della libertà di tutti noi. Il bastardo rilanciò e ne pretese centomila in un solo giorno, costringendomi a ricorrere a metodi piuttosto illegali. Senza perdermi d'animo, mi recai al "Drago Verde", locale che anche voi conoscete piuttosto bene, e proprio quando ero sul punto di vincere la partita finale di poker e portarmi a casa i centomila, la polizia ha fatto irruzione nel posto e ci è mancato poco che mi arrestassero. Nel parapiglia generale sono riuscito ad afferrare appena trentamila euro, insufficienti per Jarrod, ma non per me e per quello che avevo in mente. Non avevo altra scelta se non mettere in atto il mio piano di riserva.
Qualche giorno prima di fare la proposta a Jarrod, mi ero recato alla clinica psichiatrica "Santa Rita", richiedendo un colloquio con il capo del reparto dedicato agli internati molto violenti. Dovete sapere che questo tipo di pazienti ha la particolarità non solo di essere rinchiuso in isolamento, senza alcuna possibilità di uscita, ma anche di non avere alcun contatto con l'esterno. In parole povere, proprio quello che avrebbe fatto al caso mio. Così, dopo aver offerto ventimila euro solo per iscrivere il mio nome tra i pazienti, spiegai al responsabile del reparto che egli avrebbe dovuto fare questa particolare operazione, solo se mi avesse visto arrivare qualche giorno più tardi steso su una barella, in preda ad attacchi d'ira incontrollati. Una volta svoltosi il tutto, io gli avrei prontamente consegnato i soldi, rigorosamente in contanti. Inutile dire che ci misi davvero poco a convincerlo e, inoltre, ebbi la fortuna di non dover rispondere a troppe domande.
Tre ore dopo essere stato trasportato d'urgenza all'interno della clinica, grazie a una interpretazione che mi sarebbe di sicuro valsa il premio Oscar, mi trovavo seduto in prima classe su un aereo con direzione Nicaragua.
Mi scuso ancora se non vi ho informato dei miei propositi, ma avevo bisogno che tutti, perfino voi e quel che resta della mia famiglia, fossero all'oscuro di ogni cosa, in modo tale che Jarrod fosse realmente convinto che avessi avuto un crollo psicologico. In questo modo, non trovando più Jania in nessuna parte della città, avrebbe desistito dal cercarla poiché avrebbe pensato di aver ottenuto comunque una vittoria dal momento che, a causa di tutta quella faccenda, ero stato internato in mezzo ai pazzi, senza possibilità di uscita. Non avevo modo di sapere se il mio piano avrebbe funzionato fintanto non l'avessi messo in pratica, e quando si è presentata l'occasione di farlo, ho pregato che tutto andasse per il meglio, come poi per fortuna è stato.
Ed ora eccomi qui, sulla spiaggia "Las Salinas" a pensarvi, mentre stringo tra le braccia mio figlio Juan, riflettendo sul fatto che il mare da queste parti sarà anche migliore di quello di Vedesta, ma a che serve se non posso condividere tutto questo con voi? Non vi dimenticherò mai, ragazzi, e spero di rivedervi molto presto.
Tornerò quando si saranno calmate le acque, ma sempre alle quattro in punto, sempre in piazza Roma.
Ora andatevene a fare in culo tutti quanti che se qualcuno intercetta la lettera e si mette a leggere quello che ho scritto mi scambia per gay.
Per sempre vostro,
Fava
P.s. salutate Botta da parte mia non appena esce e ringraziatelo di cuore, perché, non so se vi ricordate, ma l'idea del Nicaragua me l'aveva data proprio lui, mentre scherzavamo sulle panchine della piazza.
P.p.s. vi allego la foto, e finalmente cazzo ora posso dirlo, della mia famiglia.
I tre amici si guardarono l'un con l'altro e nessuno seppe cosa dire. Ognuno di loro era profondamente sollevato al pensiero che l'amico stesse bene, ma allo stesso tempo tutti si sentivano dannatamente affranti all'idea di non poterlo vedere prima che fosse trascorso molto tempo ancora.
Fava era sempre stato abile nel bluffare a poker e, nel farlo, eguagliava quasi suo padre. Questa volta, però, aveva bluffato ad un gioco molto più complesso e imprevedibile di quanto egli stesso potesse immaginare: era andato in all–in quando al tavolo verde la sua vita faceva da croupier, mentre lui non aveva nemmeno una buona carta in mano.
N.d.A devo fare i miei più sentiti complimenti a gesalva che nel commento al capitolo XXVI aveva già indovinato quali sarebbero state le sorti del nostro Fabio. Bravissima, soprattutto perchè non era facile carpire tutti gli indizi, ma tu ci sei riuscita alla grande!
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